2. La telefonata
La telefonata
che le
cambiò la vita arrivò alle due e quarantasette di
una notte di fine aprile. Saltò
giù dal letto ed, afferrato il cellulare, rispose con voce
assonnata. Quelli
che sentì dall’altro capo del telefono furono solo
singhiozzi. Poi la voce
della signora Erminia che la informava dell’incidente. Di
quella notte non ebbe
altri ricordi, o meglio, finse di aver dimenticato. La folle corsa con
l’auto
del padre fino all’ospedale, il viso di Lalla nel corridoio
adiacente alla sala
operatoria, la sensazione di vuoto nel vedere il corpo di lui privo di
qualsiasi umanità…
Era stata forte.
Aveva
rinchiuso ogni emozione nel cassetto della scrivania e, con viso duro,
aveva
finto che tutto andasse bene. Aveva indossato le sue lacrime migliori
ed aveva
accettato, senza parlare, ciò che era accaduto. Sentiva
impresso nella memoria
ogni dettaglio, nemmeno fosse stato marchiato a fuoco. Il display della
sveglia
che indicava un orario improbabile della notte ancora riluceva vivido
nei suoi
sogni. Ed il viso sfigurato del suo migliore amico, sbattuto sopra un
lettino
bianco che odorava di disinfettante, ogni tanto faceva capolino tra le
pagine
di una vecchia enciclopedia medica.
Per
quanto fingesse di non ricordare, lei
aveva capito fin da subito che quelli squilli del telefono non
avrebbero fatto
altro che rimbombarle dentro per l’eternità. Lalla
l’aveva chiamata solo due
volte in tutta la sua vita in piena notte. La prima, quando avevano
solo dodici
anni, le aveva raccontato tra i singhiozzi di come suo padre se ne
fosse andato
via di casa, lasciandola sola con la madre. Lalla aveva pianto per mesi
e mesi
e, solo quando arrivò il Natale ed, insieme alle feste, una
cartolina del padre
dalla Scozia, smise di ingrigire le giornate di lei. La seconda volta
che aveva
rinunciato a dormire era stato quando Lalla, con voce tremante, le
aveva
raccontato di come avesse appena fatto l’amore per la prima
volta con lo
storico fidanzato. Lei prima era scoppiata a ridere, poi aveva rivolto
alla sua
migliore amica una miriade di domande. La terza volta, avrebbe
preferito che
non fosse mai esistita.
Le
chiavi dell’auto del padre le erano scivolate tra le mani
più volte mentre
scappava via con sua madre che le gridava dietro di aspettarla. Aveva
sbattuto
il portone d’ingresso della palazzina dove abitava con foga
e, per quanto fosse
notte, in pochi secondi era riuscita ad aprire il grande cancello
verde. Si era
infilata nella piccola 4x4, buttando via dal sedile del guidatore un
fascio di
fogli perfettamente ordinati con i nuovi progetti di alcuni villini da
costruire fuori città realizzati da suo padre. Caddero
frusciando.
Aveva messo in moto ed
acceso la radio,
preferendo coprire il rumore dei pensieri con quello di una canzone
famosa che
presto sarebbe stata dimenticata. Aveva fatto retromarcia, ed una volta
uscita
dal cortile che fungeva da parcheggio per i pochi abitanti del suo
palazzo,
aveva trovato sua madre ad aspettarla proprio su un lato della strada.
Era
partita in fretta, lasciando scivolare i numeri sul tachimetro. Guidare
in
ciabatte non era stato il
massimo: il
piede continuava a scappare via dell’acceleratore, un paio di
volte non ingranò
la marcia proprio perché la frizione non era stata premuta a
dovere.
Sua
madre non parlava. Scrutava fuori dal finestrino le strisce di luce
provocate
dalla velocità, guardava i paesi susseguirsi oltre i
guard-rail della
superstrada. Un paio di volte tentò di aprire bocca, ma
rimase lo stesso in
silenzio. Di lei poteva vedere solo i lineamenti appena accennati
nell’oscurità
dell’abitacolo ed il riflesso stranamente scuro sui capelli
di un bel rame
acceso.
In
men che non si dica, si ritrovò ad arrancare lungo i
corridoi dell’ospedale,
incurante di poter provocare disturbo ai pazienti. Chiese ad
un’infermiera di
passaggio qualche notizia. Imprecò davanti la sua risposta
piatta ed inutile.
Alla fine, senza sapere nemmeno come, si ritrovò in un
corridoio giallo. C’era
Lalla seduta su una vecchia panca arancione. E nel momento esatto in
cui
incontrò i suoi occhi, capì che la sua corsa
disperata dentro la notte non
aveva avuto esito positivo.
Lalla
disse solo due parole. “E’ morto”. Tutto
quello che lei ricordava del dopo era
una sensazione indistinta, tra abbracci e lacrime e
quell’aspirina che un’infermiera
le aveva portato. La barella coperta da un telo bianco le
sfilò davanti in
silenzio e lei non riuscì a sostenere lo sguardo fugace
della morte. Lui era
lì, a pochi metri da lei. Chiuse gli occhi e la
lasciò sfilare, senza
accorgersi che di quel dolore faceva parte anche lei.
Lalla
le posò una mano sulla spalla. Piangeva anche lei. Ed
all’improvviso, vennero
fuori tutte le fotografie della loro storia.
Quella
volta che avevano dormito insieme in tenda, quell’estate al
bar, seduti ai
soliti tavoli arancioni, quella mattina che avevano perso il treno e si
erano
ritrovati stipati nell’abitacolo di un camion… E
la volta in cui, senza sapere
come, lui l’aveva baciata contro il muro di un corridoio
d’albergo. Ed il
mattino seguente, lei aveva capito che quella era stata la notte
migliore della
sua vita. L’aveva capito dal modo in cui lui gli aveva
offerto il suo maglione
beige perché aveva freddo, dal modo in cui era corsa
affannosamente per tutto
il corridoio per non farsi beccare, dal modo in cui aveva sentito
aprirsi un
sorriso sul suo viso non appena Lalla aveva aperto la porta della loro
camera
703.
E
quei momenti non sarebbero tornati più.
Erano
scivolati lungo il corridoio di quell’ospedale sotto il velo
bianco.
***
Mi ritrovo ad
aggiornare prima del previsto. In realtà questa storia si
sta creando
praticamente da sola ed io rispondo solo al bisogno di battere i
polpastrelli
sulla tastiera. Ovviamente un grazie a chi ha commentato il capitolo
precedente
ed a quanti hanno inserito la storia tra le
preferite/seguite/ricordate.
Spero vi piaccia
anche
questo.
Jules