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<
Nec diu nec noctu
licet
Iudices
quiescant >
*
2.
Il
Giudice passò due
giorni d'inferno. Non aveva il coraggio di scendere nelle segrete a
chiedere al
carceriere se la ragazza si era mossa, la notte. Se fosse fuggita
l'avrebbero
avvertito, e d'altra parte era impossibile che fosse riuscita a
liberarsi da
sola: aveva dato disposizione affinché fossero prese tutte
le precauzioni del
caso.
E allora come era riuscita
ad arrivare fino a lui? Questo pensiero tormentava il Giudice, mentre
andava
avanti e indietro nel suo studio, lo tormentava mentre restava immobile
ad
ascoltare le trite sciocchezze burocratiche di cui erano gonfie le sue
giornate,
lo tormentava infine anche mentre cercava di mangiare qualcosa. Ma ogni
boccone
che portava alla bocca era intriso del pensiero di lei. Era veleno.
Passò un giorno e non
seppe niente di lei. La notte si tormentò in vano nella
stanza, sveglio fino
alle luci dell'alba. Con gli occhi incollati alla porta era riuscito
solo a
captare il vagare di un ragno per chissà dove.
Il giorno dopo passò come
un incubo, non credeva che la notte successiva potesse essere ancora
peggio. Ma fu
così.
Tormentato dal desiderio
di rivederla, andò a rinchiudersi in camera all'ora in cui
di solito cominciava
a cenare. Poi pensò che era una cosa ridicola,
uscì di nuovo, andò in
biblioteca. Lì afferrò un qualunque manoscritto e
provò a leggerlo. Niente da
fare. Si versò un bicchiere di vino, tanto per farsi
coraggio.
Le ore passavano e lui non
sapeva cosa fare. Una parte del suo cuore sinceramente sperava che
fosse stato
solo un sogno - doveva esserlo
stato
perché non poteva essere altrimenti. Eppure c'era una parte
di lui che sperava,
desiderava, moriva perché quella non fosse solo
un'allucinazione, il parto
della sua mente riscaldata da ormai troppo notti insonni. Con il
pensiero
tornava alla visione di lei contro la porta, e al biancore della sua
pelle
contro le cortine. Tornava agli anelli di fumo dei suoi boccoli
portentosi,
alle mani e alla carezza sottile contro il suo piede. Pensava a lei, ai
suoi
fianchi, alla pelle e a quel respiro - ahi, quanto malvagio! - che gli
aveva
istillato nelle ossa striscianti fremiti di cui non sospettava neppure
l'esistenza.
- Sta veramente facendo
tutto questo a me? E perché poi?
Lo ricordava, lo ricordava
bene quel brivido che lo prendeva ogni volta che lei era vicina. Come
se non
esistesse più che lei, terribile, perfetta immagine di una
dea guerriera. E lui
cos'era in grado di fare?
Con un gesto nervoso della
mano vuotò il bicchiere. Si alzò in piedi
ricominciò a passeggiare. In fin dei
conti, da qualche parte era ancora un uomo molto morigerato, e la
logica gli
dava un gran conforto.
- Vediamo, perché è venuta
proprio da me? Che cosa vuole?
Ma più ci pensava più
tutto gli sembrava assurdo. Talmente che ormai non credeva neanche
più di dover
distinguere tra la realtà di quell'apparizione e la menzogna.
- Che cosa può volere da
me? Non certo la libertà, perché sa che mi farei
uccidere, prima di rendergliela.
Ho messo a fuoco mezza Parigi solo per avere il supremo piacere di
vedermi
sputare in faccia. Ho distrutto tutto quel che passava tra me e lei, e
solamente per costringerla a morire di freddo e torturare me con lei,
nell'agonia. Sa bene che preferirei vederla morta prima che fuori di
qui, che
posso tutto e tutto farò perché la mia Esmeralda
non veda più la luce del sole,
perché rimanga per sempre mia, nelle segrete. Fin tanto
almeno che non sceglie
me. Sa anche che potrei essere magnanimo, ma a una condizione
irrimediabile che
non penso sia pronta ad accettare. E allora cosa vuole da me?
Perché è comparsa
in tutta la sua gloria, solo per torturarmi?
E davvero questi erano
pensieri di tortura, per il povero Giudice. Forse per la prima volta
nella vita
non riusciva a percepire nient'altro che gli ansiti confusi del suo
cuore. La
ragione si smarriva in quei meandri, e non vedeva che la danza di lei,
non
vedeva che le sue braccia magnifiche, la robusta consistenza del suo
respiro
vicino a suo.
- Che cosa ho fatto di
male? - si chiese. E in quel momento suonò la mezzanotte
lungo le oscure mura
di pietra. Il Giudice, come se fosse un lugubre avvertimento,
tirò indietro la
veste di velluto, e si avviò alla sua camera da letto.
Sapeva di trovarla lì, ma
si bloccò sulla porta, quando la vide. Il cuore in gola, le
labbra confuse,
nessuna forza nelle gambe.
La
sua stanza era lunga e
stretta, col grande letto dalle cortine nere al centro e poco altro.
Una
brocca, un panno di tela e qualche libro sparso sul pavimento. Lei era
lì, in
mezzo a quella roba mezzo macchiata dalla polvere dei secoli, e si lavava.
-
Oh, meno male che sei
arrivato, ecco. Mi aiuti a insaponarmi la schiena?
Lui si bloccò, come se
avesse appena ricevuto un colpo in mezzo al petto. Lei era
lì, tra il catino e
il letto, semi affondata in una specie di tinozza che lui non ricordava
neanche
di avere. Era servita, anni prima, a lavarsi, ma ormai lui ne aveva
perso
memoria. Da lungo tempo aveva preso l'abitudine di farlo da solo, in
uno stagno
freddo poco distante da casa, e in piena notte. Estate e inverno.
- Allora? Mi aiuti o devo
fare da sola? - tubò con la sua voce di colomba. Meno male
che era distante.
Meno male che era un sogno, si
disse
lui.
E' necessario descrivere
quanto era incredibilmente bella? No, ovviamente. Era talmente
abbagliato che
appena notò le spalle scure e lucide, bagnate da un sottile
strato di sapone.
Poco più su i riccioli, grevi, le si incollavano al collo in
larghe ciocche.
- Che cosa vuoi? - fu
l'unica cosa che riuscì a dire, deglutendo. Con una mano si
era aggrappato allo
stipite e non riusciva a staccarsi dalla porta. Le gambe non riuscivano
a
muoversi. A sentire quella risposta lei rise, agitò i soliti
campanelli
d'argento.
- Non voglio niente, te
l'ho detto. Solo che tu mi aiuti a lavarmi, se vuoi. Le carceri sono
talmente
sporche …
Solo allora lui trovò il
coraggio di muovere una gamba, poi l'altra. Fu necessaria parecchia
abnegazione, e tutto il suo autocontrollo. Si avvicinò, e
con la mano prese la
spugna che lei di schiena gli porgeva.
- Che cosa vuoi? -
sussurrò di nuovo. Lei rise e poi fece un cenno con la
testa. Incurvò la
cervice quel tanto che bastava a protenderla a lui. Lui
capì, chiuse gli occhi,
e immerse la mano nell'acqua nera come il petrolio. Era tiepida, e le
misteriose fiamme del fuoco si rifrangevano come animali danzanti in
superficie.
Quando la spugna toccò la
sua schiena, la gitana sussultò appena. Poi
sospirò di piacere.
- Così va bene? - chiese
lui, con una voce che non sapeva neanche di avere. Era cedevole, e
incredibilmente esitante. Lei sorrise, scosse il capo e poi si
abbandonò
completamente all'acqua. Spuntò un ginocchio perfetto da
quel nero.
- Che cosa vuoi? - chiese
di nuovo lui, mentre la spugna percorreva le spalle con la perizia
trattenuta
dei miracoli o delle grandi esitazioni.
- Se tu continui a fare
quello che fai, io ti dirò che cosa voglio. Ma devi farlo
bene, come adesso.
Non devi smettere neanche un secondo.
- No. Non smetto - annuì
lui. In quel momento neanche il Re, neanche la tortura, neppure tutti i
diavoli
dell'inferno sarebbero riusciti nel proposito di farlo smettere. Fosse
stato
per lui avrebbe continuato in eterno.
- Bene - fece lei,
allungandosi ancora un poco. La sua pelle profumava di mandorla e
animale -
Sono qui per proporti un affare.
- Prima non vuoi dirmi
perché ti sei liberata? Come ci sei riuscita?
- No - rise lei - Ti basi
sapere che anche le tue sbarre di ferro e i catenacci e i lucchetti
possiedono
chiavi che possono aprirli. O sistemi per essere aggirati. Io li
conosco, io li
conosco e non ho paura di usarli -
poi
proseguì - Ma adesso torniamo a noi. Sono venuta
perché da qualche notte faccio
un sogno, un sogno strano, e voglio parlartene.
- Non sono mica un
astrologo - mormorò lui, perso nella contemplazione della
meccanica lentezza
con cui lei dondolava il collo mentre parlava. Su quella gola perfetta
avrebbe
voluto marchiare ogni centimetro di fuoco, lasciare impressa la sua
voce, annusare
il suo stesso desiderio.
- Mi stai ascoltando?
- Cosa? Sì. Certo che sì.
- Bene. Ti dicevo che
facci un sogno. Ci siamo io e te davanti a un grande prato di neve.
Tutto
intorno è campagna, sommersa da uno strato bianco e pesante.
Io e te siamo
davanti a tutto questo fermi dentro una carrozza. Tu mi tieni la mano
destra, e
io a te la sinistra. Tu sei vestito normalmente, con la tua lunga
tunica scura.
Sono io che sono diversa. Sono vestita come se andassi ad una festa, a
un
matrimonio. Ho un vestito rosso porpora indosso, e una corona di fiori
sulla
testa. Al collo porto un monile di rubino incastonato in due mani
d'argento. Le
mani sono come la mia e la tua. E poi, intorno a noi, che siamo
immobili,
comincia ad alzarsi una tempesta. Prima è solo vento, ma
presto diventa così
forte che tutto intorno trema, e si sconquassa e geme. Tutto tranne la
nostra
carrozza che resta immobile nella furia degli elementi. E poi arriva
come una
colonna d'aria che turbina in cielo, e ci solleva. E noi andiamo
lontanissimo,
e voliamo, e ogni cosa sotto di noi si allontana. Dalla tua bocca a
quel punto
escono delle parole che io non capisco. Poi io provo a avvicinarmi a
te, ho
paura. Voglio gettarmi tra le tue braccia, tremo. E tu mi guardi, le
allarghi,
ma in quell'attimo un fulmine colpisce la carrozza e la divide. Io
precipito
nel vuoto, e urlo, urlo. Ma tu ormai sei lontano. Mi sveglio pensando
di essere
morta. E ho la faccia inondata di lacrime.
Sorpreso dalle parole di
lei, lui arrestò il moto della spugna per un istante.
- Cosa significa? -
chiese.
Lei si voltò.
- Sono venuta a chiederlo
a te.
- Ma … tu sei la gitana,
non io. Non sono i sogni, le fantasie, le sciocchezze le vostre prime
occupazioni? Non siete voi che siete soliti annebbiare la mente e il
corpo con
le strane dell'immaginazione?
Mentre faceva questo lungo
discorso, lei scivolò dalle sue mani. Per sbaglio la spugna
cadde in acqua, e
per riprenderla, lui immerse il braccio. Trovò invece un
corpo, e lei che gli
sorrise.
- Non vorresti prima
lavati anche tu? E' ancora tiepida.
Lui la guardò allibito,
ma prima che fosse in grado di dire
qualcos'altro lei si era già alzata. Era nuda, nuda e
splendente in tutta la
sua gloria.
- Mi passeresti
quell'asciugamano? - poi uscì senza dire una parola,
sgocciolando dovunque. Il
Giudice non sapeva se stava sognando. Atrocemente stordito dal fugace
sogno di
quella visione folgorante, non seppe fare altro che allungare
meccanicamente un
braccio alla tela che giaceva ai suoi piedi. La prese e la porse alla
gitana.
- Oh, grazie - sorrise
lei, cominciando a sfregarsi e a stropicciarsi davanti al fuoco - Fai
pure.
Quando hai finito riprenderemo il discorso.
<Angolo Autrice: Carissimi tutti (in special modo gli affezionatissimi @marguerite90, @ClaudioFrollo, @Lhoss, @x_LucyLilSlytherin, @sawadee, @Ilien e la new entry @badge9136) che dire … sono contenta che il primo capitolo vi sia piaciuto! Mi fa sempre tantissimo piacere ricevere la vostre recensioni, soprattutto quando ci danno occasione di discutere su uno dei nostri pairing preferiti ^__^. Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento: il mistero si infittisce un pochino, continuiamo a non capire se Esmeralda sia un sogno oppure no, ma soprattutto continuano queste lunghissime scene-fiume in cui i Nostri si studiano da vicino/lontano come due strani animali selvatici. Personalmente, è sempre la parte che preferisco nelle FF dedicate a loro, e devo dire che ci rimango male quando non ci sono abbastanza parti descrittive come questa! Piuttosto spesso mi viene rimproverato di essere eccessivamente descrittiva, nelle mie storie, e molto poco narrativa. Temo che sia realmente un mio difetto, e sto tentando di correggerlo, sul serio … ma quando ho tra le mani questi due, personalmente, non capisco più niente. Così, come Tenerezza ha fatto forse sbadigliare tutti quelli a cui le lunghe riflessioni dell'Arcidiacono sembravano un po' troppo pesanti, così forse questa nuova FF risulterà un po' ostica a chi non è Frollo-holic come la sottoscritta. Ma tant'è: ogni tanto anche io mi prendo le mie piccole soddisfazioni! Insomma, tutto questo lungo preambolo per dirvi che, se ritenete che io stia esagerando con la lunghezza e i particolari di queste scene, magari non troppo funzionali alla trama, non avete che da farmi un fischio e io vedrò di accorciare. Se invece vi piacciono così come sono … beh, allora ancora meglio: Enjoy, e che Nostra Signora di Parigi abbia a proteggervi oggi come sempre! Un casto bacio, nel frattempo & in attesa di nuovi, interessanti sviluppi, Vostra Minimelania>
p.s. Per chi se lo fosse domandato, il titolo è un verso latino, liberamente riadattato, del poeta Titinio. Letteralmente significa 'Non è lecito ai Giudici riposarsi né di giorno né di notte'. Un bacione ancora, M.