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Avevi detto che ci saremmo rincontrati.
Me lo avevi garantito, me lo avevi assicurato. Me lo avevi promesso.
La tua sembrava quasi una parola
d’onore. Ci avevo creduto. Mi avevi illusa, semplicemente per farmi stare bene
e non farmi continuare a piangere, al momento della separazione, o Dio solo sa
per quale altro motivo.
No, non esagero col dire che mi avevi illusa. Ancora non riuscivo ad odiarti,
nonostante ciò, ma era duro ammetterlo: mi avevi ingannata, perché tu non sei
più tornato per rincontrarmi.
E, intanto, gli anni passavano.
Autunno. 19 Ottobre, 1866. Kyoto.
La cosa mi sorprese più di quanto avessi mai potuto immaginare.
Non pensavo davvero che sarebbe stata di quel genere la mia esperienza in
quella città.
“Hikaru, te ne prego, stacci dietro” mi pregò mia madre, con aria severa, quasi
esasperata, voltandosi leggermente indietro per fulminarmi con lo sguardo. Non
era un vero rimprovero. Per lo più una raccomandazione. “Non lo vedi anche tu,
quanta folla c’è? Se ti distacchi troppo da noi, finirai col perderti”.
“Sì, oka-san…” brontolai, un po’ seccata
di quelle continue raccomandazioni.
Me lo aveva ricordato non so quante volte di non allontanarmi da loro negli
ultimi dieci minuti e, onestamente, non è che mi divertissi a sentirmi ripetere
sempre la stessa cosa.
Ormai non sono più una bambina!
Già, non ero più una bambina, ormai. Erano passati cinque anni (e pochi
mesi mancavano ché diventassero sei) da quando ti vidi l’ultima volta.
Avevo tredici anni e – dato che ero nata nel mese di Gennaio – mancava poco
anche perché ne compissi quattordici.
Forse ora i tempi saranno anche cambiati, ma a quell’epoca una ragazza dell’età
che avevo io non veniva più considerata una bambina, ma una giovane donna
pronta per entrare nella società che la circondava. Ecco, se potessi definirla
così, sarebbe stata una specie d’età di tirocinio.
Eppure, nonostante fossi oramai cresciuta, non riuscivo a toglierti dalla
mente. Eri sempre un punto fisso e tutto il resto girava attorno a te.
Forse ero rimasta anche un po’ infantile, sotto quel punto di vista.
Infondo, essendo passati tanti anni ed essendo stata illusa da te, pensavo che
col tempo ti avrei dimenticato e forse, un giorno, anche odiato per avermi
presa in giro. Ma non avvenne nulla di tutto ciò.
Nulla di ciò che avevo sperato si realizzò. Beh, non che ci tenessi a
dimenticarti (e, soprattutto, ad odiarti), ma ero rimasta profondamente ferita
dalla tua promessa non mantenuta.
Probabilmente se non ci fosse stata alcuna promessa, non ci sarei stata così
male in seguito.
A pensarci bene, se mi avessi smentita subito, quella volta, quel pomeriggio,
forse sin dall’inizio la mia speranza sarebbe morta sul nascere. Invece sei
stato così crudele da assecondare me e i miei sogni.
Davvero crudele.
Ed ora mi trovavo lì, tutta palpitante, come una vera sciocca, a Kyoto.
Ricordo molto chiaramente il motivo per cui ci trovavamo lì, quel giorno;
Da tempo, ormai, mio padre era stato chiamato a prestare servizio presso
qualcuno che abitava in quei paraggi e che possedeva anche una proprietà nella
città stessa. Dato che, a quel punto, non lo vedevamo da tempo, decidemmo con
la mamma di andargli a far visita per un giorno.
Ero emozionata pensando che ero nella tua città, quella in cui vivevi tu. Mi
faceva venire il batticuore persino pensare che lo stesso terreno su cui stavo
camminando io, era stato toccato anche da te, o che alcune delle persone che
stavo incrociando io, magari tu le vedevi tutti i giorni, le conoscevi e ci
parlavi, per giunta.
Già, ero emozionata. Proprio come una bambina. La bambina qual ero ancora
rimasta.
Ero persa nelle mie fantasie e non facevo altro che guardarmi intorno con aria
curiosa e scrupolosamente attenta. Speravo di incrociarti, di vederti passare
in mezzo a quella folla. Sapevo che era quasi impossibile che accadesse.
Perché, anche se ti fossi trovato lì, a camminare per quelle strade,
quest’ultime erano così affollate che molto probabilmente non sarei riuscita a
trovarti. Eppure, ancora convinta di avere con te un forte legame che ci univa,
pensavo che ti avrei riconosciuto subito. Anche solo dagli occhi. Quegli occhi
verde-foglia che amavo da morire.
“Hikaru!” mi richiamò nuovamente la mamma. “Smettila di sognare ad occhi
aperti. Siamo quasi arrivate – è vero, ma la folla non cessa. Devi restare
vicino a no…”
“Su, onee-san, basta così. Ha capito, non credi?” accorse in mio aiuto la zia
che evidentemente stava leggendo sul mio viso la disperazione mista
all’esasperazione.
Ero una ragazza educata, quindi non avrei mai osato rispondere male a mia
madre, ma avevo un temperamento abbastanza forte e forse qualche commento me lo
sarei lasciato scappare. Infondo, anche se garbata, ormai non ero più una
bambina.
“Non credo abbia capito dato che, nonostante glielo ripeta senza sosta,
continua a non obbedirmi”.
Zia Kin sospirò. “Insomma, capisco la tua preoccupazione. So che il fatto di
aver portato Hikaru-chan in una città affollata e pericolosa come questa, che
peraltro non conosce, possa suscitare in te dell’apprensione, ma credo tu stia
esagerando”
Mia madre rimase in silenzio, fissando la sorella mentre proseguiva: “Oramai ha
quasi quattordici anni. Cosa pretendi? Che ti dia la manina?”
A quel punto non trattenni un risolino.
L’immagine di me, ormai grande, che davo la mano (come una bambina) a mia madre
per non perdermi era a dir poco ridicola. Sicuramente se fossi stata io a
vedere una ragazza della mia età in quella situazione, sarei stata sfacciata al
punto tale da riderle in faccia. Povera sventurata.
Mia madre, da donna beneducata e matura qual era, non si lamentò ulteriormente,
ma restò particolarmente risentita di quella risposta. Ed io, da brava figliola
sempre dedita alla famiglia e alla casa, essendo cresciuta praticamente solo
con la sua figura in casa, capivo bene i suoi pensieri e ciò che stava
provando, nonostante fosse rimasta in silenzio e avesse proseguito il cammino
senza fare storie.
“Lei non ha figli. Fa presto a parlare.
Non sa il dolore che si potrebbe provare se ad un figlio, per cui daresti la
vita, succedesse qualcosa”.
Certo, non potevo leggere nel pensiero, ma ero quasi certa che fosse quello
che pensò mia madre nell’istante in cui la zia la riprese per le sue continue
ed eccessiva raccomandazioni. Ed essendo mia madre fondamentalmente buona e
gentile, non se la sentì di tirare in ballo quel discorso che avrebbe
sicuramente ferito la zia. Perché la mamma sapeva bene quanto lei avesse voluto
e tanto sperato in un figlio. Purtroppo, però, a quanto pareva, non era
fertile. Per non parlare del fatto che il marito non c’era quasi mai a casa,
quindi avevano avuto, sostanzialmente, poco tempo per provare ad averne uno.
Beh, non dubitavo del fatto che la zia tenesse molto a me, ma da quel punto di
vista appoggiavo la visione di mia madre.
Insomma, non avevo alcun dubbio che, se mi fossi persa o mi fosse capitato
qualcosa, zia Kin sarebbe andata in panico e sarebbe quasi morta per la
preoccupazione, ma... detto francamente, l’amore che si può provare per una
nipote non potrà mai essere d’eguale intensità rispetto all’amore per un
figlio, per la carne della tua carne e il sangue del tuo sangue. Per una
creatura che, fondamentalmente, ti appartiene e che è stata parte integrante di
te.
Ecco perché pensavo che, molto probabilmente, se fossi stata la figlia della
zia, il suo atteggiamento sarebbe stato diverso nei miei confronti. Sarebbe
stata meno disponibile e aperta, e più rigida e apprensiva.
E di questo ne ero quasi del tutto sicura.
Dopo il piccolo excursus di carattere familiare, tornai a concentrarmi sulla
folla che ci circondava, per cercare di trovarti e scorgerti da qualche parte,
in qualche modo. Purtroppo, però, dovetti prestare attenzione ad altro: eravamo
arrivati alla nostra destinazione, la proprietà del signorotto presso cui mio
padre prestava servizio.
Vi erano delle guardie fuori, a sorvegliare il palazzo, nonostante fosse ancora
primo pomeriggio, ma pensai subito che fosse una cosa normale per un uomo ricco
prendere le adeguate precauzioni per sé, la sua famiglia e i suoi beni.
Dopo aver dichiarato alle guardie che eravamo familiari di Okita Rintaro, ci
lasciarono passare senza problemi. Onestamente mi sembrò alquanto strano che
non ci chiedessero neanche una conferma o che non fossero minimamente
sospettosi circa la nostra identità, ma poco dopo mi rassicurai, ritenendo che
sicuramente mio padre aveva annunciato che sarebbero arrivati i suoi parenti
quel giorno. Ed in questo modo sarebbero
stati pronti ad accoglierci senza discussioni e/o difficoltà.
La casa dove sostava mio padre era davvero magnifica: assomigliava quasi ad un
dojo ed, in effetti, lo era, ma aveva quel non so che di accogliente ed
ospitale.
Non mi soffermai più di tanto a guardarmi intorno, perché la mia attenzione fu
catturata da una donna vestita di un kimono color rosso porpora, che
educatamente e garbatamente s’inchinò alla nostra presenza. Dopo aver alzato il
capo e averci sorriso, esordì: “Buon pomeriggio. Voi dovete essere Mitsu-dono e
Kin-dono, rispettivamente la moglie e la cognata di Okita-dono, se non erro?”
“Non sbagliate” la rassicurò mia madre, ricambiando il sorriso della donna.
“Siamo noi” acconsentì la zia, con tono di voce calmo e pacato, quasi non da
lei.
La donna sorrise nuovamente, per poi concentrarsi su di me. “E lei deve essere
Hikaru-san”.
Si avvicinò ulteriormente a me, come per guardarmi meglio. “La figlia di
Okita-dono, vero?”.
Mi limitai ad annuire, guardandola con un’espressione mista tra la perplessità
e la diffidenza.
Innanzitutto, perché questa differenza di trattamento? Perché alla mamma e alla
zia era stato riservato il suffisso “dono”, mentre a me si rivolgeva con un
semplice e banalissimo “san”? Certo, era sempre meglio che il “chan”, ma avevo
anche io il mio orgoglio. Era solo perché ero ancora una ragazzina? Beh, non
ero un’adulta, – questo era palese – ma ci stavo per arrivare. E di certo non
ero una bambina.
In secondo luogo, perché sorrideva in quel modo ebete, mentre mi guardava?
Sembrava proprio il tipico sguardo di chi pensa: “Oh, ma che carina!”.
E, come avevo già detto, ormai non ero più così piccola. E odiavo essere
trattata da tale.
Fondamentalmente non ero cambiata di molto, da quand’ero piccola. Avevo
semplicemente imparato a rimanere più al mio posto, ad essere più scrupolosa,
attenta e matura. Beh, forse non proprio così matura… Ma ci stavo lavorando su.
Dopo avermi sorriso ancora una volta, la donna dai lunghi capelli neri raccolti
in un alto chignon, si rivolse a tutte, in generale. “Il mio nome è Misao
Konno. La mia signora, informata del vostro arrivo dal signore e da Okita-dono,
mi ha pregato di accogliervi e darvi il benvenuto nella dimora dei Fujiwara”.
I Fujiwara…
Pensai, istintivamente, in quel momento.
E’ una famiglia potente. Ne parlano tutti
in giro. Non sapevo che papà prestasse servizio presso questa famiglia.
Effettivamente sembrava alquanto strano – e lo era – che non sapessi
neppure questo di lui. Non che ignorassi intenzionalmente mio padre o quello di
cui si occupava. Semplicemente non m’importava. Il fatto che fossi cresciuta
soltanto con la figura di mia madre accanto, non mi aiutò a credere in lui, né
nel rapporto che si supponeva dovessi avere con lui. Era sempre stato assente,
da quando ne avevo memoria. Rarissime volte l’avevo incontrato: si potevano
contare sulle dita di una sola mano.
Pensai proprio a questo, mentre seguivo le sagome della zia e della mamma che
seguivano a loro volta, silenziosamente, la donna di nome Misao che le
conduceva verso la sala principale, dove avremmo incontrato mio padre e, con
molta probabilità, anche colui che proteggeva, insieme alla sua famiglia.
Una volta arrivate, Misao-san aprì lo shoji
decorato con una fantasia di foglie autunnali e ci fece segno di entrare.
“Prego”.
Mia madre, allora, le sorrise e s’inchinò verso di lei, prima di entrare nella
stanza. “Vi ringrazio”.
La zia imitò il gesto della mamma, per poi entrare nella stanza e sedersi di
fronte a lei. La sua compostezza mi stava quasi mettendo i brividi. L’avevo
vista poche volte così cortese ed educata.
E così venne il mio turno. Ancora con aria un po’ stizzita, feci qualche passo
avanti, sino ad arrivare di fronte la donna. Senza sorriderle, poi, mi limitai
a farle un mezzo inchino e ad entrare a mia volta, appostandomi accanto alla
mamma.
“Vi prego di attendere qualche minuto. Andrò subito ad informare la mia signora
del vostro arrivo. Vogliate scusare in anticipo la mia assenza”.
E detto ciò, fece un inchino e col volto basso se ne andò, chiudendosi lo shoji alle spalle.
Una volta che i passi di Misao-san furono lontani, ci rilassammo tutte e tre.
Lo capii dai profondi sospiri della zia e della mamma.
“Cielo. Mi sento così nervosa!”.
“Kin, se non ti calmi, è logico che il nervosismo ti dia alla testa”.
“Ma, onee-san… Questa è gente che giudica persino come respiriamo…” sussurrò la
zia tra le labbra, quasi per timore di essere sentita da qualcuno di passaggio
(o, peggio ancora, di ritorno).
“Purtroppo non possiamo fare altrimenti. Questa è la famiglia presso cui presta
servizio mio marito e, se voglio vederlo, una volta ogni tanto, sono costretta
a fargli visita presso questo palazzo”.
Evidentemente anche per mia madre questa visita non doveva essere una dei
migliori passatempi.
Ma allora che diavolo ci siamo venuti a
fare?!
Lo pensai, ma feci bene a tenerlo per me, perché avrei ferito la mamma.
Pensandoci bene, effettivamente, era da tre anni che non aveva alcuna notizia
di mio padre. Non doveva trattarsi necessariamente di un papiro… Più di una
volta mi aveva ripetuto che anche una lettera di qualche parola le sarebbe
andata bene, o anche un semplice messaggero. Giusto per sapere se stava bene, o
se era ancora vivo.
La mamma lo amava tantissimo come marito, più di quanto io lo amassi come
padre...
E se ci trovavamo lì, adesso, in quella stanza, dopo tante e stancanti ore di
viaggio per arrivare sin lì, era solo perché mia madre aveva davvero voglia di
rivederlo. Con ogni probabilità, se fosse dipeso da mio padre, si sarebbe fatto
rivedere da lei solo quando fosse tornato a casa, in attesa di un nuovo
ingaggio.
“E, per l’amor del cielo, Hikaru, sorridi un po’. Sembra che ti abbiano
incatenato e ridotta in schiavitù” mi rimproverò la mamma, con aria un po’ severa.
“Ti manca solo il collare. Con la faccia stai messa bene, Hikaru-chan”
s’intromise nuovamente la zia, come di sua abitudine.
“Kin, per favore!” la riprese lei, per poi rivolgersi nuovamente a me. “Sono
passati un po’ di anni. Non vorrai farti rivedere da tuo padre con quell’aria
imbronciata, dopo tutto questo tempo, voglio sperare”.
Era vero. Da quando ero entrata in quella casa non avevo sorriso neanche una
volta. Ero fredda e leggermente infastidita. Non perché trovassi spiacevole la
situazione, o fossi diventata più malinconica col passare del tempo. Era solo
che avevo più voglia di stare in giro a cercare te, piuttosto che in quel
palazzo noioso, circondata da persone altrettanto noiose.
E, sfortunatamente per mia madre, non avevo alcuna intenzione di dipingermi un
sorriso falso sulle labbra solo per compiacere un uomo che non aveva fatto
altro che lasciarmi alle sue spalle, senza mai voltarsi per degnarsi di sapere
come stessi, se fossi cresciuta, o se non fossi contagiata da chissà quale male
mortale!
A quell’epoca pensavo che per mio padre, che fossi viva o morta, la differenza
non vigesse.
“Proverò a fare del mio meglio. Non garantisco niente, però” risposi con aria
pacata, abbassando il capo.
“Hikaru!”
“Oka-san, non ci posso fare davvero niente! Io…”
“Shh!!!” c’interruppe la zia, con aria alquanto preoccupata. “Stanno arrivando.
Sento dei passi”.
L’avvertimento della zia ci fu utile per ricomporci appena in tempo per non
essere colte nel pieno della nostra discussione.
“Ne parleremo più tardi. Ora vedi solo di comportarti in maniera quantomeno
decente. Non sono venuta da Edo sino a Kyoto perché tu litigassi con tuo padre,
bensì perché ti ricongiungessi con lui. Spero almeno che tu abbia capito quanto
tengo a questa visita”.
Lo avevo capito. Eccome se lo avevo capito.
E fu proprio perché lo avevo capito che rimasi zitta e feci di tutto per
cercare di sembrare, se non felice, almeno non infastidita.
Sospirai mentre mi ricomponevo e osservavo le figure dietro gli shoji che si muovevano verso questa stanza.
Le figure in questione erano due. Due donne, per la precisione. Si capiva
dall’acconciatura sfarzosa e i kimono ingombranti. Tranne l’Imperatore, nessun
uomo avrebbe mai potuto indossare un tale kimono.
Fu così che gli shoji vennero aperti
lentamente da Konno-san che, successivamente, si mise in ginocchio e s’inchinò
in direzione della persona che stava entrando in quel momento.
La donna che fece il suo ingresso nella sala ci lasciò tutte a bocca
semiaperta. E non perché fosse bella…
Si mise, allora, in ginocchio con infinita eleganza, inchinandosi al nostro
cospetto. “Vogliate scusare l’attesa. Sono stata informata solo da poco del
vostro arrivo. Spero mi perdonerete”.
“Oh… Oh, per carità. Non avete niente da farvi perdonare. Anzi, dovremmo essere
noi a scusarci per avervi recato disturbo, presentandoci qui”. Mentre mia madre
era presa a risponderle, non potetti che osservare quella donna.
Non era bella. Infondo, non era molto più giovane della mamma, né aveva tratti
particolari, ma… Era a dir poco incantevole. Aveva un portamento, un modo di
parlare, di osservare le cose e di porsi assolutamente seducenti. Tutto di lei,
sembrava bellissimo, guardandola da quel punto di vista. Anche soltanto quando
girava leggermente il capo, sembrava potesse far cadere ai suoi piedi l’intero
mondo. Sembrava quasi che danzasse, anche quando, semplicemente, respirava o
sorrideva.
“Non ditelo neanche. Sono onorata di poter ospitare nella mia umile dimora la
moglie, la figlia e la cognata dell’onorevole Okita-dono” disse, sorridente,
mentre si rivolgeva a Misao-san che le era inginocchiata a qualche centimetro
di distanza, leggermente dietro di lei, in segno di rispetto ed inferiorità.
“Misao, porta il tè”
“Hai” si limitò a rispondere,
inchinandosi nuovamente ed uscendo silenziosamente dalla stanza.
La donna si voltò nuovamente verso di noi, sorridendoci cordialmente. “Oh, che
scortese, non mi sono ancora presentata. Il mio nome è Sakura Fujiwara. Sono la
moglie di Fujiwara Kentaro” .
“E’ un piacere fare la vostra conoscenza, Fujiwara-dono. Io sono Mitsu. Okita
Mitsu” rispose mia madre, ricambiando il gentile sorriso.
“Il piacere è tutto mio, Okita-san… Oh, ma abbandoniamo le formalità. Siamo entrambe
donne e scommetto che siete anche più grande di me. Quindi, semmai, dovrei
essere io a portarvi rispetto”.
“Oh, non sia mai… Io…”
“Posso chiamarvi Mitsu-san?” . Sakura-san non sembrava una donna cattiva, né
intenzionata a darsi arie per il suo grado sociale. Anzi, dava quasi l’aria di
qualcuno che volesse dare a intendere di essere normale. Fin troppo normale.
“Oh, per me non ci sono problemi. Ne sarei onorata”
“Bene” sorrise, radiante, lei. “Allora, voi potete chiamarmi Sakura”.
Mia madre tentennò un po’ sul da farsi. Era una familiarità che solitamente non
ci si poteva permettere, ma dato che era stata lei a chiederlo…
“Dunque, Sakura-sama, vogliate scusare il mio arrivo improvviso. Ho preso
questa decisione solo pochi giorni fa. Sono cosciente del fatto di aver potuto
procurare dei fastidi”.
“Ma di quali fastidi state parlando? Vi ho già detto che sono onorata di
potervi ricevere qui”.
“Sì, ma, molto probabilmente, non si aspettava così tante persone”. Mia madre
fece una pausa, per poi continuare: “Il fatto è che non vedo mio marito da
tempo e mia figlia, da anche più. Ecco perché l’ho portata con me. Per quanto
concerne mia sorella, invece, non me la sentivo di partire da sola. Viaggio
poco in confronto a lei e, di conseguenza, meno abituata e meno preparata in
caso accadesse qualcosa durante il tragitto”.
Dopo pochi secondi di silenzio, intervenne mia zia: “Vogliate scusare
l’intrusione e mi rendo perfettamente conto di essere fuori luogo in questa
situazione. Tuttavia, in quanto sorella di Mitsu ero preoccupata per il suo
viaggio ed essendo stato programmato quest’ultimo senza alcun preavviso, non vi
è stato neanche il tempo materiale per disporre di alcuna truppa di scorta”.
“Non dovete farvi alcun problema. Siete tutte le benvenute qui” sorrise
nuovamente la donna, rivolgendosi alla zia, per poi concentrarsi nuovamente su
mia madre. “Posso capire l’esigenza che provate nel voler rivedere vostro
marito. Soprattutto se è da molto che manca da casa”
“Sì…”
“Credo che voi amiate molto vostro marito, vero?”
“Eh?” . La mamma arrossì di colpo. “Ah… Ecco… Io…” . Era nervosa. Ed il suo
incessante borbottio ne era la prova. Ma poco dopo si calmò, ed ancora con le
guance rosate, sorrise tra sé e sé, ammettendo: “Immagino… Immagino di sì”.
L’aggraziata Sakura-san si mise una mano sulle labbra che si allargarono in un
sorriso compiacente. Era strana l’atmosfera che si era venuta a creare: quasi
come se fossero state amiche da sempre. Una confidenza un po’ strana. Doveva
essere tutto merito di quella donna, per aver dato fiducia alla mamma.
“Ah, che sciocca. Mi stavo quasi scordando…” . Scoloritesi le guance, avendo
cambiato argomento, la mamma si voltò verso la zia. “Questa è mia sorella, Kin”.
“E’ un piacere conoscerla. Mi scuso per non essermi presentata dapprima”
esordì, mortificata, zia Kin, inchinandosi.
“Oh, non ve n’è bisogno, vi prego. State comoda”.
E solo quando si fu rialzata e ricomposta, la mamma prese ad indicarmi con
eleganza. “Questa invece è mia figlia, Hikaru. Okita Hikaru”.
Sakura-san prese a fissarmi compiaciuta, rivolgendomi un sorriso. Un caldo
sorriso, dopo avermi squadrata da capo a piedi. Ma non con l’aria di qualcuna
che volesse giudicarmi. Al contrario, con l’aria di qualcuno che volesse solo
constatare qualcosa.
“E’ davvero una ragazza splendida. Non mi aspettavo da meno dalla figlia di
Okita-dono”.
Arrossii, per poi chinare il capo, imbarazzata.
“Vi… Vi ringrazio molto” mi limitai a risponderle, con un filo di voce. “Siete
troppo gentile”.
“Non ditelo neanche per scherzo, Hikaru-san. Fosse solo frutto della mia
gentilezza! Siete un bocciolo nella piena stagione della fioritura” spiegò, con calma, mentre si apriva, alle sue
spalle lo shoji.
Si fermò un attimo ed aspettò che Misao-san entrasse e servisse il tè a tutte e
quattro, per poi riprendere educatamente il discorso senza pericolo d’esser
interrotta: “E’ solo questione di tempo prima che il fiore che in realtà siete,
ci appaia nel suo reale splendore. Ne rimarranno tutti abbagliati. Ne sono
certa”.
Arrossii nuovamente e subito voltai lo sguardo altrove, incapace di incontrare
lo sguardo di quella donna, che invece mi osservava costantemente e con
attenzione.
“Le vostre parole ci riempiono di gioia” intervenne mia madre, per paura che
non mi sapessi districare dalla situazione.
Ed aveva ragione. Molto probabilmente non vi sarei riuscita, dato il disagio
che provavo. E, quasi sicuramente, se non mi fossi trovata di fronte a qualcuno
verso cui dovevo portare il massimo del rispetto, sarei stata più istintiva e spontanea.
Come lo ero di solito.
La conversazione tra le tre continuò a lungo, parlando del più e del meno,
oppure concentrandosi sugli arredamenti lussuosi della casa. Mia madre e mia
zia non facevano altro che imbottire di complimenti Sakura-san, che invece si
mortificava da sola e faceva la modesta.
Per quanto riguardava me, invece, non facevo altro che restare in silenzio ad
osservarle e, quando mi si rivolgeva la parola o qualche domanda, rispondevo a
monosillabi. Mi limitavo a fare quel tanto che mi serviva, insomma, per non
essere giudicata scortese, o maleducata.
Dopo circa un’ora da quando avevamo fatto la conoscenza di Sakura-san, sentimmo
dei passi arrivare dal corridoio.
Dato che ero l’unica non impegnata in noiosi e convenevoli discorsi, fui anche
la prima e l’unica a notarlo; si scorgevano dallo shoji le figure di due persone, di due uomini, che però non
riconobbi. Le due sagome si fermarono proprio davanti la porta della stanza ed,
accortasene, Misao-san subito fece per aprirla.
Fu così che lo rividi dopo tanto tempo…
I capelli lunghi e neri, raccolti in una bassa coda di cavallo, gli occhi
dorati come quelli dei gatti neri, un corpo in perfetta forma, a causa degli
esercizi continui e provato dalle innumerevoli esperienze di vita. Il viso,
nonostante fosse sfregiato da piccole cicatrici sparse qua e là, conservava
ancora quei bei lineamenti di un tempo e la sua aria emanava tranquillità e
sicurezza.
Dovevo ammettere che, nonostante l’età, mio padre si manteneva abbastanza
bene. Gli si intravedeva solo qualche
piccola ruga sulla fronte, ma per il resto non sembrava proprio avesse passato
la cinquantina già da un bel po’.
Onestamente non lo avevo riconosciuto da subito, forse perché era da tanto
tempo che non lo vedevo. Ma ero riuscita a capire che era lui, solo perché il
tizio che gli era accanto era piuttosto normale: il tipico giapponese dai
capelli corti e scuri, gli occhi neri, la carnagione chiara e la corporatura
esile e fragile, nonché un po’ bassino per essere un uomo. Era alto quanto mia
madre, nonché ben trenta centimetri più basso di mio padre. Una differenza
d’altezza non tanto sorvolabile. Era un uomo così tipicamente nipponico che
anche su un altro pianeta, un alieno lo avrebbe riconosciuto e gli avrebbe
detto: “Sei giapponese, vero?”.
“Oh, Kentaro-dono, Okita-dono… Siete arrivati, infine” fece notare Sakura-san.
“Perdonate il ritardo, mie gradite ospiti, ma ci sono stati alcuni affari
urgenti da dover sbrigare immediatamente” esordì l’uomo a fianco a mio padre.
“Spero che la mia sposa sia stata accogliente e gentile con voi”. Detto ciò,
quest’ultimo si inginocchiò accanto a Sakura, circondandole le spalle con un
braccio e attirandola leggermente verso di sé. “Sono Fujiwara Kentaro, il
residente e proprietario di questo palazzo, nonché colui presso cui presta
servizio Okita-san”.
Mentre lui ci sorrideva, io non potei che sgranare gli occhi (con moderazione,
s’intende).
Lui è… Fujiwara Kentaro? Il marito di
Sakura-san?!
Probabilmente, se avessi potuto aprir bocca, lo avrei urlato.
Ma com’è possibile?!
Insomma, non che non potesse essere così, ma… Me lo ero immaginato in
maniera totalmente diversa!
Non so… Un po’ più alto, un po’ più
possente…
In poche parole… Non così normale!
Beh… Suppongo che anche lui sia un essere
umano, no? Quindi, anche se potente, non necessariamente deve essere come un
dio…
Eppure sembrava una persona talmente gentile e pacifica, proprio come la
moglie, che pareva davvero strano il fatto che tentassero di eliminarlo, ma
suppongo che ciò dipendesse dalla posizione che esso deteneva nella società e
non certo da come si comportava con gli altri.
Fujiwara-san ci rivolse un altro sorriso, mentre si rivolgeva a mio padre,
ancora in piedi, dietro di lui, che guardava dritto davanti a sé, senza un
obiettivo preciso. Fissava il vuoto, proprio come un generale che doveva stare
sull’attenti, in attesa di un ordine.
“Rintaro, puoi anche accomodarti, sai? D’altronde è la tua famiglia, venuta a
posta per vederti, che stiamo ricevendo. Salutala come si deve”.
Quelle parole m’infastidirono non poco, come l’atteggiamento di mio padre!
Insomma, capivo che, essendo il suo superiore, dovesse portargli rispetto e
mantenersi composto davanti ai suoi occhi in qualunque momento e/o situazione,
però…
Non vedeva la sua famiglia da tanto tempo e… entrato nella stanza non poteva
neanche guardarci per un secondo, se non dopo aver ricevuto il permesso da quel
tizio?!
Mentre ci pensavo, mio padre finalmente abbassò lo sguardo, per poi chinare il
capo verso Fujiwara-san in segno di rispetto. “Vi ringrazio infinitamente”.
Detto ciò, fece per inginocchiarsi al suo fianco, qualche centimetro dietro di
lui e, soprattutto, di fronte a me e mia madre.
I suoi occhi dorati si concentrarono soprattutto su mia madre. L’aria seria che
aleggiava sul suo volto si tinse di tranquillità. “Il viaggio deve essere stato
stancante. Mi spiace che tu abbia dovuto passare tutto ciò, senza neanche una
scorta adeguata”.
Che razza di…
Mi trattenni per grazia di non so quale Dio in cielo …
Non la vedi da così tanto tempo... E la
prima cosa che pensi è il viaggio e la scorta? Ma che razza di uomo sei?!
Avrei voluto urlarglielo contro! E, alterata com’ero, guardai mia madre
stizzita, per constatare la rabbia che anche lei avrebbe dovuto provare.
Già… che “avrebbe” dovuto provare… Perché invece non la provò…
Quando mi voltai verso di lei, credendo di trovare sul suo volto un qualche
segno di disapprovazione o delusione, non notai altro che un sorriso gioioso,
trattenuto dalle mani che poggiavano sulle labbra e le lacrime che tentava
disperatamente di trattenere.
Era felice. Felice da morire. Probabilmente così felice di poter rivedere mio
padre che, qualsiasi parole le avesse rivolto, anche un insulto, le sarebbe
andato bene. Sarebbe anche potuta morire con l’animo in pace, in quel momento.
Lo amava davvero tantissimo. Un amore che non corrispondeva a quello che
provava lui nei suoi confronti. Un amore che, per quanto ci provassi, non
riuscivo proprio a comprendere.
“No… Non è stato faticoso…” borbottò, agitata, mia madre, cercando di
mascherare il rossore sulle guance. “Per fortuna mi ha accompagnata Kin. Grazie
a lei, ho potuto sopportare meglio le avversità del viaggio”.
Sentito ciò, mio padre si voltò verso la zia. Non le sorrise, ma aveva comunque
un’espressione comprensiva sul volto, o, quantomeno, grata. “Ti sono debitore,
Kin-san”.
“Oh, non c’è di che” affermò mia zia, sorridente, per poi rimanere in silenzio,
non sapendo cos’altro aggiungere.
“No, davvero…” insistette lui. “Ti sono grato per aver scortato Mitsu e…”. Si
bloccò, per poi prendere a fissarmi.
Mi irrigidii, sentendo i suoi occhi dorati su di me. Mi sentivo a disagio e
alquanto in imbarazzo. Era come se mi stesse fissando uno sconosciuto. Provavo
la stessa sensazione che con qualsiasi altra persona a me estranea. Una
sensazione sgradevole. Mi sentivo tutto, meno che a mio agio.
Nonostante fosse mio padre, abbassai lo sguardo, cercai di evitare di
incrociarmi con i suoi occhi e in cuor mio speravo che presto si scocciasse di
guardarmi e prendesse a parlare con la mamma, la zia, o chiunque altro andava
benissimo! Bastava che smettesse di concentrarsi su di me!
Se avessi avuto il potere di smaterializzarmi nell’aria, l’avrei fatto con
molto piacere.
“Chi sarebbe questa giovane ragazza?”.
…
Spalancai gli occhi, continuando a guardare in basso.
Cosa…?
“Ma come, non la riconoscete, Okita-dono?” s’intromise Sakura-san, con voce
allegra e il sorriso sulle labbra. “E’ la vostra bellissima figlia,
Hikaru-san”.
Mio padre ne rimase stupito. Ma non me ne accorsi perché lo guardai, dato che ero
ancora col capo tanto chino da poter quasi contare quanti granelli di polvere
vi erano sul pavimento in legno di quercia. Riuscii a comprendere il suo
stupore dal sussulto che emise.
“Hi… Hikaru?” domandò lui, voltandosi incredulo verso mia madre, in cerca di
conferma.
Lei annuì, sorridendo e toccandomi la spalla, delicatamente. “Sì, è lei”
asserì, con un filo di voce. “E’ cresciuta un po’ dall’ultima volta che l’hai
vista, vero?”.
Il silenzio più totale.
Non sentii più niente e, in quel momento, effettivamente, non è che me ne
importasse più di tanto, di sentire qualcosa.
“Kentaro-san, mio caro, forse è meglio lasciarli soli. Avranno tante cose da
dirsi. Cose di famiglia che, in nostra presenza, non sarebbero liberi di
comunicarsi” constatò l’elegante moglie di Fujiwara-san che, acconsentendo,
annuì e si alzò in piedi, aiutando Sakura-san a fare altrettanto.
L’uomo sorrise un’ultima volta prima di chiudersi lo shoji alle spalle, mentre vidi che la donna, seguita da Misao-san,
mi augurava qualcosa in un timido sussurro…
“Buona fortuna” mi aveva augurato, prima di allontanarsi con il marito e
Konno-san dalla stanza in cui pochi secondi prima erano in nostra compagnia.
Il silenzio regnò sovrano per quegli attimi. Un silenzio imbarazzante. Sentivo
l’attenzione concentrarsi su di me e la cosa non mi piaceva.
Feci per alzare solo per un secondo lo sguardo che avevo tenuto basso fino a
quel momento, giusto per capire quali intenzioni avessero: se restare in
silenzio in eterno, o incominciare a parlare di qualcosa. Qualunque cosa.
Ma appena i miei occhi azzurri cambiarono la loro visuale incontrarono
direttamente il dorato delle sue pupille: mi stava ancora osservando.
Subito abbassai nuovamente il capo, quasi intimorita. In realtà non volevo
davvero che mi vedesse. Era una sensazione orribile, quella di essere sotto il
suo sguardo.
“Avanti, Hikaru-chan, non fare la bambina” mi incitò a comportarmi un po’ più
maturamente, la zia.
“Ha ragione lei, Hikaru” la assecondò mia madre. “Ormai sei grande, no? Fatti
un po’ vedere da tuo padre… Vorrà vedere come sei cresciuta dopo tutto questo
tem…”
“Lui non è mio padre” la interruppi io, prima che potesse finire la frase.
Il silenzio più assoluto visse nuovamente nella stanza. Un silenzio che
proveniva da sensazioni di stupore, sorpresa e totale indifferenza… O almeno
così pareva…
“E non v’è motivo che si preoccupi del se e come sono cresciuta” terminai,
ancora col capo chino e con un tono alquanto insolente, per essere una semplice
ragazzina.
Nel silenzio più totale, i miei pensieri confluivano velocemente, come un treno
in corsa.
Ciò che avevo espresso in quelle poche ma solenni parole era ciò che sentivo,
che avevo sempre sentito di provare nei suoi confronti.
“Hi… Hikaru!” mi riprese la mamma, con tono più che severo. “Si può sapere che
stai dicendo? Come ti permetti di parlare così a tuo padre?”.
“Perché, sbaglio forse a pensarla così?!” ribattei, alzando gli occhi tremanti
per la rabbia verso mia madre, che invece era un misto di stupore e
disapprovazione. “Quest’uomo non è mio padre!” ripetei nuovamente, indicandolo
con fare accusatore.
“Hikaru, per favore, smettila. Dopo tanto tempo siamo finalmente tornati
insieme… Non ti sembra inopportuno, ora come or…”
“No che non mi sembra inopportuno, oka-san!” . Mi dispiaceva dover rispondere
in quel modo a mia madre, ma la collera davvero non si attenuava. “Forse da
piccola non comprendevo tanto il significato della sua assenza e quindi lo
detestavo senza tener conto dei fattori che lo tenevano lontano da casa. Ma,
ora che sono cresciuta e che conosco questi determinati fattori…” . Feci una
pausa.
…
“… forse lo odio più di prima” conclusi dopo pochi attimi di attesa.
Mia madre assunse un’aria a dir poco sconvolta, che per la prima volta in vita
mia non mi fece astenere dall’esprimere ciò che pensavo: “Sono cosciente del
fatto che è grazie a lui che viviamo la nostra vita in tranquillità e grazie al
suo lavoro abbiamo il sostentamento per vivere, ma… Non m’interessa avere un
padre con il quale l’unico legame che ho è il danaro che ci manda per
sopravvivere”.
Il mio interlocutore non era più solo la mamma. Era un discorso fatto in
generale fino a quel momento, come se stessi parlando più a me stessa che agli
altri in quella sala. Ma quando incontrai il suo sguardo maturo, calmo ed
indifferente, non potei fare a meno che rivolgermi direttamente a lui con una
rabbia incontenibile dentro. Così incontenibile che mi sentivo di soffocare.
“Tu… sei un perfetto sconosciuto per me! In questi miei quattordici anni di
vita se ti ho visto tre volte è stato già tanto! Ed in quelle tre volte che sei
rincasato hai solo parlato con la mamma! Non mi hai rivolto neanche uno
sguardo! Ti limitavi a sorridermi quando mi incrociavi per casa, ma non mi hai
mai neanche rivolto una parola… Non hai mai neanche pronunciato il mio nome. Pensavo
addirittura che non lo conoscessi!”. La veemenza con cui ti aggredivo spaventò
tutti, me compresa, meno che te. Ed il fatto che mentre io ti inveivo contro,
tu rimanevi calmo, seduto compostamente, senza neanche sbattere ciglio alle mie
accuse, mi mandava in bestia ancora di più.
Allora non gliene importa davvero niente!
Non potevo fare a meno di pensarlo, date le circostanze e lo sguardo
indifferente che mi rivolgevi.
“Come posso pensare a te come “padre” se non ti preoccupi neanche di sapere
come sto, se sono cresciuta o anche se sono ancora in vita?! Non te ne importa
niente di me! Non te n’è mai importato niente né di me, né della mamma!”
“Hikaru!” mi riprese mia madre, con tono severo, il più severo che sapessi
appartenerle.
“Oka-san, è così! Non cerchiamo di nasconderlo!” le risposi con decisione e
sfrontatezza. Mi salivano le lacrime agli occhi mentre stavo parlando e mentre
anche solo ci pensavo. “Sei sempre e solo tu che pensi a lui… Sempre e solo tu
che ti preoccupi di sapere come sta! E sempre e solo tu speri che ritorni a
casa per rivederlo! Sei l’unica che lo ama! Se dipendesse da lui non tornerebbe
mai a casa, dalla sua famiglia. Perché lui non ce l’ha una famiglia, né gli
interessa averla!”.
Con la rabbia che albergava nel mio cuore, mi rivolsi nuovamente a lui che non
ebbe paura di incrociare il mio sguardo. “La mamma è sempre così preoccupata
per te, quando non ti vede per tanto tempo… Ma riesce a resistere e ad andare
avanti, anche se soffre enormemente nel non poterti stare accanto, lo sai?!
Ogni giorno lei mi mostra il suo radiante sorriso, pronta ad aiutarmi e a
sostenermi, quando invece chi vorrebbe essere sostenuta è proprio lei, lei che
ogni tanto si fa prendere dallo sconforto e la sento piangere nella sua stanza,
al buio, in silenzio, per non farsi sentire. Costretta a nascondere la sua
sofferenza dietro un falso sorriso per non farmi stare male… E tutto perché non
tieni a lei! Quale uomo non scriverebbe neanche una lettera alla propria moglie
per anni ed anni? Posso capire che tu sia impegnato col lavoro e tutto quello
che vuoi, ma… devi proprio essere marcio dentro per non pensare neanche una
volta, se non a tua figlia, almeno alla tua donna, mentre sei nel tuo fouton,
tutto da solo!”.
“Hikaru, basta…” tentò nuovamente di fermarmi la mamma, ma io non ne volli
sapere e proseguii: “Lo sai quant’era felice di poter venire qui a trovarti, di
poterti finalmente rivedere? A casa era così sorridente da poter irradiare con
la sua felicità tutta quanta Edo! Era impaziente, vivace ed esultante come
forse neanche io riuscirei ad essere alla mia età… Tutto perché poteva
rincontrarti ancora una volta dopo tanto tempo! E dopo tutti gli anni passati
in solitudine l’uno dell’altra, una volta entrato nella stanza dove si trova
lei, non la degni di uno sguardo se non dopo che ti viene ordinato? E appena le
rivolgi la parola, la prima cosa che fai è chiederle del viaggio? Ma quanto
puoi essere insensibile?!”.
“Hikaru-chan… Stai esagerando…” mi avvertii la zia.
Stavo rischiando grosso, lo sapevo. Lo sapevo sin troppo bene.
Il fatto era che non conoscevo mio padre, quindi non sapevo come avrebbe
reagito alle accuse che gli lanciavo e soprattutto a ciò che stavo insinuando
tanto sfacciatamente. Di solito le donne, soprattutto della mia età, stavano
zitte o erano piuttosto riservate. Stavano sulle loro, in poche parole, senza permettersi
di dire “a”.
Peccato che io, però, in determinate occasioni, facessi l’eccezione.
Ero sempre stata educata a mantenere la calma e a comportarmi garbatamente. Il
problema era che di fronte a certe situazioni e a certe persone, non riuscivo a
fare buon viso a cattivo gioco. Ero trasparente. Sin troppo. Così tanto che era
quasi inutile cercare di mascherare qualsiasi mio pensiero o giudizio.
“Io starò pure esagerando… Ma almeno sono sincera! A cosa mi servirebbe
mentire? Io… Anche se servisse a qualcosa… Anche se fosse così… Io proprio non
ci riuscirei!” ribattei, furiosa e pronta a rispondere a qualsiasi parola mi si
rivolgesse.
“Come potete chiedermi una cosa del genere? Come potete pretendere che faccia
una cosa simile? Parlargli normalmente, come se nulla fosse, sorridergli,
magari anche scherzare insieme… Io… Io non lo conosco neanche!”.
Di fronte alle mie parole la zia rimase alquanto shockata (ma in lei vigeva più
la paura che mio padre potesse reagire violentemente. Cosa che, invece, non
fece); mia madre, dall’altra parte, rimaneva in silenzio, limitandosi a
guardarmi sdegnata.
“Non l’ho educata così. Questa non è la ragazza che è cresciuta sotto la mia
guida e sotto le mie premurose attenzioni. Io… non la riconosco”. Sono quasi
del tutto certa che fossero questi i pensieri che vorticavano nella sua testa.
Mi dispiaceva far soffrire la mamma, ma non potevo proprio rimanermene in
silenzio. Proprio non ci sarei riuscita.
Posai il mio sguardo, infine, su di lui… Quell’uomo…Mio padre.
Indifferente.
Atono.
Tranquillo.
Quasi sereno.
Non batteva ciglio.
E questo… mi faceva arrabbiare più di ogni altra cosa.
“Ed io… Io dovrei sorridere di fronte ad un uomo che, nonostante le parole che
gli rivolgo, non si degna nemmeno di aprire bocca?”.
Ma nonostante il mio celato invito ad una sua risposta, mio padre non si lasciò
sfuggire neanche un sussulto.
“Non… Non hai niente da dirmi? Davvero niente? Non vuoi controbattere? Non mi
sgridi? Non mi punisci? No…? Forse perché ho ragione? E se ce l’ho, allora
perché non ti scusi? Perché non mi dai ragione? Perché non ammetti che sei
stato crudele ed ingiusto nei miei confronti e in quelli della mamma? Ti abbiamo
forse fatto qualcosa? Ti ho forse fatto qualcosa di male…?”.
La mia ora non era più foga aggressiva. Il mio tono di voce si era abbassato,
ma era rimasto pur sempre tremante. Vibrava come una corda di Koto.
Il mio tono, in quel momento, era come quello di una bambina supplicante. No…
Non era neanche questo. La verità era che…
“Per favore… Se è così, dimmelo…”.
Cercavo di fargli pietà.
Cercavo disperatamente di smuovere quello sguardo serio e atono. Cercavo di
fargli aprir bocca. Non importa cos’avrebbe detto. Mi bastava solo che mi
dicesse qualcosa. Qualsiasi cosa.
Ero scesa in basso. Più in basso di quanto mi sarei mai aspettata.
Ma lui non si fece neanche scuotere da quel tono supplicante. Non mi guardò
neanche più. Si limitò a chiudere gli occhi e chinare leggermente il capo di
lato, come se gentilmente mi stesse invitando a non rivolgergli più la parola.
Come se mi stesse avvertendo che ciò che dicevo a lui non faceva né caldo, né freddo.
Che non gli importava.
In quel momento, ero quasi del tutto certa che, sul campo di battaglia, un
avversario ferito e supplicante ai suoi piedi, lo avrebbe sicuramente commosso
più di me.
E così, assodato che pur scendendo così in basso da mostrarmi supplicante
davanti a lui, rimasi in silenzio.
Un silenzio che durò pochi minuti, forse anche decine di secondi, ma che a me
sembravano millenni.
“E’ così allora…” sussurrai. Ma nonostante il mio fosse appena un filo di voce,
dato il silenzio che ci circondava, riuscirono a sentirlo tutti. “Mi odi… Mi
odi a tal punto che non vuoi neanche più starmi a sentire? Seppur io non ti
abbia fatto niente. Sebbene…” . M’interruppi. Rimasi in silenzio ancora una
volta.
“Ed io dovrei considerarti un padre? Ma per piacere! Molto probabilmente non
sai neanche cosa significhi questa parola! Sono stanca di te! Non voglio più
essere considerata figlia tua! Ti odio, ti odio tantissimo! Dal profondo del
cuore!”
“Hikaru! Basta!” . La voce di mia madre si era fatta ancora più tremante, ma
non riuscì, ad ogni modo, a frenare il mio impeto.
“Sono sempre stata una ragazza calma e posata. Sono sempre stata gentile con
tutti. Oka-san mi ha educata ad essere sempre carina con tutti quanti. Mi ha
insegnato a voler bene alle persone che mi circondavano e a trovare un lato
positivo in ognuno di loro.
Ma in te… io non riesco a trovare neanche un solo lato positivo, una sola
ragione per cui esserti affezionata o volerti bene! Mi vergogno persino ad
avere il tuo stesso nome!”.
“Hikaru!”.
“No, oka-san, deve capire! Deve capire come ci siamo sentite! Come mi sono
sentita! Forse tu sarai anche tanto buona da potergli perdonare tutto, ma io
non sono come te! Non sono affatto forte come te!” . Indi mi rivolsi a lui. “Ma
non t’importerà, vero? Anche se griderò a squarciagola fino a notte fonda, non
mi ascolterai, vero? Non t’importerà! Rimarrai semplicemente seduto ad osservarmi,
senza aprir bocca. Aspetterai che la foga del momento passi, giusto? Starai
sicuramente pensando che sto solo sfogando ora tutta la rabbia che ho dentro da
anni e che dopo qualche altra oretta di urla, sarà tutto finito! Beh, ti
sbagli! Il mio non è un dolore che con una semplice sfuriata può passare!”
“Hikaru, ti avverto! Adesso basta!”
“Il mio è un odio! Un odio che non può cessare così semplicemente come pensate
tutti!
E se vuoi proprio saperlo tu non meriti neanche di averla una famiglia!”
“Non te lo ripeterò un’altra volta, Hikaru…” mi ammonì mia madre con tono
severo.
Non le diedi retta. Non lo feci. Non la degnai neanche di uno sguardo, ma ero
sicura che mi stesse fulminando con lo sguardo, mentre io continuavo a
riprendere quell’uomo: “Dato che Kami-sama è stato troppo generoso con te, da
permetterti di avere una famiglia che ti ama più di quanto tu non sia in grado
di amare lei, sarò io a renderle giustizia!
Lascia che ti dica una sola cosa: sarai anche un uomo valorosissimo, ma come padre
e marito vali meno di un animale. Neanche una bestia si comporterebbe con la
sua compagna o con i suoi cuccioli come tu hai fatto con noi! E perciò non sei
degno di niente!
Non sei degno di essere il marito della mamma e tanto meno sei degno di essere
mio padr…”.
…
Un rumore assordante invase la stanza.
No, in realtà non era proprio così… Non era assordante, ma era difficile
pensare ad un aggettivo appropriato in quel momento.
Anche perché, per me, lo fu. Un rumore talmente assordante da temere che i
timpani mi si rompessero. Come se qualcuno mi avesse gridato nelle orecchie per
delle ore con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Ero anche un po’ stordita, confusa. Non capivo.
E il silenzio tombale da parte di tutti coloro che vi erano nella stanza, non
mi fu d’aiuto.
Quella mano gentile, che sempre era stata pronta ad aiutarmi, a consolarmi e a
difendermi, mi aveva tradita.
E mi sentivo ferita. Forse come non mai in vita mia.
Sentivo che le lacrime mi salivano agli occhi, mentre la guancia destra
incominciava a tingersi di un rosato leggermente più scuro.
Faceva male.
Quel dolore non potrei mai scordarlo. Mai.
Con la vista offuscata dalle lacrime, tremavo, portandomi una mano sulla
guancia dolorante. Fissavo dritta, davanti a me, mia madre che ancora mi gelava
con il suo sguardo freddo e severo.
“Adesso basta, Hikaru. Hai oltrepassato il limite”.
Erano occhi rigidi, pieni di malinconia, tristezza, delusione e… rabbia. Sì, c’era
anche quella. Quel sentimento che non pensavo neanche lontanamente potesse
albergare in mia madre, lo lessi nei suoi occhi. Quegli occhi che mi
guardavano.
“Non posso credere di averti messa al mondo e aver fatto tutti quei sacrifici
per te e per la tua buona educazione, affinché mi arrecassi un così grande
dolore”.
Splancai gli occhi.
Quelle parole e quello schiaffo mi avevano trafitta come un milione di spade. Avevano
attraversato ogni centimetro della mia pelle e raggiunto il mio cuore in meno
di un attimo.
“Hikaru… Pensi di poter rivolgere quelle parole a tuo padre? Che diritto ne
hai? Chi ti ha dato il permesso? Sei soltanto una ragazza, infondo. Cosa puoi
capirne degli altri e di quello che fanno? Ti limiti ad osservare tutto dall’esterno,
senza preoccuparti di capire come stanno i fatti. E, nonostante ciò, hai anche
l’ardire di accusare gli altri”
Molto probabilmente, se fossi stata in grado di pensare a qualunque cosa, di
ragionare lucidamente, avrei saputo come risponderle e cosa rispondere. Ma non
lo feci. Perché ero a dir poco sconvolta.
“Ti permetti di emanare sentenze, di aggredire tuo padre in quella maniera…
Io… Hai ragione. Ti ho insegnato ad essere gentile con le persone e a cercare
in loro i lati positivi, perché, anche se pochi, stai certa che ne hanno sempre.
Ma come fai ad amare la gente che non conosci, se per primo non ami tuo padre,
che ti ha dato, se non altro, la vita? Senza che lui faccia altro, dovresti
essergli grata anche solo per questo!
Non è degno di essere tuo padre, mio marito, di avere una famiglia? Non sei tu
che puoi stabilirlo”.
Perché, mamma?
“Pensi che non sia un buon uomo soltanto perché non sta a casa, con noi? Beh,
sappi che allora anche mio padre dovrebbe essere “cattivo”, perché io non l’ho
neanche mai visto fino all’età di undici anni. Ma non per questo l’ho odiato e
gli o rivolto tutte quelle parole dolorose!”
Io stavo facendo tutto questo… anche per
te…
“Dovresti, anzi, ringraziare tuo padre. Nonostante non ne avessi alcun
diritto, ti ha lasciato sfogare senza permettersi di dire una parola, quando,
come capofamiglia, avrebbe potuto benissimo alzarti le mani e punirti per la
tua insolenza”.
Il tuo amore per lui è così grande da
portarti addirittura a metterti contro di me, ad aggredirmi?
“Quest’oggi ero davvero felice. Sei stata proprio tu a dirlo, Hikaru”
riprese, con sguardo addolorato, ma senza abbandonare l’aria severa che aveva
in volto. “Ero felice, certamente, di poter rivedere Rintaro. Così felice che
pensavo che il cuore mi potesse saltare fuori dal petto da un momento all’altro.
Ma ero ancora più felice del fatto che la nostra famiglia poteva finalmente
ricongiungersi.
Era tanto che lo aspettavo.
Ma tu hai rovinato tutto. Sei stata così egoista, da voler per forza esprimere
i tuoi pensieri, i tuoi giudizi, senza degnarti di capire che avresti rovinato
tutto quanto, così facendo. Cercavo di fermarti, ma eri troppo impegnata a dare
sfogo alla tua insensata rabbia per potermi dare ascolto, vero? Ti senti bene,
adesso che hai parlato, che hai detto la tua?”
Mamma, non me lo sarei mai aspettata da
te…
“Se sei così preoccupata per me e per la mia sofferenza da volermi
proteggere da tuo padre, perché non mi hai difesa in primo luogo da te? Perché,
quest’oggi, Hikaru, chi mi sta facendo soffrire e chi mi farà piangere… sei
proprio tu”.
Mai…
Silenzio.
Non mi azzardai a dire una parola. Non mi lasciai sfuggire neanche un respiro.
Niente di niente.
Ero troppo occupata a cercare di veicolare il dolore. Un dolore che rarissime
volte avrei provato in seguito.
Forse quello schiaffo e quelle parole che mia madre mi rivolse in quell’occasione
furono due delle cose che più mi addolorarono in tutto il corso della mia vita.
Perché per me vedere la mamma sorridere era stata sempre la cosa fondamentale. E
sentirmi dire da lei che ero proprio io la fonte del suo dolore e che ero io
che la facevo piangere, era peggio di una pugnalata al cuore.
Ma, insieme alla tristezza e alla malinconia, in me stava crescendo anche
qualcos’altro. Un sentimento che non avrei mai lontanamente immaginato potessi
mai provare verso mia madre.
Rabbia.
“Quindi è così…” sussurrai, con un filo di voce, ma abbastanza forte da farmi
sentire. “Sono io quella che ti fa star male… che ti fa piangere…”.
Sì, perché stetti malissimo per quelle parole che mi rivolse. Stetti così male
che pensai di poter addirittura morire per il dolore.
Ma la cosa che più non potevo sopportare era che…
“Quell’uomo è talmente importante che, non importa cosa dica o cosa faccia, riesce
a far passare tua figlia, che ti è sempre stata accanto, in secondo piano,
vero?”. Le lacrime mi rigarono il volto. Ora come non mai. E, con rammarico, le
rivolsi un sorriso di velata malinconia. “Me lo sarei aspettata da tutti,
oka-san. Ma mai da te. Pensavo che tu mi avresti appoggiata, che saresti stata
dalla mia parte. Speravo che almeno tu potessi accettare i miei sentimenti,
anche non capendoli, magari. Invece ora difendi lui, quasi come se tutto ciò
che ho detto sinora fossero tutte menzogne, o tutte cose non realmente
importanti” . Singhiozzai ancora un po’, mentre proseguii, sotto lo sguardo
smarrito ed intristito di mia madre: “Mi hai voltato le spalle… Tu, che per
quanto mi riguarda, sei tutta la mia famiglia… Mi hai tradita…”.
“Hikaru…” cercò di riparare mia madre,
forse rendendosi conto di aver toccato un tasto dolente con le sue parole dure
e severe. Lentamente cercò di avvicinarsi, allungando la sua nivea mano per
tentare di afferrarmi la mano.
“Non toccarmi!” gridai, indietreggiando per non farmi toccare da quella mano
che prima aveva schiaffeggiato senza ritegno la mia guancia.
“Hikaru-chan!” mi riprese mia zia, tentando anch’essa di porre rimedio alla
situazione.
Mio padre, d’altra parte, se ne rimase in silenzio con sguardo leggermente più
perplesso di prima, ma comunque posato. Non disse una parola. Neanche una.
“Mi hai tradita per quest’uomo…” continuai, rivolgendomi nuovamente alla mamma.
“E non potrò mai perdonarti per questo!”.
Detto ciò, mi alzai in piedi e frettolosamente uscii dalla stanza, chiudendomi
lo shoji alle spalle con violenza.
“Hikaru!” mi sentii chiamare alle spalle. La voce che mi chiamava era più di
una. Mi domandai, anche solo per un attimo, se anche la voce di lui, aveva
pronunciato il mio nome, se non altro in quella situazione di panico.
Ma l’idea mi balenò in testa giusto per poco.
Non capendo più niente, ripercorsi in fretta e furia il sentiero che avevamo
fatto all’andata, imbattendomi anche in Konno-san che vedendomi in quello
stato, anche da lontano, mi domandò se c’era qualcosa che non andava.
Ma io, senza curarmene più di tanto, la sorpassai e raggiunto il portone principale,
implorai le guardie di lasciarmi passare, perché non mi sentivo bene.
I due uomini, forse perché stavano vedendo una ragazza in lacrime davanti a
loro, forse perché non sapevano che altro fare, mi lasciarono passare senza
chiedermi ulteriori spiegazioni.
Ed ero così sulle strade di Kyoto. Una Kyoto che non conoscevo, di cui ignoravo
tutto.
Incominciai a percorrere una strada, di corsa. Non sapevo dove mi avrebbe
portato quella strada. Non sapevo neanche se mi avrebbe portato da qualche
parte. Ma non m’importava. Andava bene qualsiasi luogo, qualsiasi deserto. Mi
andava bene tutto. L’importante era non stare più con loro, con lui, con quell’uomo…
L’importante era cercare di allontanarmi quanto più possibile dalle persone che
mi avevano ferita, tradita ed umiliata.
Salve a tutte!
Chi non muore si rivede! ^^ Beh, meglio fare le corna va. Dato che stavolta ci son andata proprio vicino XD Ma non scendo nei particolari. ^^
Sono tornata con nuovo capitolo! Anch’esso un pochino lunghetto.
Chi ha detto che quello di prima era troppo pesante mi dovrà scusare, ma onestamente non penso proprio che riuscireste ad aspettare più di tanto per la comparsa di Soji.
Questo capitolo non vede ancora il nostro “belloccio” alle prese con la nostra Hikaru-chan, ma nel prossimo avrete una bella sorpresina! Eheheh! >.<
Questo è ancora un capitolo introduttivo, ma sarà fondamentale, anzi, a dir poco essenziale per lo sviluppo della trama e per far sì che la vicenda prende la piega che deve prendere XD
Che discorsi contorti, eh?
In breve mi scuso se risulterà anch’esso un capitolo “pesante”, ma non me la sono sentita di farvi aspettare 2 capitoli per la comparsa di Soji! Altrimenti poi uno si rompe un po’ le scatole di aspettare, no? Persino io XD
Spero che la lettura sia di vostro gradimento! Saluto tutte con tanto affetto e ringrazio coloro che mi hanno scritto e a cui per una serie di circostanze e di eventi, non ho potuto rispondere! Grazie a tutte! ^^
Un bacio.
Alice.