Fondamentalmente, erano tre le cose che Lanis temeva più di
ogni altra al mondo.
Il fuoco, innanzitutto: quando Merin vedeva la signora Nita
accendere il camino o il forno del pane aveva sempre notato come lui rimanesse
ad una debita distanza da quelle fiammelle appena nate, e non ci si avvicinasse
mai se non quando era costretto a farlo. Se si conosceva la storia di Lanis e
delle cicatrici disegnate sulle sue mani, non era affatto difficile intuirne il
motivo.
Poi c’erano le valanghe, ma quella era una fobia comune a
tutta Luhne: ancor più del vento o del mare troppo forti, nulla atterriva gli
abitanti dell’isola come l’idea di sentire il ruggito infernale della montagna
e di svegliarsi sepolti vivi in una tomba di neve. Non era strano che molti
genitori approfittassero di questa paura per sgridare i bambini e tenerseli
buoni. “Se non la piantate di far chiasso
vi porto tutte e due in alto, scavo una buca e vi getto dentro!”: il padre
di Lanis aveva avuto innumerevoli occasioni di dire quelle parole quando lui e
Merin, da piccoli, combinavano qualche guaio. Ogni volta loro si guardavano
negli occhi, si prendevano per mano come per farsi coraggio e imploravano subito
perdono piangendo disperati.
La terza paura di Lanis, non meno forte delle precedenti
due, erano i serpenti: lo erano da quando se ne era ritrovato uno velenoso nel
letto, attorcigliato alla sua gamba con la lingua biforcuta che gli solleticava
tutta la curva del ginocchio. Il terrore che potesse morderlo lo aveva
congelato sul posto impedendogli persino di chiedere aiuto, ed era rimasto
perfettamente immobile sul materasso fino a quando suo padre, furioso perché
non si era ancora presentato alla panetteria, non era andato in camera sua e lo
aveva liberato da quello sgradevole intruso.
La sensazione che Lanis provò in quel momento fu molto
simile all’esperienza del serpente dentro il letto: qualcosa che gli afferrava
la gamba, che strusciava contro la stoffa dei suoi pantaloni, emettendo un
verso che gli ricordò quello di un sibilo agghiacciante. Quando poi la cosa, veloce come un razzo, si mosse
sulla sua schiena e gli sfiorò il collo con denti appuntiti come spilli, il
panico più puro lo investì in pieno come
un tornado.
<<Lanis, no, stai fermo!>>
<<AAAAH! TOGLIMELO!
TOGLIMELO!>>
<<Lan, sta calmo! Così non…>>
<<TOGLIETEMELO! TOGLIETEMELO SUBITO!>>
Solo dopo aver recuperato molto del suo fiato perso si
accorse che Merin si era inginocchiata davanti a lui. <<Lan, ehi. Come ti
senti?>>
Lanis annuì per far intendere che era tutto apposto. Si
coprì la faccia con una mano e se la spalmò velocemente sulla fronte per
togliere il sudore che gli stava bagnando i capelli della frangia. Il serpente non c’è più, Il serpente non c’è
più: se lo ripeté fino a quando non fu certo di essersi calmato. Ma gli
bastò alzare appena lo sguardo verso Merin per capire che, in realtà, il
serpente non c’era mai stato: quando si accorse della cosa pelosa seduta sulle gambe dell’amica, la paura si sostituì
allo stupore e un sopraciglio schizzò subito verso il punto più alto della
fronte.
<<…che cos’è questo?!>>
<<E’ Patata!>> spiegò lei, come se stesse dicendo qualcosa di
ovvio.
In realtà quel “è Patata”
non esprimeva affatto l’idea di cosa fosse: dalla figura sembrava un orso in
miniatura, col pelo color lillà, tre unghie appuntite per zampa e il naso nero
e così grosso da riempirgli quasi tutto il muso. Completamente disinteressato a
Lanis e Merin o al fatto che stessero parlando di lui, agitava felicemente la
coda da barboncino mentre tra i dentini
quasi invisibili rosicchiava una delle foglie di pocce che erano rimaste
impigliate tra i capelli di Lanis.
<<Tranquillo, non morde>>
Konoru gli si avvicinò e lo afferrò per un braccio per aiutarlo ad
alzarsi e a recuperare le pocce che gli erano cadute. Lui non sembrò ascoltarlo
tanto il suo interesse si era catapultato verso quello stranissimo animale
tutto naso e pelliccia. Merin si mise in piedi a sua volta e abbracciò Patata con più forza, tanto che quello
ingoiò velocemente il suo pasto e agitò le zampe felice di quelle attenzioni. <<Oh, Lan, non è un amore?>>
No!, avrebbe
voluto rispondere lui, ma si trattenne, limitandosi a studiare quello strano
animaletto senza dir nulla. Anche Patata, a un certo punto, puntò il muso nella
sua direzione, e per un attimo sembrò quasi una gara a chi reggesse di più lo
sguardo. Gli occhi dell’animale erano tondi, simili a biglie scure, così
acquosi come quelli di un rospo da mettergli i brividi. Alla vista sembrava
avere un pelo ruvido come carta vetrata, e avrebbe voluto avvicinare una mano
per accarezzarlo ed accertarsene, se il timore che gli azzannasse un dito come
aveva fatto prima con la foglia non lo avesse trattenuto. No, decisamente, quel
mostriciattolo non gli piaceva
affatto, e da come Patata lo guardava dalle braccia di Merin sembrava che
l’antipatia fosse altamente ricambiata. <<Che
cosa diavolo è?>>
<<Un VinHu>> Konoru si mise di fianco alla figlia e iniziò a
grattare la testa riccioluta di Patata: lui socchiuse gli occhi e commentò con
un “Piùù!” soddisfatto, muovendo in
modo buffo le orecchie a forma di bottone.
<<Ne ho visti parecchi quando ero ragazzo. C’è stato un periodo in cui
Luhne era una meta molto alla moda, e veniva a visitarla un sacco di gente
ricca. C’erano tantissime nobildonne che
portavano dei VinHu al guinzaglio, ma erano molto più grandi di questo. Per i
bambini era uno spettacolo perché erano tutti di colori diversi e ci piaceva
fare a gara a chi riusciva ad accarezzarli senza essere visto dalla padrona.>>
Konoru rise, evidentemente immerso in chissà quale buffo ricordo della sua
infanzia. Poi tornò ad accarezzare Patata ricevendo in risposta un’altra serie
di soddisfattissimi “Piùù!”. A quelle coccole improvvisate si aggiunse anche Merin e l’animaletto iniziò
ad agitarsi soddisfattissimo tra le sue braccia.
Quella scena fece sentire Lanis spiacevolmente escluso. <<Ma
qui come c’è arrivato?>> domandò in fretta, aspettando che l’attenzione generale
tornasse su di lui <<Se sono anni che non ne vedi uno questo da dove è saltato
fuori?>>
<<Lo abbiamo trovato>> rispose subito Merin.
<<Era questa la cosa che
ti volevo far vedere. Stanotte ci siamo svegliati perché c’erano dei rumori al
piano di sotto, e abbiamo trovato Patata che cercava da mangiare nella
credenza.>>
<<…e tuo padre non l’ha strangolato?>>
Konoru rise di nuovo, probabilmente non rendendosi conto di
quanto serie fossero state le parole di Lanis.
Il padre di Merin diventava una furia quando si trattava di
qualsivoglia tipo di scrocconi: scacciava via le cornacchie dall’orto come
fossero le figlie del demonio, e se coglieva in flagrante un bambino intento a
prendergli una sola patata senza permesso, il suo volto si colorava di viola e
quando lo acchiappava lo trascinava per un orecchio fino a casa dei genitori
attirando l’attenzione di tutto i paese se lo riteneva necessario. Persino Reno
e Nils, i ladruncoli più esperti dell’isola, dopo una sola volta che ci avevano
provato non si erano più permessi di avvicinarsi alla casa di Konoru nemmeno
col pensiero.
Il fatto che quel piccolo VinHu fosse ancora tutto intero, e
che fosse addirittura abbracciato e
coccolato come un piccolo imperatore, per Lanis aveva davvero
dell’incredibile.
<<Sì però>> riprese,
stizzito <<Da dove viene? Forse... credete che è arrivato con la scorsa nave e che lo abbiano lasciato
qui? Allora forse i padroni lo stanno cercando.>>
<<Probabilmente è come dici tu>> concordò Konoru con calma, incrociando le braccia al petto <<e
se qualcuno dovesse venire a riprenderselo, non vedo perché non dobbiamo
ridarglielo.>>
<<E se fosse…>>
Merin si morse il labbro e aspettò che
l’attenzione ricadesse su di lei prima di continuare. Sorretto dalle sue
braccia, Patata strusciò il muso vicino al suo collo e chiuse gli occhi come
per voler dormire: nel percepire quel movimento lei lo accarezzò ancora, senza
guardarlo.
<<…è che… c’erano Reno e Nils nell’orto del Nonnino e hanno detto ch->>
<<Ma dai!>> la interruppe Lanis, alzando le braccia come se
dovesse afferrare qualche mosca <<sul serio credi a quei due? Hanno sicuramente
capito male o ci stavano prendendo in giro!>>
Konoru fece dondolare lo sguardo da Merin a Lanis, senza
capire affatto di cosa stessero parlando <<Che state dicendo?>>
Patata quasi cadde dalle braccia di Merin quando lei si girò velocemente verso suo padre <<Ci hanno detto che Gilbo stanotte ha intravisto una nave
mentre pescava, e che una specie di tempesta che è scoppiata a largo, e che
quindi la nave probabilmente arriverà in ritardo. Papà, potrebbe essere caduto
da quella nave e poi aver nuotato fin qui, no?>>
<<Ma è strano! Non può esserci stata una tempesta senza che
ce ne accorgessimo, ha fatto bel tempo in questi giorni. Non è così, Konoru?>>
I due ragazzi fissarono l’adulto in attesa di una sua
opinione, che però si fece attendere: lui li studiò entrambi con lo sguardo,
uno dopo l’altro, e si grattò prepotentemente il collo mentre rifletteva sul parere
da dare. <<Non lo so>> ammise alla fine, scrollando le spalle.
Merin non sembrò
gradire la risposta <<Papà!>>
<<Senti, qui c’è del lavoro da fare ed io posso
permettermi di starmene ancora fermo ad ascoltare le vostre storie. Ora prendi
una zappa e poi il sacco del concime.>>
<<Ma non sono…>>
<<Merin, la zappa!>>
Merin s’irrigidì, un’espressione tra il dispiaciuto
e il
contrariato sul volto. Poi chiuse gli occhi, e trattenendo uno sbuffo
dentro la
bocca marciò nervosa verso casa con ancora Patata in braccio.
Lanis la guardò aprire la porta con una sola spinta della mano,
lasciandosi sfuggire un sorriso divertito; quando poi vide la
sua schiena sparire oltre la soglia, si grattò la testa e si
rivolse a Konoru <<E’ colpa mia
se Merin ha fatto tardi…>>
<<Non preoccuparti>> lo interruppe lui con un sorriso un po’
tirato <<E’ meglio se vai a casa
piuttosto, come va la gamba di tuo padre?>>
<<Meglio>> mentì Lanis, mordendosi il labbro.
In realtà Ruduf
non faceva che lamentarsi, sbraitare contro la fasciatura che lo copriva dal
ginocchio al polpaccio e contro il letto su cui era costretto a restare. Non
era un uomo paziente, Ruduf: e da quando quell’albero gli era caduto addosso
era diventato ancor più intrattabile del solito, ancor più incline alle
parolacce che già da prima colorivano il suo linguaggio. Il non poter andare né
a lavoro, né alla locanda, e nemmeno al bagno lo irritavano così tanto che solo
la ferrea pazienza della moglie riusciva a sopportarlo più a lungo di qualche
minuto. Per questo Lanis, quando qualcuno gli chiedeva notizie del suo padre
adottivo, rispondeva sempre Sta meglio:
era come un modo per convincersi che la gamba stava migliorando sul serio, e
che presto sarebbero finiti quegli estenuanti giorni di tormento.
Konoru gli credette <<Bene. Digli che passerò a trovarlo uno
di questi giorni. Porterò una bella bottiglia di liquire, quindi avvisalo di
mantenersi sobrio fino al mio arrivo>> accompagnò le sue parole con un veloce
occhiolino,che però Lanis non vide neppure.
<<Mmm…>> rispose vago, sporgendosi
verso il punto in cui Merin era sparita e ancora non aveva fatto ritorno <<Non avete bisogno di aiuto? Se avete una zappa in più posso darvi una mano.>>
<<No, ragazzo, torna a casa. Anche tua madre avrà bisogno di una
mano>>.
Konoru gli dette una pacca sulla spalla e gli si avvicinò all’orecchio <<Senti Lan, potresti tenere per te la faccenda di Patata almeno per qualche
giorno?>>.
Lanis si voltò a guardarlo, e
l’odore della sua pelle lo investì in pieno come uno schiaffo di vento: un
odore di sandalo, sudore, ma soprattutto di terra. Quello stesso aroma di terra
di cui profumavano i capelli di Merin quando si scioglieva le trecce. <<Certo, ma… perché?>>
<<Perché abbiamo davvero del lavoro in arretrato, e non
voglio distrazioni. Se sapessero di Patata tutti verrebbero a vederlo e io starei
ancora più indietro con l’orto. Capisci?>>
Lanis annuì quasi subito, perché la scena di tutta Luhne che saliva la
montagna solo per guardare quella specie di orsacchiotto non gli sembrò affatto
difficile da immaginare. Nell’isola si trovavano molte galline, muli e
soprattutto pesci morti appesi sulle bancarelle del mercato, ma quasi
nient’altro: gli animali che non aiutavano nel lavoro erano una vera rarità,
come quel piccolo gabbiano che Slim il calzolaio aveva trovato sulla spiaggia,
e che era stato una specie di mascotte per Luhne fino a quando non se ne era
volato via, oltre il mare. Alla gente piaceva ancora dire Forse Gubby è tornato quando si vedeva uno stormo di gabbiani sorvolare
l’isola o nuotare vicino alle reti dei pescatori. Persino Merin lo diceva,
sebbene in realtà Gubby non l’avesse nemmeno mai visto in vita sua.
<<Ho capito, non lo dirò. Posso tornare più tardi per vedere
se avete bisogno di qualcosa?>>
<<Se tua madre te lo permette>> Konoru gli regalò
un sorriso docile e un’altra pacca contro la schiena <<Ma ora vai, ci vediamo
dopo>>
Lanis fece in tempo a salutarlo con un “Ciao” veloce prima
che anche il padre di Merin sparisse oltre la soglia di casa.
Con un sospiro e un sacco di pensieri che gli vorticavano in
testa come mosche, Lanis si avviò verso casa sua. Decise di non passare per la
Schiena del Drago, ma di percorrere i sentieri arcuati che guizzavano tra i
campi, scoprendoli appiccicosi e bagnati per via del ghiaccio che si stava
sciogliendo al sole. Fu il rumore della terra scheggiata dalla forza delle
zappe ad accompagnare i suoi passi, insieme a un vento freddo e tanto forte da
farlo sbilanciare in tutte le direzioni. Camminando, con le mani nelle tasche
del cappotto e il mento immerso nel colletto alla ricerca di calore, si chiese
di nuovo da dove poteva essere sbucato fuori quell’orrendo animaletto; non
credeva alla teoria di Merin su una nave bloccata da una tempesta, ma nemmeno
riusciva a trovare una qualche altra spiegazione convincente; era sul’isola da
molto tempo, e solo da poco aveva deciso di avvicinarsi agli uomini? Qualcuno
nell’isola lo teneva nascosto, fino a quando il VinHu non era riuscito a scappare?
Avrebbe voluto chiedere a suo padre, perché di certo avrebbe
dato una
spiegazione molto più valida di quelle che gli stavano venendo
in mente; ma
aveva promesso a Konoru di non parlarne con nessuno, e sapeva che per
un po' di tempo avrebbe dovuto lasciare quelle domande senza una
risposta. Sbuffando scocciato,
accelerò il passo ignorando il gelo che gli pizzicava le guance
come una
dolorosissima pinza.
Se alzava appena il
naso dalle sue scarpe, oltre la salita poteva scorgere da lontano la lingua azzurra del
mare. Sembrava chiamarlo, con quel suo lontano dondolio ipnotico e i luccichii
che il sole stendeva sulle sue onde: si era sempre chiesto cosa ci fosse oltre
l’orizzonte, o da dove venissero tutte quelle persone che con le navi venivano
e se ne andavano da Luhne in continuazione. C’erano altre isole? Altri profumi?
Altri colori? Altre voci che non fossero quelle tra le quali era cresciuto?
Ogni
volta che Lanis si chiedeva queste cose, pensava sempre di volerlo
scoprire. Voleva
andare via, affacciarsi in un posto che non fosse sempre Luhne: voleva
vedere di che forma fosse fatta l’isola che occupava tutto il
resto del mondo.
Ma Merin non voleva, e questo lo bloccava. Lei era così
innamorata della loro montagna e del loro mare da non desiderarne affatto
vederne di nuovi. Credeva che fosse proprio lì, a Luhne, tutto il resto mondo:
e per Lanis, era lei tutto il mondo. Come avrebbe fatto a prendere una nave, e
lasciarsi indietro la persona che più ricordava vicina a lui fin dove lo portavano i suoi
ricordi?
Lanis scosse il capo, decidendo che stava pensando troppo e
che la testa iniziava a fargli male. Staccò gli occhi dalla gobba dell’oceano
per portarlo verso le mura sempre più vicine della città.
Riconobbe con un
mezzo sorriso il fumo dritto e grigiastro che sbuffava dal forno della sua
panetteria, e quello più scuro e ancor più dritto sbucare fuori da dove doveva
esserci l’officina del fabbro. Riusciva persino a scorgere il tetto verde e
altissimo della distilleria dei fratelli Acquasanta, e si raccomandò di
prendere la strada che andava il più lontano possibile dalla loro locanda: i
fratelli Acquasanta erano quattro, erano grossi ed erano gli unici che
vendessero alcol nell’isola. Acquasanta
non era il loro vero nome, ma tutti li chiamavano così per quel loro ottimo
liquore di nocciole di cui tutti andavano ghiotti: il padre di Lanis andava spesso alla loro locanda e altrettanto spesso
litigava con qualcuno finendo anche col rompere qualche sedia, e per questo a
nessuno dei quattro fratelli faceva piacere avere tra i piedi né lui, e nemmeno
i membri della sua famiglia. Ogni volta che Lanis li incrociava per strada,
anche solo uno alla volta, non si scambiavano mai più di un saluto, ma gli sembrava che lo guardassero come fosse un
moscerino da schiacciare.
Per questo a un certo punto si fermò, e decise di prendere
una strada più lunga e di aggirare la città per un tratto pur di non
avvicinarsi troppo alla loro locanda.
Man mano che proseguiva, le voci delle madri che
richiamavano i bambini per il pranzo iniziarono
a riempirli dolcemente le orecchie, e l’odore di un pasto caldo sbirciò da una
finestra aperta della casa più vicina. Fu con lo stomaco pieno di fame e i
piedi che avevano appena varcato il paese di Luhne, che Lanis, immerso in una
vasca di tranquilli e tiepidi pensieri, sentì quella voce per la prima volta in
vita sua.
<<Stella stellina, chi
è questa bambina?>>
Lanis frenò il passo, come se una forza più grande di lui lo avesse
appena bloccato per le spalle. Si guardò attorno, un po’ smarrito, cercando di
capire cosa gli avesse messo addosso quella specie di brivido che aveva appena sentito sulle braccia. Ma non vide
né sentì nulla di diverso dal solito: il sentiero di pietra, le case piene di
persone indaffarate, qualcuno non molto lontano che batteva un martello su un
chiodo. Provò anche a girarsi su sé stesso, ma non vide altro se non la campagna
che aveva appena finito di attraversare, e la montagna che si alzava verso il
cielo piastrellato di nuvole color latte.
Non c’era nulla di strano, non c’era nulla di minaccioso.
Dandosi dello stupido per l’essersi spaventato inutilmente, ricominciò a
camminare.
<<La luna balla e canta, poi piange tutta affranta>>
<<Perché mi spavento?>> si chiese ad alta voce,
scuotendo il capo subito dopo. E’ solo
qualcuno che canta. E’ qualcuno che canta. continuò a dirsi col pensiero,
scrollando le spalle per togliersi di dosso quella brutta, pesantissima
sensazione. Sfregò le mani sulle braccia e pensò che se fosse rimasto fermo
sarebbe congelato, ora che il vento si era fatto ancora più forte. Pensò al caldo che
avrebbe trovato in panetteria, a sua madre che forse lo avrebbe sgridato per le
scarpe così sporche, al pranzo che lo aspettava.
Pensava proprio al pranzo, con la fame che gli mordicchiava prepotentemente lo stomaco, quando si fermò di nuovo.
E la vide.
<<Il lume del cerino, si spegne sul cammino>>
Pensò che forse, se non la riconosceva, era perché gli dava
le spalle: giocava con un cumulo di neve mezzo sciolta sul terreno, riparata
dalle mura di due case vicine mentre se ne stava in ginocchio e compattava la neve
per farne una specie di montagnetta. Lanis, incuriosito, si avvicinò fino ad
entrare nel vicolo, dove il sole non arrivava e la penombra lo avvolse in una tetra
morsa ghiacciata. Aveva un vestito strano, quella bambina: un insieme di
merletti e stoffa nera dall’aria pregiata, le calze di pizzo, le scarpe pulite
e verniciate, e lunghi nastrini dall’aria soffice tra i curatissimi riccioli
dei capelli. Un abbigliamento troppo vistoso e troppo elegante per un’isola modesta
come Luhne. Per un momento Lanis si
ritrovò a studiarlo con cura, incuriosito dalle sue pieghe morbide e dai suoi
fiocchi vistosi: poi scosse la testa e si concentrò sulla bambina che ancora
stava cantando.
<<E la neve di sera, diventa rossa e nera>>
Lanis si inginocchiò e le guardò le spalle irrigidirsi sotto
il bel vestito nero, forse non aspettandosi la presenza di qualcuno dietro di
lei. Si chiese come avesse fatto a spaventarsi di una ragazzina così piccola, o
di una voce così dolce da sembrare la ninnananna di un cherubino, ma non si
trovò risposta.
Aspettò che la bambina si voltasse per poterla vedere in
viso, ma lei continuò a dargli le spalle senza muovere un muscolo, rigida come
se fosse appena diventata di pietra: gli ricordò una di quelle infantili sculture
di neve che faceva con Merin quando arrivava l’inverno.
<<Chi sei? Perché sei qui da sola? Ti…>> Lanis
allungò il collo nel vano tentativo di riuscire a vederle il volto <<Ti serve
aiuto per caso?>>
Pensò di allungare una mano per accarezzarle i capelli, ma
decise di non farlo: erano di un colore così chiaro, così immacolato, che ebbe
quasi paura di sporcarlo con le sue dita ricoperte di terriccio. Si ricordò
delle sue pocce e allora provò ad allungargliene una, chiedendole se le
piacevano e senza ricevere una risposta.
Ma poi la bambina si voltò.
E lo guardò.
Col suo unico occhio
rosso.