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Autore: Onigiri    23/05/2011    0 recensioni
"La donna che sognai era la creatura più incantevole che un occhio umano potesse scorgere senza esserne accecato. Mi disse di essere la dea Kcranas e, perdiana!, per poco non ci rimasi secco mentre dormivo!
Mi disse anche di radunare più sacerdoti che potevo, di condurli al suo tempio, ognuno con un cesto, un panno di lino bianco e un ramo di carta, di pregare davanti alla sua statua e attendere la sua risposta.
[...]
Alla fine, tra un migliaio e passa, mi crederono solamente tre persone: portarono i loro cesti e tutto e ci chiudemmo a chiave nella sala delle penitenze per pregare.
E poi, all’esatto sorgere del sole, quelle tre ceste si sono riempite di luce, come torce bianche. Un miracolo! Quando la luce è cessata, sai cosa successe? Nelle ceste apparvero tre libri, e abbracciati a quei libri ci dormivano tre neonati."

Sono tante le cose che Merin non sa del suo passato, o della sua buffa voglia a forma di triangolo tatuata sul petto.
Che cos'è il Dio del Sonno?
Chi è quella bambina bellissima con una cicatrice al posto di un occhio?
E come può leggere un libro se le sue pagine sono completamente bianche?
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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I Figli Dei Sogni

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III








Fondamentalmente, erano tre le cose che Lanis temeva più di ogni altra al mondo.
Il fuoco, innanzitutto: quando Merin vedeva la signora Nita accendere il camino o il forno del pane aveva sempre notato come lui rimanesse ad una debita distanza da quelle fiammelle appena nate, e non ci si avvicinasse mai se non quando era costretto a farlo. Se si conosceva la storia di Lanis e delle cicatrici disegnate sulle sue mani, non era affatto difficile intuirne il motivo.
Poi c’erano le valanghe, ma quella era una fobia comune a tutta Luhne: ancor più del vento o del mare troppo forti, nulla atterriva gli abitanti dell’isola come l’idea di sentire il ruggito infernale della montagna e di svegliarsi sepolti vivi in una tomba di neve. Non era strano che molti genitori approfittassero di questa paura per sgridare i bambini e tenerseli buoni. “Se non la piantate di far chiasso vi porto tutte e due in alto, scavo una buca e vi getto dentro!”: il padre di Lanis aveva avuto innumerevoli occasioni di dire quelle parole quando lui e Merin, da piccoli, combinavano qualche guaio. Ogni volta loro si guardavano negli occhi, si prendevano per mano come per farsi coraggio e imploravano subito perdono piangendo disperati.
La terza paura di Lanis, non meno forte delle precedenti due, erano i serpenti: lo erano da quando se ne era ritrovato uno velenoso nel letto, attorcigliato alla sua gamba con la lingua biforcuta che gli solleticava tutta la curva del ginocchio. Il terrore che potesse morderlo lo aveva congelato sul posto impedendogli persino di chiedere aiuto, ed era rimasto perfettamente immobile sul materasso fino a quando suo padre, furioso perché non si era ancora presentato alla panetteria, non era andato in camera sua e lo aveva liberato da quello sgradevole intruso. 

La sensazione che Lanis provò in quel momento fu molto simile all’esperienza del serpente dentro il letto: qualcosa che gli afferrava la gamba, che strusciava contro la stoffa dei suoi pantaloni, emettendo un verso che gli ricordò quello di un sibilo agghiacciante. Quando poi la cosa, veloce come un razzo, si mosse sulla sua schiena e gli sfiorò il collo con denti appuntiti come spilli, il panico più puro lo investì  in pieno come un tornado. 

<<Lanis, no, stai fermo!>>
<<AAAAH! TOGLIMELO! TOGLIMELO!>>
<<Lan, sta calmo! Così non…>>
<<TOGLIETEMELO! TOGLIETEMELO SUBITO!>>

 Lanis non smise di agitarsi o urlare fino a quando Konoru riuscì a fargli capire che non aveva più niente attaccato alla spalla. A quel punto si lasciò cadere a terra, sudato e pallido, cercando di respirare di nuovo e grattandosi la schiena come per accertarsi di non avere davvero più il serpente addosso.
Solo dopo aver recuperato molto del suo fiato perso si accorse che Merin si era inginocchiata davanti a lui.  
<<Lan, ehi. Come ti senti?>>
Lanis annuì per far intendere che era tutto apposto. Si coprì la faccia con una mano e se la spalmò velocemente sulla fronte per togliere il sudore che gli stava bagnando i capelli della frangia. Il serpente non c’è più, Il serpente non c’è più: se lo ripeté fino a quando non fu certo di essersi calmato. Ma gli bastò alzare appena lo sguardo verso Merin per capire che, in realtà, il serpente non c’era mai stato: quando si accorse della cosa pelosa seduta sulle gambe dell’amica, la paura si sostituì allo stupore e un sopraciglio schizzò subito verso il punto più alto della fronte.
<<…che cos’è questo?!>>
<<E’ Patata!>> spiegò lei, come se stesse dicendo qualcosa di ovvio.

In realtà quel “è Patata” non esprimeva affatto l’idea di cosa fosse: dalla figura sembrava un orso in miniatura, col pelo color lillà, tre unghie appuntite per zampa e il naso nero e così grosso da riempirgli quasi tutto il muso. Completamente disinteressato a Lanis e Merin o al fatto che stessero parlando di lui, agitava felicemente la coda da barboncino  mentre tra i dentini quasi invisibili rosicchiava una delle foglie di pocce che erano rimaste impigliate tra i capelli di Lanis.
<<Tranquillo, non morde>>  Konoru gli si avvicinò e lo afferrò per un braccio per aiutarlo ad alzarsi e a recuperare le pocce che gli erano cadute. Lui non sembrò ascoltarlo tanto il suo interesse si era catapultato verso quello stranissimo animale tutto naso e pelliccia. Merin si mise in piedi a sua volta e abbracciò Patata con più forza, tanto che quello ingoiò velocemente il suo pasto e agitò le zampe felice di quelle attenzioni. <<Oh, Lan, non è un amore?>>
No!, avrebbe voluto rispondere lui, ma si trattenne, limitandosi a studiare quello strano animaletto senza dir nulla. Anche Patata, a un certo punto, puntò il muso nella sua direzione, e per un attimo sembrò quasi una gara a chi reggesse di più lo sguardo. Gli occhi dell’animale erano tondi, simili a biglie scure, così acquosi come quelli di un rospo da mettergli i brividi. Alla vista sembrava avere un pelo ruvido come carta vetrata, e avrebbe voluto avvicinare una mano per accarezzarlo ed accertarsene, se il timore che gli azzannasse un dito come aveva fatto prima con la foglia non lo avesse trattenuto. No, decisamente, quel mostriciattolo non gli piaceva affatto, e da come Patata lo guardava dalle braccia di Merin sembrava che l’antipatia fosse altamente ricambiata. 
<<Che cosa diavolo è?>>

<<Un VinHu>>   Konoru si mise di fianco alla figlia e iniziò a grattare la testa riccioluta di Patata: lui socchiuse gli occhi e commentò con un “Piùù!” soddisfatto, muovendo in modo buffo le orecchie a forma di bottone. 
<<Ne ho visti parecchi quando ero ragazzo. C’è stato un periodo in cui Luhne era una meta molto alla moda, e veniva a visitarla un sacco di gente ricca. C’erano tantissime  nobildonne che portavano dei VinHu al guinzaglio, ma erano molto più grandi di questo. Per i bambini era uno spettacolo perché erano tutti di colori diversi e ci piaceva fare a gara a chi riusciva ad accarezzarli senza essere visto dalla padrona.>> Konoru rise, evidentemente immerso in chissà quale buffo ricordo della sua infanzia. Poi tornò ad accarezzare Patata ricevendo in risposta un’altra serie di soddisfattissimi “Piùù!”. A quelle coccole improvvisate  si aggiunse anche Merin e l’animaletto iniziò ad agitarsi soddisfattissimo tra le sue braccia.
Quella scena fece sentire Lanis spiacevolmente escluso.
<<Ma qui come c’è arrivato?>> domandò in fretta, aspettando che l’attenzione generale tornasse su di lui  <<Se sono anni che non ne vedi uno questo da dove è saltato fuori?>>
<<Lo abbiamo trovato>> rispose subito Merin.
<<Era questa la cosa che ti volevo far vedere. Stanotte ci siamo svegliati perché c’erano dei rumori al piano di sotto, e abbiamo trovato Patata che cercava da mangiare nella credenza.>>
<<…e tuo padre non l’ha strangolato?>>

Konoru rise di nuovo, probabilmente non rendendosi conto di quanto serie fossero state le parole di Lanis.
Il padre di Merin diventava una furia quando si trattava di qualsivoglia tipo di scrocconi: scacciava via le cornacchie dall’orto come fossero le figlie del demonio, e se coglieva in flagrante un bambino intento a prendergli una sola patata senza permesso, il suo volto si colorava di viola e quando lo acchiappava lo trascinava per un orecchio fino a casa dei genitori attirando l’attenzione di tutto i paese se lo riteneva necessario. Persino Reno e Nils, i ladruncoli più esperti dell’isola, dopo una sola volta che ci avevano provato non si erano più permessi di avvicinarsi alla casa di Konoru nemmeno col pensiero.
Il fatto che quel piccolo VinHu fosse ancora tutto intero, e che fosse addirittura abbracciato e  coccolato come un piccolo imperatore, per Lanis aveva davvero dell’incredibile.
<<Sì però>>  riprese, stizzito <<Da dove viene? Forse... credete che è arrivato con la scorsa nave e che lo abbiano lasciato qui? Allora forse i padroni lo stanno cercando.>>
<<Probabilmente è come dici tu>> concordò Konoru con calma, incrociando le braccia al petto  <<e se qualcuno dovesse venire a riprenderselo, non vedo perché non dobbiamo ridarglielo.>>
<<E se fosse…>>

Merin si morse il labbro e aspettò che l’attenzione ricadesse su di lei prima di continuare. Sorretto dalle sue braccia, Patata strusciò il muso vicino al suo collo e chiuse gli occhi come per voler dormire: nel percepire quel movimento lei lo accarezzò ancora, senza guardarlo.
<<…è che… c’erano Reno e Nils nell’orto del Nonnino e hanno detto ch->>
<<Ma dai!>>   la interruppe Lanis, alzando le braccia come se dovesse afferrare qualche mosca  <<sul serio credi a quei due? Hanno sicuramente capito male o ci stavano prendendo in giro!>>
Konoru fece dondolare lo sguardo da Merin a Lanis, senza capire affatto di cosa stessero parlando
<<Che state dicendo?>>
Patata quasi cadde dalle braccia di Merin  quando lei si girò velocemente verso suo padre
<<Ci hanno detto che Gilbo stanotte ha intravisto una nave mentre pescava, e che una specie di tempesta che è scoppiata a largo, e che quindi la nave probabilmente arriverà in ritardo. Papà, potrebbe essere caduto da quella nave e poi aver nuotato fin qui, no?>>
<<Ma è strano! Non può esserci stata una tempesta senza che ce ne accorgessimo, ha fatto bel tempo in questi giorni. Non è così, Konoru?
>>

I due ragazzi fissarono l’adulto in attesa di una sua opinione, che però si fece attendere: lui li studiò entrambi con lo sguardo, uno dopo l’altro, e si grattò prepotentemente il collo mentre rifletteva sul parere da dare. <<Non lo so>> ammise alla fine, scrollando le spalle. 
Merin non sembrò gradire la risposta
<<Papà!>>
<<Senti, qui c’è del lavoro da fare ed io posso permettermi di starmene ancora fermo ad ascoltare le vostre storie. Ora prendi una zappa e poi il sacco del concime.>>
<<Ma non sono…>>
<<Merin, la zappa!>>

Merin s’irrigidì, un’espressione tra il dispiaciuto e il contrariato sul volto. Poi chiuse gli occhi, e trattenendo uno sbuffo dentro la bocca marciò nervosa verso casa con ancora Patata in braccio. Lanis la guardò aprire la porta con una sola spinta della mano, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito; quando poi vide la sua schiena sparire oltre la soglia, si grattò la testa e si rivolse a Konoru
<<E’ colpa mia se Merin ha fatto tardi…>>
<<Non preoccuparti>> lo interruppe lui con un sorriso un po’ tirato  <<E’ meglio se vai a casa piuttosto, come va la gamba di tuo padre?>>
<<Meglio>> mentì Lanis, mordendosi il labbro. 
In realtà Ruduf non faceva che lamentarsi, sbraitare contro la fasciatura che lo copriva dal ginocchio al polpaccio e contro il letto su cui era costretto a restare. Non era un uomo paziente, Ruduf: e da quando quell’albero gli era caduto addosso era diventato ancor più intrattabile del solito, ancor più incline alle parolacce che già da prima colorivano il suo linguaggio. Il non poter andare né a lavoro, né alla locanda, e nemmeno al bagno lo irritavano così tanto che solo la ferrea pazienza della moglie riusciva a sopportarlo più a lungo di qualche minuto. Per questo Lanis, quando qualcuno gli chiedeva notizie del suo padre adottivo, rispondeva sempre Sta meglio: era come un modo per convincersi che la gamba stava migliorando sul serio, e che presto sarebbero finiti quegli estenuanti giorni di tormento.

Konoru gli credette  <<Bene. Digli che passerò a trovarlo uno di questi giorni. Porterò una bella bottiglia di liquire, quindi avvisalo di mantenersi sobrio fino al mio arrivo>> accompagnò le sue parole con un veloce occhiolino,che però Lanis non vide neppure.
<<Mmm…>>  rispose vago, sporgendosi verso il punto in cui Merin era sparita e ancora non aveva fatto ritorno  <<Non avete bisogno di aiuto? Se avete una zappa in più posso darvi una mano.>>
<<No, ragazzo, torna a casa. Anche tua madre avrà bisogno di una mano>>.
Konoru gli dette una pacca sulla spalla e gli si avvicinò all’orecchio
<<Senti Lan, potresti tenere per te la faccenda di Patata almeno per qualche giorno?>>. 
Lanis si voltò a guardarlo, e l’odore della sua pelle lo investì in pieno come uno schiaffo di vento: un odore di sandalo, sudore, ma soprattutto di terra. Quello stesso aroma di terra di cui profumavano i capelli di Merin quando si scioglieva le trecce.
<<Certo, ma… perché?>>
<<Perché abbiamo davvero del lavoro in arretrato, e non voglio distrazioni. Se sapessero di Patata tutti verrebbero a vederlo e io starei ancora più indietro con l’orto. Capisci?>>

Lanis annuì quasi subito, perché la scena di tutta Luhne che saliva la montagna solo per guardare quella specie di orsacchiotto non gli sembrò affatto difficile da immaginare. Nell’isola si trovavano molte galline, muli e soprattutto pesci morti appesi sulle bancarelle del mercato, ma quasi nient’altro: gli animali che non aiutavano nel lavoro erano una vera rarità, come quel piccolo gabbiano che Slim il calzolaio aveva trovato sulla spiaggia, e che era stato una specie di mascotte per Luhne fino a quando non se ne era volato via, oltre il mare. Alla gente piaceva ancora dire Forse Gubby è tornato quando si vedeva uno stormo di gabbiani sorvolare l’isola o nuotare vicino alle reti dei pescatori. Persino Merin lo diceva, sebbene in realtà Gubby non l’avesse nemmeno mai visto in vita sua.
<<Ho capito, non lo dirò. Posso tornare più tardi per vedere se avete bisogno di qualcosa?>> 
<<Se tua madre te lo permette>> Konoru gli regalò un sorriso docile e un’altra pacca contro la schiena  <<Ma ora vai, ci vediamo dopo>>
Lanis fece in tempo a salutarlo con un “Ciao” veloce prima che anche il padre di Merin sparisse oltre la soglia di casa.

Con un sospiro e un sacco di pensieri che gli vorticavano in testa come mosche, Lanis si avviò verso casa sua. Decise di non passare per la Schiena del Drago, ma di percorrere i sentieri arcuati che guizzavano tra i campi, scoprendoli appiccicosi e bagnati per via del ghiaccio che si stava sciogliendo al sole. Fu il rumore della terra scheggiata dalla forza delle zappe ad accompagnare i suoi passi, insieme a un vento freddo e tanto forte da farlo sbilanciare in tutte le direzioni. Camminando, con le mani nelle tasche del cappotto e il mento immerso nel colletto alla ricerca di calore, si chiese di nuovo da dove poteva essere sbucato fuori quell’orrendo animaletto; non credeva alla teoria di Merin su una nave bloccata da una tempesta, ma nemmeno riusciva a trovare una qualche altra spiegazione convincente; era sul’isola da molto tempo, e solo da poco aveva deciso di avvicinarsi agli uomini? Qualcuno nell’isola lo teneva nascosto, fino a quando il VinHu non era riuscito a scappare? 
Avrebbe voluto chiedere a suo padre, perché di certo avrebbe dato una spiegazione molto più valida di quelle che gli stavano venendo in mente; ma aveva promesso a Konoru di non parlarne con nessuno, e sapeva che per un po' di tempo avrebbe dovuto lasciare quelle domande senza una risposta.  Sbuffando scocciato, accelerò il passo ignorando il gelo che gli pizzicava le guance come una dolorosissima pinza.

 Se alzava appena il naso dalle sue scarpe, oltre la salita poteva scorgere da lontano la lingua azzurra del mare. Sembrava chiamarlo, con quel suo lontano dondolio ipnotico e i luccichii che il sole stendeva sulle sue onde: si era sempre chiesto cosa ci fosse oltre l’orizzonte, o da dove venissero tutte quelle persone che con le navi venivano e se ne andavano da Luhne in continuazione. C’erano altre isole? Altri profumi? Altri colori? Altre voci che non fossero quelle tra le quali era cresciuto? 
Ogni volta che Lanis si chiedeva queste cose, pensava sempre di volerlo scoprire. Voleva andare via, affacciarsi in un posto che non fosse sempre Luhne: voleva vedere di che forma fosse fatta l’isola che occupava tutto il resto del mondo.
Ma Merin non voleva, e questo lo bloccava. Lei era così innamorata della loro montagna e del loro mare da non desiderarne affatto vederne di nuovi. Credeva che fosse proprio lì, a Luhne, tutto il resto mondo: e per Lanis, era lei tutto il mondo. Come avrebbe fatto a prendere una nave, e lasciarsi indietro la persona che più ricordava vicina a lui fin dove lo portavano i suoi ricordi?
Lanis scosse il capo, decidendo che stava pensando troppo e che la testa iniziava a fargli male. Staccò gli occhi dalla gobba dell’oceano per portarlo verso le mura sempre più vicine della città. 
Riconobbe con un mezzo sorriso il fumo dritto e grigiastro che sbuffava dal forno della sua panetteria, e quello più scuro e ancor più dritto sbucare fuori da dove doveva esserci l’officina del fabbro. Riusciva persino a scorgere il tetto verde e altissimo della distilleria dei fratelli Acquasanta, e si raccomandò di prendere la strada che andava il più lontano possibile dalla loro locanda: i fratelli Acquasanta erano quattro, erano grossi ed erano gli unici che vendessero alcol nell’isola. Acquasanta non era il loro vero nome, ma tutti li chiamavano così per quel loro ottimo liquore di nocciole di cui tutti andavano ghiotti: il padre di Lanis andava spesso alla loro locanda e altrettanto spesso litigava con qualcuno finendo anche col rompere qualche sedia, e per questo a nessuno dei quattro fratelli faceva piacere avere tra i piedi né lui, e nemmeno i membri della sua famiglia. Ogni volta che Lanis li incrociava per strada, anche solo uno alla volta, non si scambiavano mai più di un saluto, ma gli sembrava che lo guardassero come fosse un moscerino da schiacciare. 
Per questo a un certo punto si fermò, e decise di prendere una strada più lunga e di aggirare la città per un tratto pur di non avvicinarsi troppo alla loro locanda.
Man mano che proseguiva, le voci delle madri che richiamavano i bambini  per il pranzo iniziarono a riempirli dolcemente le orecchie, e l’odore di un pasto caldo sbirciò da una finestra aperta della casa più vicina. Fu con lo stomaco pieno di fame e i piedi che avevano appena varcato il paese di Luhne, che Lanis, immerso in una vasca di tranquilli e tiepidi pensieri, sentì quella voce per la prima volta in vita sua.

<<Stella stellina, chi è questa bambina?>>

Lanis frenò il passo, come se una forza più grande di lui lo avesse appena bloccato per le spalle. Si guardò attorno, un po’ smarrito, cercando di capire cosa gli avesse messo addosso quella specie di brivido che aveva appena sentito sulle braccia. Ma non vide né sentì nulla di diverso dal solito: il sentiero di pietra, le case piene di persone indaffarate, qualcuno non molto lontano che batteva un martello su un chiodo. Provò anche a girarsi su sé stesso, ma non vide altro se non la campagna che aveva appena finito di attraversare, e la montagna che si alzava verso il cielo piastrellato di nuvole color latte.
Non c’era nulla di strano, non c’era nulla di minaccioso. Dandosi dello stupido per l’essersi spaventato inutilmente, ricominciò a camminare.

<<La luna balla e canta, poi piange tutta affranta>>

 Ma si rifermò, e stavolta fu certo di aver sentito qualcosa. Si guardò a destra, poi a sinistra: osservò con cura le mura delle case che lo circondavano per capire se la voce veniva da qualche finestra lasciata aperta. Di nuovo, però, non vide nulla di strano. 
<<Perché mi spavento?>> si chiese ad alta voce, scuotendo il capo subito dopo. E’ solo qualcuno che canta. E’ qualcuno che canta. continuò a dirsi col pensiero, scrollando le spalle per togliersi di dosso quella brutta, pesantissima sensazione. Sfregò le mani sulle braccia e pensò che se fosse rimasto fermo sarebbe congelato, ora che il vento si era fatto ancora più forte. Pensò al caldo che avrebbe trovato in panetteria, a sua madre che forse lo avrebbe sgridato per le scarpe così sporche, al pranzo che lo aspettava.
Pensava proprio al pranzo, con la fame che gli mordicchiava prepotentemente lo stomaco, quando si fermò di nuovo.
E la vide. 

<<Il lume del cerino, si spegne sul cammino>>

 Luhne non era una grande isola, e tutti si conoscevano sia di viso che di nome: forse i bambini erano i più difficili da riconoscere, perché crescendo cambiavano e se non li si vedeva per molto tempo si rischiava facilmente di scambiarli per qualcun altro. Ma quella bambina lì, nascosta dentro il vicolo mentre cantava, Lanis era assolutamente certo di non averla mai vista prima.
Pensò che forse, se non la riconosceva, era perché gli dava le spalle: giocava con un cumulo di neve mezzo sciolta sul terreno, riparata dalle mura di due case vicine mentre se ne stava in ginocchio e compattava la neve per farne una specie di montagnetta. Lanis, incuriosito, si avvicinò fino ad entrare nel vicolo, dove il sole non arrivava e la penombra lo avvolse in una tetra morsa ghiacciata. Aveva un vestito strano, quella bambina: un insieme di merletti e stoffa nera dall’aria pregiata, le calze di pizzo, le scarpe pulite e verniciate, e lunghi nastrini dall’aria soffice tra i curatissimi riccioli dei capelli. Un abbigliamento troppo vistoso e troppo elegante per un’isola modesta come Luhne. Per  un momento Lanis si ritrovò a studiarlo con cura, incuriosito dalle sue pieghe morbide e dai suoi fiocchi vistosi: poi scosse la testa e si concentrò sulla bambina che ancora stava cantando. 

<<E la neve di sera, diventa rossa e nera>>

 <<Ehi, scusami>>
Lanis si inginocchiò e le guardò le spalle irrigidirsi sotto il bel vestito nero, forse non aspettandosi la presenza di qualcuno dietro di lei. Si chiese come avesse fatto a spaventarsi di una ragazzina così piccola, o di una voce così dolce da sembrare la ninnananna di un cherubino, ma non si trovò risposta.
Aspettò che la bambina si voltasse per poterla vedere in viso, ma lei continuò a dargli le spalle senza muovere un muscolo, rigida come se fosse appena diventata di pietra: gli ricordò una di quelle infantili sculture di neve che faceva con Merin quando arrivava l’inverno. 
<<Chi sei? Perché sei qui da sola? Ti…>>  Lanis allungò il collo nel vano tentativo di riuscire a vederle il volto  <<Ti serve aiuto per caso?>>
Pensò di allungare una mano per accarezzarle i capelli, ma decise di non farlo: erano di un colore così chiaro, così immacolato, che ebbe quasi paura di sporcarlo con le sue dita ricoperte di terriccio. Si ricordò delle sue pocce e allora provò ad allungargliene una, chiedendole se le piacevano e senza ricevere una risposta.
Ma poi la bambina si voltò. 
E lo guardò.

Col suo unico occhio rosso.











continua...







   
 
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