Bohemian
Rhapsody
- Queen.
Felix
non si limitava a ricordare quanto accaduto. Quella brutta vicenda era una
visione che si riproponeva all’improvviso, risucchiandolo ogni volta
nell’orrore, nella sequenza rapida di azioni, nelle decisioni prese su due
piedi, come se fosse reale, come se fosse il presente.
Suo
fratello con un foro d’arma da fuoco nel mezzo della fronte, dissanguato sul
pavimento della cucina, per essere precisi.
-
Cosa hai fatto, Felix? Cosa hai fatto? -.
Sua madre lo guardava inorridita,
con le mani sulle labbra. Il sangue le macchiava il viso e i capelli, rendendo
inquietante e macabra la sua figura solitamente bella e vivace. Le lacrime
spezzavano la morbidezza dei suoi zigomi, veloci e tormentate come un torrente.
Suo padre gli tolse la pistola
dalle mani, con la calma e la professionalità tipiche di un poliziotto esperto.
-
Mamma io non...io... -.
-
Come...tuo fratello era malato, era malato e...tu l’hai ucciso, Felix! -.
Janis cominciò ad urlare,
piegandosi sul corpo di Tristan, inerme e sempre più pallido.
-
L’hai ucciso! -.
La sua voce cominciò a suonare
famelica, distrutta dall’angoscia. Lo fissò come una leonessa pronta
all’attacco e a Felix passò per la mente il terribile pensiero che si sarebbe
alzata e gli avrebbe sparato per vendetta.
-
Nessuno dovrà mai sapere niente di questa storia. Diremo che Tristan si è
suicidato -.
Mason pulì meticolosamente il
calcio e il grilletto della Colt con un canavaccio, spostando lo sguardo dal
corpo di Tristan, a sua moglie e infine a Felix che boccheggiava impotente.
-
Ecco cosa diremo, sì, suicidio, ecco cosa -.
Cominciò a farfugliare, prima che
i lamenti di Janis sovrastassero ogni voce e prima che il mondo della famiglia
Bert sbiadisse, privo di speranze.
Quando
riuscì a scrollarsi di dosso quella sensazione di pesantezza che lo opprimeva
al raffiorare dei ricordi, Felix si rese conto di essere di fronte alla porta
del suo appartamento. C’era arrivato senza accorgersene, condotto da un
riflesso istintivo. I suoi piedi avanzavano
da soli, incastrandosi alla perfezione nelle impronte impresse su quella strada
di monotonia. Tirò un lungo sospiro che sapeva di alcool e infilò la chiave
nella toppa. Cercò di essere il più silenzioso possibile per non svegliare la
sua coinquilina, premura che si rivelò inutile. Nelly era seduta sul divano, in
attesa: il suo piccolo piede destro batteva ritmicamente sul pavimento,
anticipando la sua impazienza.
Felix
si aspettava la solita ramanzina, quindi si concesse un ultimo secondo di calma,
fissando la sua figura per l’ennesima volta, senza riuscire a trovare in essa
nulla di accattivante.
Per
carità, lei era bella come le modelle sulle copertine dei giornali,
con i suoi cortissimi capelli ramati e la sua magrezza, gli occhi cobalto e la
pelle puntinata di simpatiche lentiggini, eppure cos’altro c’era? Cos’altro
aveva da offrirgli? Felix non notava nulla di spiccato nella sua personalità,
non riusciva ad apprezzare la piattezza del suo modo di essere, la sua
superficialità e la sua ignoranza. La bellezza un giorno sarebbe passata anche
per lei, sinuosa ed elegante bambina sulla passerella, e a quel punto cosa le
sarebbe rimasto?
Felix
c’era finito a letto, lo ammetteva senza vergogna, ma sapeva che nel mondo lei
non era coraggiosa come in una stanza. Sapeva che il futuro con una come Nelly
non era un’opzione.
Tralasciando che per lui il
futuro non concedeva possibilità a prescindere.
- Dove diamine sei stato? -.
Scattò
come una molla, una belva sul piede di guerra, eccitante ed agile nella sua
vestaglia di seta.
- Devi reagire così tutte le
santissime volte? -.
Cercò
di obiettare Felix, senza successo. Nelly aggirò il divano come se fosse la
carcassa di una preda dissanguata e lei si stesse semplicemente preparando ad
assaporare la portata successiva.
- Certo che devo, idiota! Sono le
sei del mattino ed io mi sono preoccupata per te fino a poco prima che
rientrassi, poi ho capito che potevi semplicemente andare a farti fottere! -.
Lui
infilò le mani nelle tasche posteriori dei jeans, osservando le bottiglie di
birra sparse per l’appartamento, i fazzoletti accartocciati negli angoli e
l’appiccicume sulle mattonelle, notando infine una polo bianca abbandonata
sulla poltrona.
Nelly
aveva dato uno dei suoi festini infrasettimanali e, con tutta probabilità, il
proprietario di quella polo era ancora attorcigliato nelle lenzuola del suo
letto.
- Non
mi sembra che tu ti sia annoiata in mia assenza -.
Sollevò
un sopracciglio ed arrestò la replica di Nelly poggiandole l’indice sulle labbra.
- Tesoro, non fare la mammina
isterica con me, non ne ho bisogno. La mia unica necessità è che tu pulisca
alla svelta questo schifo -.
Girò
sui tacchi, desiderando ardentemente di chiudersi in camera e non sentirla più
fiatare ma, come era proprio dello stile di Nelly, lei dovette aggiungere
qualcosa che le sembrava brillante e necessario all’umanità.
- Sarò pure una donna, ma non
servo solo a pulirti casa, ho dei diritti e merito rispetto! -.
Schioccò
la lingua e batté le palpebre dalle ciglia vertiginosamente lunghe, per
conferirsi un’aria di superiorità. Felix inspirò per calmarsi: odiava dal
profondo del cuore quel suo modo di portare ogni discussione sul piano del
sessismo, come se lui fosse uno schifoso maschilista che la trattava a pesci in
faccia. La verità era che Nelly, come molte altre donne, si faceva scudo con la
discriminazione dei sessi, si parava il
culo per dirla in parole povere, ma poi i suoi principali interessi si
riducevano a cosmetici e gossip e lei al mondo non sapeva proprio cosa offrire,
eccezion fatta per il suo corpo. Era la
prima a non rispettarsi, come mai avrebbero potuto farlo gli altri?
- Sì, dai, giochiamo a fare le
femministe incallite, Nelly, molto astuto! Peccato che avere le ovaie non
necessariamente voglia dire saper usare il cervello -.
Ringhiò,
sbattendo alle sue spalle la porta della stanza. Si ritrovò al buio, sentendo
la gola bruciargli e le mani fremere dalla voglia di spaccare qualcosa. Senza
accendere la luce, raggiunse tentoni il letto e si accasciò sul materasso,
addormentadosi subito.
Gabby
guardò un’altra volta Berell, richiamando a sé più forza di quanta in realtà
avesse a sua disposizione. Drizzò le spalle, chiuse la porta e attraversò la
camera a grandi falcate. Era tenuta in penombra, spartana e senza mobili,
eccetto il letto e la sedia su cui lui vegetava, apatico.
- Come ti senti? -.
Poggiò
le piccole mani sulle ginocchia del suo amico, speranzosa in una risposta che
forse nemmeno quel giorno sarebbe arrivata. Tutte le mattine lei passava almeno
mezz’ora in sua compagnia, nella maggior parte dei casi senza fiatare. Cercava
di capire, di cogliere un segno dal tanto decantato silenzio, senza riuscire a
sentirci dentro alcuna verità. Non
c’erano mille spiegazioni nel silenzio di Berell, non c’erano emozioni, non
c’erano miglioramenti. Sospirò e lasciò la stanza.
Quella
deprimente scenetta si era ripetuta più volte al giorno sin da quando erano
arrivati lì, quasi due mesi prima.
- Gab, è pronta la colazione -.
Vanda
si destreggiava tra padelle e pentolini come se fossero il suo habitat
naturale. Fermandosi sull’uscio della cucina, Gabby si domandò se smettere di
combattere e vivere una vita normale, forse noiosa e ripetitiva ma familiare, fosse una possibilità per
loro oppure soltanto un’illusione.
Magari
il posto di Vanda era davvero dietro ai fornelli. Ed il suo... chissà! Il mondo
era un ventaglio di opportunità da capogiro, di occasioni, di proposte, c’era
da aver paura di non saper scegliere più che di non aver scelta.
- Si, ehm, non ho fame -.
L’odorino
del frittelle e della marmellata, in realtà, l’allettava parecchio, così come
l’aroma di caffè che abbracciava la casa, ma la voglia vera e propria di
mangiare le era passata da un bel po’.
Vanda
le scoccò un’occhiataccia, sbattendo una presina sul tavolo e lasciandosi
cadere su una sedia, con il tonfo leggero del suo bel corpo. A Gabby era sempre
sembrata una donna meravigliosa, eppure la tristezza, invece di appassirla, le
aveva donato un nuovo fascino, un’attraente aria da sopravvissuta.
I
suoi occhi erano sempre un po’ socchiusi, nascondevano le iridi ghiacciate come
se fossero un segreto imbarazzante. I lunghissimi capelli color mogano si
attorcigliavano sulla schiena come tentacoli di una spaventosa creatura marina
e la sua pelle bruna dava l’impressione che il Sole la cercasse e scovasse il
suo viso morbido per baciarlo e baciarlo e baciarlo ancora. Non era perfetta,
né truccata o magrissima, era morbida e naturale come un fiore.
- Be’, vedi di fartela venire,
perché di questo passo scomparirai -.
Vanda
l’aveva fulminata con lo sguardo, ma Gabby non si sentì affatto mortificata.
Era ben nutrita, non era così sciocca da dimenticarsi di se stessa: il problema
è che aveva perso il gusto delle cose e, in quel caso specifico, del cibo.
Questo era ciò che preoccupava Vanda: la vedeva perdersi ogni giorno di più,
quasi volesse raggiungere Berell nel suo mondo malato e muto.
- Ti prego -.
Gabby
avrebbe voluto fare uno sforzo per Vanda, avrebbe sinceramente voluto sedersi e
ridere, ostentando una serenità che le apparteneva solo nei ricordi, ma non
poteva, perché Vanda scovava le bugie come un gatto a caccia di ratti. Cercare
di ingannarla era solo stupidità sprecata.
- Mi dispiace -.
Mormorò,
afferrando una fetta biscottata ed uscendo di corsa. Non appena mise i piedi in
strada, il vento le sferzò il viso, pizzicandole gli occhi già umidi di
lacrime.
Riponi le tue speranze nel
domani, Vanda, oggi è ancora un giorno del passato. Oggi non c’è vita per noi,
ma solo macerie. Riponi le tue speranze nel domani, perché oggi io non esisto, oggi
io non posso affiancarti nei tuoi desideri.
Mama, life had
just begun, but now I've gone and thrown
it all away. Mama, didn't mean to make you cry. If I'm not back again this
time tomorrow carry on, carry on, as if nothing really matters.