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Autore: Lady Antares Degona Lienan    02/06/2011    2 recensioni
Era bellissima, china sulle ginocchia mentre stracciava delle violette riducendole a solo un gambo e qualche coriandolo colorato.
Quando due destini s'incontrano e incastrano così perfettamente è giusto che proseguano insieme il loro cammino. Tra vampiri, monasteri e fiori, però, a volte vien da chiedersi perché la vita sia così complicata. Nota per la prossima esistenza: ricordati di non innamorarti di una Blackmore.
Julian e Sophia Lord
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Per rammentargli che non l’aveva dimenticato gli inviò una rosa. Si permise di sorridere appena al pensiero di quel gesto: involontariamente gli aveva richiamato  alla memoria il seguito di quel filo di pensieri che si era perso a riordinare qualche giorno addietro. Strinse la rosa nel palmo della mano (non prima d’aver avuto la malizia d‘osservare bene la disposizione delle spine) e con essa serrata tra il petto e il palmo camminò a lungo nella stanzetta. Un ritratto suo e della sorella era poggiato delicatamente sul tavolo in legno di noce. Sophia sorrideva di quel sorriso che solo lei sapeva produrre, un misto tra una smorfia di furbizia e un’espressione dolce come il miele prodotto viaggiando tra centinaia di fiori. Era un ritratto che la mostrava per com’era veramente: una ragazza piena di accortezze verso il prossimo, ma non così ingenua da non guardarsi le spalle. Una Blackmore, dunque. Una Blackmore nel gestire gli avvenimenti e nelle passioni, così forti e certe, che pure si mitigavano in sua presenza; gli piaceva pensare di aver reso Sophia un po’ meno Blackmore e un poco più Lord, in quegli anni. Gli parve una sciocchezza, una follia da innamorato, ma fu certo di veder la rosa schiudersi nella mano: il suo profumo lo penetrò come una lama, come uno sguardo dell’adorata sorella. Forse amarla così non era abbastanza.

 

 

 

 

in Vento et rapida Aqua

Capitolo Primo

 

 

Si teneva in quell’inizio di primavera l’undicesimo Palio della Rosa del Monastero di Nostro Signore della Selva. Stendardi colorati a tinta unita splendevano dalle piccole finestre della costruzione in mattoni, ciascuno simbolo di Casata. Il cielo scevro d’ogni nuvola scura era di un colore talmente vivo da non poterlo guardare. Alcuni ragazzini osservavano il sole nel riflesso che esso produceva in una tinozza mentre le donne spargevano teli lungo il prato del Monastero, concedendo così a tutti l’occasione di sedersi e godere dello spettacolo. Il sidro scorreva. Era ormai tradizione che i dieci villaggi si riunissero in Casate per gareggiare in tale occasione: dunque il Palio della Rosa contava dieci squadre, undici con quella formata dai ragazzi del Monastero. La politica del Reggente di Aldenor aveva portato a un’improvvisa riduzione degli abbandoni di fanciulli, cosicché ormai i ragazzi ospitati dal Monastero andavano rapidamente diminuendo; il gruppo principale rimaneva quello dei bambini di dieci anni prima, ormai adolescenti, capeggiati da Alexander Lord, Mastro di Casata, e da Julian Lord, Cavaliere del Palio. L’unica Dama rimasta per cui gareggiare era Sophia Lord, scontrosa ragazzina dai meravigliosi capelli neri. Era appunto verso di essa che il Cavaliere del Palio si stava dirigendo, impettito nella sua uniforme azzurra cucita con affettuosa premura dalle Suore. « Mia Dama! », urlò scherzosamente, « Concedetemi una delle vostre mille ciocche di capelli, sicché la fortuna possa assistermi ancora una volta di più! »

Sophia chinò appena il capo per dissimulare un gorgoglio divertito: quando tornò a guardare Julian negli occhi si specchiò nel medesimo sorriso cortese e galante che egli era solito rivolgerle quando le parlava; le guance le si colorarono di rosso e il viso si scaldò appena. Finalmente, non potendo più sottrarsi a quegli onesti occhi castani che la fissavano con ostinazione, scoppiò a ridere appoggiandosi alla sua spalla. « Mio Cavaliere! », disse raccogliendo il testimone che le era stato porto, « Se v’avessi donato una ciocca di capelli per ogni volta che me l’avete chiesta, state pur certo che adesso parlereste con una ragazza calva! »

« Non potete rifiutarmi un simile pegno! Io sono il Cavaliere del Palio per il Monastero di Nostro Signore della Selva, e Campione del Palio della Rosa dell’anno precedente. Sarebbe un’inaudita crudeltà da parte vostra farvi burle di questo mio bisogno. Tutto il regno riderebbe di me, se cadessi sconfitto! »

« Mio buon Campione, errate nel confidare nel fato, poiché esso non vi tenderà la mano per sempre. Ora andate, il Palio sta per iniziare. »

Julian passò un dito tra la pelle e la scollatura dell’uniforme, agitandosi appena. « Sophia, ti prego, devi darmi un po’ di capelli: ho scommesso con Alex che ne avrei avuti in dono. E se perdo a vantaggio di Ludwig del villaggio di Lunor non uscirò mai più dalla mia camera! »

« Suvvia Julian! », rise Sophia poggiandogli la testa su una spalla. « Facciamo così, ho toccato con i miei capelli la vostra uniforme: dovrebbe andar bene uguale. I veri Campioni sanno fare di necessità virtù. Inoltre non perderai mai con Ludwig di Lunor, perché quell’uomo è grasso come un cinghiale nel periodo autunnale, e tu sei dieci volte più veloce di lui! »

« Oh andiamo Sophia, non puoi essere così crudele! »

« Julian… »

« Nemmeno se ti tento con un abbraccio caldo e rigenerante? » Così dicendo la prese tra le proprie braccia e la strinse a sé, respirando appena nel suo collo: rose rosse, come sempre. Attese qualche altro istante, giusto perché la ragazza cominciasse a sentirsi in effettivo imbarazzo. Quando la sentì dimenarsi allentò la presa e lasciò che lei scivolasse lontano dal proprio corpo: sentì freddo, per un attimo, ma poi il sole primaverile gli aggredì la pelle. Sophia aveva le guance rosse, e quasi sicuramente non a causa del sole; la vide estrarre velocemente un temperino dal grembiule bianco del Monastero e con esso tagliarsi una piccola ciocca di capelli scuri. Sorrise, mentre gliela porgeva, e Julian non poté fare a mano di sentirsi inquieto. Sophia era una ragazza dolcissima e avrebbe fatto di tutto per lei, ma c’erano dei momenti in cui assumeva delle pose innaturalmente calme, terrificanti quasi: anche adesso sorrideva porgendogli i propri capelli, il temperino nella mano destra. La lama scintillava con la stessa intensità dei suoi denti.

« … Julian? Ma la vuoi o no? »

Sussultò. « Ah! Scusa, scusa, mi ero distratto. Grazie mille!, vincerò per te! »

Lei piegò appena il capo. « L’avresti fatto comunque! », gli urlò dietro mentre lui correva via. « E’ merito mio se esiste questo Palio, e se tu sei Campione! »

 

*

 

Quelli del villaggio di Bater avevano dato fondo alle riserve del loro più prezioso sidro, sicché ora giacevano riversi sull’erba insieme a un paio di paesani di Neut. Le rispettive donne parevano non darsi troppo da fare per rianimarli, così da poter parlare senza essere inopportunamente interrotte. Sophia ridacchiò di fronte alla scena che puntualmente si riproponeva ogni anno: fu solo grata di non dover essere annoverata tra le rianimatrici, cosa che le era invero toccata due anni addietro quando Julian aveva deciso di essere abbastanza maturo da poter bere una pinta di bevanda alcolica. Tuttavia Sophia l’aveva strattonato, insultato, poi coccolato e alla fine letteralmente posizionato tra i concorrenti alla partenza; e in conclusione il disgraziato aveva pure vinto. Aveva gioito come ogni volta, perché Julian era il suo migliore amico, suo fratello, e anche un bruciore sempre presente in fondo allo stomaco: oltretutto era per lei che ogni anno undici matti correvano tutta un’ora in mezzo all’orto botanico del Monastero, fino ad arrivare al roseto. Là bisognava cogliere la Rosa della propria Casata, e il primo a raccogliere il fiore era Campione del Palio della Rosa. Julian non aveva mai perso e sentiva che anche quest’anno non avrebbe disatteso le sue fiduciose aspettative.

Lo guardò con fare medico. Julian era un ragazzo sano e forte, e tuttavia la sua muscolatura era quasi inesistente; qualche fascio di fibre affiorava qua e là sotto la pelle, ma senza mai attirare l’attenzione. Nulla in Julian pareva minaccioso o terrificante, eppure Sophia sapeva bene che l’inganno migliore del suo amico non risiedeva nelle braccia e nelle gambe, bensì nella mente. Era un pensatore sopraffino, anche se a volte per comodità lasciava intendere di avere delle capacità modeste: quando decideva di ottenere qualcosa, tuttavia, non era possibile fermarlo. Una caratteristica, questa, che Sophia condivideva con lui – le piaceva pensare, in realtà, che crescendo insieme si fossero influenzati a vicenda, regolandosi l’uno con l’altro, eccellendo dove l’altro falliva. Se Sophia non sapeva correre veloce, Julian era una lepre cresciuta nel folto della foresta; se Julian non riusciva a mantenere la calma nei momenti più duri, Sophia era dotata di una mente lucida, affilata, che non la tradiva mai. Avevano imparato a compensarsi, a rispettarsi: e con gli anni Sophia aveva anche imparato ad amare quel ragazzo dagli occhi dolci come la torta di castagne e dal sorriso saldo. Il bruciore in fondo allo stomaco. L’oppressione intorno alla gola. La consapevolezza di non poter dire nulla, né di saper leggere nella sua testa ciò che egli provava per lei. Eppure, Julian correva con i suoi capelli nell’orlo della divisa, e vinceva per lei.

La salutò dalla fila dei concorrenti e lei riuscì appena ad agitare la mano, impensierita. Quando Suor Anna suonò con il fischietto, tuttavia, Sophia cominciò a tifare per lui e Julian, sentendo ciò, mise le ali ai piedi. Era in quei pochi momenti che il ragazzo si mostrava per ciò che era: un curioso incrocio tra un mite agnello e un predatore scaltro, poiché correva con un sorriso dolcissimo sul viso e tuttavia la precisione dei movimenti non lasciava spazio ad alcun concorrente. Al di là di ogni sua più rosea prospettiva Ludwig di Lunor gli si affiancò quasi da subito, sostenendo il ritmo con le sue gambe imponenti; Julian rallentò il passo e Sophia lasciò andare un sospiro tremulo: Julian rifiutava la competizione come prevaricazione del singolo e pertanto se posto a diretto confronto con un avversario pareva spegnersi.

« Julian, corri! », lo incitò dalla partenza, i concorrenti ancora visibili perché impegnati a percorrere i primi undici giri esterni. Quando fossero entrati nel campo interno – l’edificio adibito a giardino e serra – sarebbe stato impossibile accertarsi di persona degli esiti parziali della corsa; solo alcuni giudici costellavano il margine del tracciato per controllare la regolarità della competizione. « Corri!, se non vuoi fare una pessima figura! » lo canzonò a pieni polmoni raccogliendo la voce con le mani e direzionandola verso di lui. « Altrimenti rivorrò indietro i miei capelli! »

Accompagnato da quella scherzosa minaccia Julian s’inoltrò di slancio nelle stesse mura di recinzione che aveva scalato undici anni prima per cogliere la rosa più bella. E farne infine dono a lei.

 

*

 

Il sole gli buttava i raggi in viso. Il monastero risplendeva di una luce gloriosa e i cartigli dipinti della famiglia reale - appesi sul muro esterno per la festa - mostravano sorrisi abbacinanti. Solo la figlia del vecchio reggente – rappresentata in un disegno più modesto, anche se delizioso – esibiva un’espressione maggiormente composta e rigida. Gli occhi scuri parevano voler bucare la carta e materializzarsi nel giardino. Si chiamava Eloise Weiss. Si diceva studiasse nella grande città. Miti dicevano avesse ammaliato il principe Axel con le sue doti da strega, ma Julian non aveva mai voluto credere a simili voci: la piega delle labbra di lei era troppo simile ad un sorriso per poter apparire mostruosa.

Alzò appena il busto per osservare quei ritratti malinconici, quei figli privati dei genitori. Il sole gettava su di loro una luce aranciata, eppure non riusciva a renderli vivi; pareva quasi che i regnanti della Casa Reale di Aldenor fossero ombre di loro stessi. Si chiese se anche lui - orfano da quando poteva ricordare - fosse privo di quella luce negli occhi.

« Che fai, mio Campione? Ti trastulli sui dolci occhi di Lady Eloise? » La voce di lei lo colse di sorpresa. Voltò il capo incrociando il sorriso sfacciato di Sophia, che era piegata su di lui come un giunco appena nato, ancora acerbo. Pareva quasi che le sue labbra spaccassero a metà il viso tondo, proporzionato.

« Sophia! » esclamò. « Mi hai fatto prendere un colpo. »

« Scusa, scusami, non era mia intenzione. Non ti avevo mai visto così interessato ai Reali di Aldenor. Che c’è, improvvisamente senti dell’appartenenza? »

« Ma no. Semplicemente, mi sembrano tristi. Sai, come se avessero smarrito la capacità di vivere. »

« Julian, hanno perso i genitori. Di certo non possono essere contenti, anche se trovo che tu stia esagerando. I cartigli spesso idealizzano le persone dipinte, le cristallizzano in un attimo che non è reale. Basta poco a un pittore per modificare un’espressione, uno sguardo: forse ce li hanno voluti mostrare così, desolati, per farceli apparire più simpatici e mesti. »

« Sophia! » invocò per una seconda volta. « Non essere meschina. E anche noi abbiamo perso i nostri genitori… siamo anche noi così? »

« Meschina!, tu dici. Io penso: realista. Ma non devi rimuginarci troppo, sai? Come io non devo pensare ai fiori e ai loro odori cattivi, tu non devi concentrarti sul dolore altrui, perché ti farà male. »

Si sedette accanto a lui, passandogli una mano sui capelli castani e tirando appena con le dita per districare alcuni nodi: gli sorrise, quando lui la guardò, perché non c’era altro che poteva fare per placare il suo dolore, e con esso il proprio.

« Vedi Julian, per quanto tu desideri salvare il mondo, non sempre potrai farlo. Non sarai per sempre il Campione del Palio, e presto le sfide saranno ben più ardue del correre in un giardino per arrivare ad una rosa. E quando succederà, tu non potrai farti carico dei problemi di tutti, perché se c’è una cosa che tu non conosci, è la realtà esterna. Non capirai le altre persone con la stessa empatia di cui fai uso adesso, perché non tutti provengono da un monastero. E non tutti sono stati abbandonati da genitori che non ricordano; alcuni hanno i loro visi ancora freschi nella memoria, e memorie a cui aggrapparsi che noi non possiamo concepire. Non sapremo mai che dolore provano i Reali di Aldenor, e non siamo come loro. Non lo siamo mai stati, sai. Però anche loro hanno una famiglia attorno a cui stringersi, proprio come noi due abbiamo l’un l’altro. E Alexander, se ci pensi. »

« Sophia, io… »

« L’anno prossimo voglio frequentare lo Studium. », disse lei bruscamente. Julian rimase a bocca aperta: non ne avevano mai parlato con schiettezza l’uno con l’altro: pareva quasi essere un pensiero proibito. « Voglio imparare e conoscere un mondo nuovo. Voglio andare via dal Monastero. Voglio studiare e dedicarmi solo a questo. »

« Sophia. »

« No, ascoltami. Non voglio sapere che cosa ne pensi della mia decisione. Vorrei solo che tu mi dicessi che approvi. È importante per me. »

« Sophia. »

« E se non potessi averla dalla tua bocca, non importerebbe poi così tanto, perché so che per me desideri solo felicità. E io sarei felice, nella città. »

« Sophia. »

« Julian, ti prego. »

« Sophia, sai che verrò con te. Lo sai. »

Negli occhi di lei era ancora nascosta una sottile incertezza: tuttavia quella risposta breve e sentita le fece sorgere un piccolo sorriso ai lati della bocca. Si portò le ginocchia al petto, in silenzio, pronta ad ascoltare. « Ti accompagnerò nella grande città e ti difenderò dai pericoli: sarò la tua famiglia, e insieme cercheremo qualcuno con cui allargarla. Siamo solo noi due, adesso. »

« Sì. Sarà così. », rispose lei.

Il silenzio che calò fra di loro sapeva di decisione premeditata, di smarrimento solo apparente. Julian sapeva da tempo cosa celava lo sguardo di Sophia, e sentiva d’esser pronto.

La osservò: il sole puntava dritto nei suoi occhi blu e li animava di una luce dorata meravigliosa. Sophia aveva due cerchi perfettamente realizzati incastrati sopra gli zigomi e lui adorava immergersi in questo tipo di considerazioni: pertanto si lasciò andare alla poesia del momento. Erano occhi vivi, i suoi.

Le porse la rosa con una piccola riverenza del capo. « Ogni promessa è debito. », disse. Sophia afferrò il fiore noncurante delle spine – questo perché, per qualche curiosa coincidenza, queste non parevano nuocerle – e vi affondò il viso, inspirando a pieni polmoni. Julian vide i petali compenetrare quasi il viso di lei e aprirsi appena. Come al solito, quando si trattava di rose, Sophia compiva dei piccoli miracoli. Lo spettacolo era così bello che avrebbe potuto morirne.

« Grazie, Julian. », mormorò la ragazza. Lui annuì e, alzandosi frettolosamente, ebbe cura di posarle casualmente una mano sulla spalla, come sostegno. Sophia rise: la risata lo accompagnò fino all’ingresso del Monastero, quando infine scemò in un breve gorgoglio che gli scaldò il cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho reso Julian più spericolato rispetto a come l'autrice ce lo mostra. Perchè? Semplice: i maschi quando s'esibiscono nel loro ambiente di appartenenza sono genericamente più spavaldi e fanfaroni. Sophia è un po' saputella, e sa di avere il rispetto di Julian. Per questo motivo, a volte, se lo porta in giro come un piccolo cucciolo. Nonostante tutto, però, lo adora. Oh, se lo adora.

Ho corretto un paio di frasi, accorciando la sintassi. Il Palio della Rosa, ovviamente, trae spunto da quello di Siena. Un'idea super originale, considerando che ci sono stata due settimane fa!

 

 

 

   
 
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