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Autore: ShopaHolic    30/05/2011    2 recensioni
Estate 2009. Dopo quattro anni dall’uscita di American Idiot, i Green Day sono tornati con un nuovo album, e il tour è finalmente alle porte. Ma se le cose non andassero esattamente come erano state previste? Se un improvviso imprevisto li costringesse a rimandare la partenza, e la cosa avesse ripercussioni serie sull'animo di Billie Joe Armstrong? E se fosse l'incontro fortuito con una curiosa ragazza dal nome evocativo e dal passato misterioso, totalmente estranea al suo mondo, a portare scompiglio nella vita di tutti?
Dal capitolo 20:
«Mi rendo perfettamente conto che è sbagliato, e che è un errore essere qui adesso. Ed è anche rischioso, considerando l’accanimento mediatico che c’è su di te ultimamente, ma ci sono persone che si sono sacrificate tanto, per me, affinché io fossi felice, e pur sapendo che queste persone non approverebbero mai quello che sto facendo, io sento che è quello che voglio. Io voglio sentirmi viva e felice. E non so per quanto durerà tutto questo, ma io mi sento così, adesso, e se anche dovesse finire tutto nel giro di cinque minuti, io sarò lo stesso contenta di averlo vissuto.»
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Billie J. Armstrong, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il coraggio di rialzarsi da sola

 
Dopo quella sera -la sera in cui aveva finalmente scoperto tutta la verità sul suo passato- il comportamento di Gloria mutò a vista d’occhio nel giro di pochissime ore, rapido e incontrollabile come la furia di un tornado.
I sentori di questo cambiamento avevano vibrato nella coscienza di Eva sin dall’inizio, quando  il volto di sua sorella era diventato scuro, spento, e aveva iniziato a emanare una coltre di malinconia che, in poco tempo, aveva ricoperto di grigio l’intera casa.
Non l’aveva vista piangere affatto nel mentre della sua rivelazione, quando era venuta a sapere ogni cosa riguardo quella triste faccenda: i suoi occhi erano diventati opachi, ma nessuna lacrima si era versata da essi. Non aveva parlato, neanche per porgere delle domande. Aveva lasciato che sua sorella le raccontasse la sua storia -la loro storia-,  senza mai interromperla, rimanendo semplicemente in silenzio ad ascoltare. Di tanto in tanto l’aveva vista abbassare lo sguardo e fissare silenziosamente le pieghe delle lenzuola, e ogni volta che l’aveva risollevato i suoi occhi tradivano una delusione profonda, dolorosa, inaspettata. Era uno sguardo glaciale, quello, un fascio di luce fredda, affilato come una lama, ed Eva non si era mai resa conto prima di allora né di quanti sentimenti, quante sensazioni si potessero comunicare senza mai aprir bocca, solo con la forza di uno sguardo, né di quanto potenti potessero essere.
Totalmente smarrita in mezzo alle onde burrascose del suo passato, tornato in superficie con una furia così grande, Gloria non aveva parlato neppure quando, dopo quasi un’ora di parole e voce e mani che tremavano, Eva era finalmente giunta all’epilogo di quella faccenda e, con il capo abbassato, aveva messo fine a quell’infelice storia. Le sue labbra erano inespressive, serrate, i suoi lineamenti severi, ma si era sporta verso sua sorella, e l’aveva abbracciata. Si era stretta a lei per un istante interminabile, aveva lasciato che affondasse il viso lì, tra la spalla e il collo, e le aveva accarezzato i capelli biondi. Erano rimaste così, aggrappate l’una all’altra in mezzo a tanti ricordi, fino a che Gloria non si era staccata, lentamente, e le aveva posato un bacio sulla guancia. Un bacio morbido, delicato e appena percettibile come il battito d’ali di una farfalla. I suoi occhi avevano un universo intero dentro di loro: Eva poté giurare di averci letto gratitudine, tristezza, delusione, rabbia, smarrimento e sensi di colpa in una volta sola.
«Grazie» le aveva sussurrato con una debolezza tale che Eva temette di vederla dissolversi davanti ai suoi occhi da un momento all’altro in una candida nuvola di nebbia. «Grazie di tutto.»
Non aveva detto altro, quella sera, né aveva dato a sua sorella la possibilità di farlo.
«Ora se non ti dispiace vorrei solo mettermi a dormire, per favore» aveva aggiunto come una supplica, una richiesta.
Non dirmi altro, ti prego, lasciami dormire e basta, e magari fa in modo che io non mi svegli, se puoi, né domattina, né mai più.
Eva avrebbe voluto che si sfogasse con lei, ma poteva comprendere il suo smarrimento e la sua confusione, così aveva rispettato la sua richiesta e l’aveva lasciata sola. La notte era trascorsa per lei lenta a tormentata come non mai, sveglia com’era rimasta a rimuginare su quanto successo, a domandarsi se avesse potuto, in qualche modo, preservare sua sorella da tutto quel dolore ancora per un po’, a chiedersi se avesse usato le parole giuste per raccontarle ogni cosa, se ne esistessero per caso di migliori che avrebbe potuto usare per rendere tutto più facile, per fare apparire tutto quanto, ai suoi occhi, meno doloroso e triste di quanto realmente fosse stato. Il sole si era affacciato alla finestra della sua stanza senza che fosse riuscita a chiudere occhio nemmeno per un istante; era scesa a fare colazione e aveva trovato Gloria già in piedi in cucina che beveva il caffè, vestita e pettinata. Non le aveva chiesto cosa ci facesse già sveglia di domenica mattina: le sue occhiaie scure e i suoi occhi arrossati non necessitavano di spiegazione alcuna. Semplicemente le aveva sorriso, piuttosto. Un sorriso amichevole, comprensivo, unito a una dolce carezza sulla guancia.
«Io sono qui.», questo era il messaggio.
Gloria aveva piegato impercettibilmente gli angoli della bocca in un sorriso, e a voce bassa e rauca le aveva mormorato che sarebbe uscita a fare quattro passi; l’attimo dopo era già fuori di casa che correva avvolta in un paio di calzoncini di nylon, immersa nell’aria fresca e pungente dell’alba estiva.
Da quella mattina Eva l’aveva vista in casa sempre meno: la sentiva sgusciare fuori dal letto alle prime luci del mattino per andare a correre, e la vedeva tornare mezz’ora più tardi, affaticata e madida di sudore. Rimaneva in casa giusto il tempo necessario per fare una doccia e vestirsi, dopodiché filava dritta al lavoro. All’ora di pranzo era impossibile vedersi: Eva era di turno alla cucina dell’hotel, e piuttosto che perdere tempo sull’autobus, nell’attesa che percorresse tutte e quindici le fermate che separavano il bar dal ristorante, Gloria preferiva non allontanarsi troppo dalla zona, per cui spesso e volentieri si fermava a pranzare al locale, o si metteva d’accordo con qualche sua ex compagna di liceo per un giro al centro commerciale vicino. Quando poi tornava a casa, all’ora di cena, era sfuggente e taciturna, si limitava a rispondere alle domande di cortesia che sua sorella tentava di porle senza mai dilungarsi troppo nei particolari.
«Come è andata oggi al lavoro?»
«Come sempre, tutto ok.»
«C’è qualche novità interessante?»
«No, niente di nuovo.»
«L’insalata è un po’ troppo condita, non trovi?»
«No, è a posto così.»
Non osava proferire parola a meno che non fosse interpellata da sua sorella, e in ogni caso liquidava ogni suo tentativo di intavolare una conversazione semplicemente rispondendo a monosillabi a tutte le sue domande. Divorava la cena in fretta e furia, tenendo lo sguardo fisso sul piatto. Mangiava avidamente, come se avesse aspettato un tempo estremamente lungo prima di potersi finalmente beare di quel pasto, e una volta svuotato il piatto non si fermava più accanto a sua sorella a parlare e sistemare la cucina: si chiudeva in camera sua e ne usciva un’ora dopo, quando una decappottabile rossa fiammante suonava il clacson davanti alla porta di casa sua.
Eva la vedeva per la prima volta così, improvvisamente bellissima nei suoi diciannove anni non ancora compiuti mentre, con indosso un vestitino che, sapeva per certo, avrebbe catturato non pochi sguardi, la osservava salire in macchina delle sue amiche e sfrecciare via nella notte.
Rimaneva sola in casa, quelle sere in cui nemmeno Josh era con lei, e allora si metteva ai fornelli e preparava una quantità spropositata di dolci: ricette nuove, ricette vecchie, strani esperimenti culinari, e mentre mescolava, amalgamava, decorava, nella sua testa iniziavano a formularsi pensieri, riflessioni, considerazioni. Non badava più al cibo che aveva davanti in quel momento, si lasciava guidare dall’istinto e dai sensi, mentre le sua mente ripercorreva a ritroso tutta la sua vita, le tappe della sua intera esistenza, soffermandosi in particolar modo sul suo rapporto con le persone che amava. Pensava a quando era ragazza, a tutti i sogni a cui aveva dovuto rinunciare e a tutti i sogni che possedeva ancora, a più di dieci anni di distanza. Pensava al tipo di futuro che avrebbe desiderato vivere, e al modo in cui, alla fine, era finita per viverlo. Soprattutto, però, pensava al futuro che doveva arrivare, quello che aveva ancora davanti, che non aspettava altro che essere vissuto, e riflettendo su tutto ciò si rendeva conto che, tutto sommato, quel pezzo di vita che stava consumando tra quelle mura, insieme a Gloria, a Josh, al suo lavoro, in fondo non era poi così male. Finché con la sua mente non tornava al passato, e a tutti i progetti che aveva fatto e che poi aveva dovuto lasciare da parte per forza di cose, sentiva di essere contenta di quello che aveva, pienamente soddisfatta di ciò che era riuscita a costruirsi intorno. Ovviamente le capitava spesso di pensare a come sarebbe stata la sua vita se nulla di quella triste faccenda fosse accaduto, se avesse avuto l’opportunità di realizzare tutti i sogni che aveva: si sarebbe allontanata da casa per frequentare il college, probabilmente, e lì avrebbe fatto nuove amicizie, conosciuto qualche ragazzo, persone completamente diverse da quelle che si era trovata, invece, a frequentare. Sarebbe tornata a far visita alla sua famiglia nei fine settimana, avrebbe aggiornato i suoi su come stesse andando la sua vita da universitaria e avrebbe lanciato un’occhiata sorridente e distratta alla bambina che guardava i cartoni animati alla televisione. I dodici anni di differenza tra lei e Gloria si sarebbero fatti sentire in quelle occasioni, e la più piccola sarebbe cresciuta considerando sua sorella poco più che un’estranea, ma anche quando sarebbe diventata anch’ella una giovane donna, le cose non sarebbero affatto cambiate. Sarebbe stato troppo tardi, ormai, per cercare di allacciare un rapporto vero.
Finché studiava la sua vita da quel punto di vista, Eva era sinceramente felice di come erano andate le cose: aveva instaurato con sua sorella un rapporto fantastico, e col tempo era diventata, per lei, amica e confidente, aveva un fidanzato meraviglioso che la amava e la faceva sentire speciale e un lavoro che, per sua fortuna, si identificava con la sua più grande passione, passione che, forse, non avrebbe mai coltivato se le cose fossero andate diversamente.
Di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, ormai? La sua adolescenza non era trascorsa nel migliore dei modi, ma doveva ammettere che quel pezzo di esistenza che stava vivendo in qualche modo riusciva a compensare tutti quegli anni di dolore e smarrimento.

Quando si perdeva in valanghe di riflessioni simili, Eva, lottando contro la stanchezza pur di aspettare sveglia il ritorno di sua sorella, finiva spesso per addormentarsi sul divano, ed era lì che, puntualmente, la trovava Gloria quando, verso le due di notte, rimetteva piede dentro casa, brilla e sudata dopo aver bevuto e ballato in qualche discopub.
Eva la vedeva, in quei giorni, improvvisamente dinamica, iperattiva, piena di energia. La vedeva concentrarsi davanti alla toeletta mentre si passava l’ombretto sugli occhi e applicava il rossetto sulle labbra, mentre fonava i capelli dando loro la giusta piega, mentre studiava scrupolosamente la sua immagine allo specchio dopo aver scelto cosa indossare. Sembrava aver trovato il modo di non pensare a quello che aveva saputo di sé, di lei, di loro, pensava Eva.
Sembrava stare bene, sembrava stare bene davvero, eppure quel sorriso che Gloria rivolgeva a sua sorella la mattina, quando le augurava il buongiorno prima di fuggire al lavoro, aveva una nota stonata al suo interno: era diverso dal solito, non assomigliava più affatto a quel sorriso sincero e allegro che tanto amava di lei, e neanche i suoi occhi erano gli stessi di sempre, improvvisamente così trasparenti da costringerla a distogliere lo sguardo davanti a ogni tentativo di approccio ravvicinato mossole da Eva.
Aveva provato tante volte a domandarle se stesse bene, se avesse voglia di parlare, ma la risposta che si era sentita rivolgere era sempre la stessa, pronunciata sempre con lo stesso tono: «Non preoccuparti, Eva, sto bene.», e lo diceva con una voce talmente sincera che sarebbe stato difficile non crederle, ma Eva sapeva, capiva che c’era qualcosa che non andava, e se ne accorgeva quando, di notte, prima di andare a letto dopo averla vista rientrare, osservandola di nascosto dal buco della serratura -riusciva a vederla perché da quella sera Gloria non era più riuscita a rimanere al buio, e teneva l’abatjour accesa tutta la notte-, la vedeva sdraiata sul letto a pancia in su, col respiro irregolare di chi ha fatica a prender sonno e le cuffiette dell’mp3 infilate nelle orecchie per non essere costretta ad ascoltare il rumore dei pensieri. La vedeva muoversi di continuo, cercare una posizione più comoda, stropicciarsi gli occhi, sbuffare, la vedeva spesso piangere dal nervoso, asciugarsi furentemente le lacrime con il dorso della mano. Tutto d’un tratto le era apparso più chiaro anche quello strano comportamento: quella sua improvvisa tendenza a non fermarsi mai, quel suo continuo stare in movimento altro non era che un modo per scaricare la tensione, e stancarsi fisicamente con la speranza di riuscire, poi, una volta infilata a letto, a racimolare almeno un paio d’ore di sonno. 
Allora tutte le notti si fermava per qualche minuto lì fuori, dietro la porta a spiarla senza mai abbassare la maniglia e correre da lei ad abbracciarla. La faceva star male vederla in quelle condizioni, ma sapeva di non poter fare nulla per aiutarla. Poteva immaginare con fin troppa facilità quello che stesse provando nei suoi confronti: imbarazzo, dispiacere, senso di colpa. Avrebbe tanto voluto parlarle, avrebbe voluto dirle di non preoccuparsi, che era tutto a posto, che a lei andava bene così, che non rimpiangeva nulla di quello che non aveva avuto, ma sapeva che avrebbe rifiutato qualsiasi invito a parlarne, sapeva che avrebbe avuto l’impressione di essere compatita, ed era una cosa, quella, che Gloria non tollerava minimamente: la sua forza era nel riuscire a risollevarsi sempre e comunque senza mai chiedere l’aiuto di nessuno, era una qualità che Eva le aveva sempre invidiato. Lei una tale tenacia non la aveva: nella sua vita aveva sempre avuto bisogno di qualcuno a cui aggrappasi nei momenti difficili, anche se non era necessario che questo qualcuno le risolvesse i problemi. A lei bastava sapere di poter contare sul suo aiuto, le bastava avere la certezza che, qualora ne avesse avuto bisogno, avrebbe potuto contare su una parola di sostegno, su una mano che potesse aiutarla a rialzarsi.
Durante i primi mesi a Berkeley era stata proprio Gloria a tenderle quella mano. Era così piccola da non rendersene neanche conto, eppure era così che era andata. Il sorriso di quella bambina era stato il suo appiglio, era lei che le aveva dato la forza di andare avanti. Si convinceva di stare bene per non dare a sua sorella il dispiacere di vederla piangere, di vederla triste, e allora sorrideva, sorrideva con gli occhi prima ancora che con le labbra pur di non far andar via il sorriso a lei, in un circolo vizioso che, alla lunga, aveva finito per salvarle entrambe.
Era per questo che lo sapeva, ne era sicura: ce l’avrebbe fatta, si sarebbe rialzata.
A fatica, forse. Con le gambe tremanti, probabilmente, ma si sarebbe rialzata, prima o poi: sarebbe uscita dalla sua stanza con il sorriso allegro di sempre, l’avrebbe abbracciata e tutto sarebbe tornato come prima. Non aveva dubbi, a riguardo.
Quel suo sguardo non poteva rimanere vuoto per sempre.

[Continua]

Capitolo revisionato il 10-07-2012

   
 
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