Capitolo 2
Quello che
non vorresti mai sentirti dire
Dopo
un'attenta
analisi,
confronti
e riflessioni
ho capito
che
io...
no,
non
ho
capito
niente
di
te.
La
musica pulsa sin troppo forte, nella stanza.
Con
un ultimo colpo di batteria, Cappie conclude la
canzone, lasciando che i piatti vibrino ancora un po’ e spargano l’ultima nota
nell’aria. Il resto, poi, dopo un ultima scivolata di Dennis sulla chitarra, è
solo silenzio.
Come
uno Ian Curtis maledetto, Louis ha ancora gli occhi
chiusi, e resta aggrappato all asta del microfono con
entrambe le mani – lunghe dita pallide che stringono la plastica come se fosse
vita. Ha le labbra attaccate alla parte retinata dell’amplificatore, e sembra
quasi tremare. Evanescente e sottile, la sua immagine sa di quel dolore interno
che ti lacera dentro – che ti smuove l’essenza lasciandola vibrare.
Seattle,
alle sette della sera, è una trasfusione di radiazioni chimiche; fuori dalle
finestre degli studi del registrazione il paesaggio cola come la tela di un
pittore impressionista, disperdendosi sulla infinite gradazioni del rosso.
Dentro la stanza, il bianco asettico è sintomatico di anime vuote che cercano
una pace inesistente.
-
Cazzo, io non so voi ma non riesco a sentire la chitarra – borbotta Dennis,
sfilandosi la Fender rosso fuoco e appoggiandola al grosso amplificatore.
-
Mh, anch’io ho avuto l’impressione che il volume
della batteria fosse un po’ troppo forte.
Louis
riapre gli occhi, stanco. Non ci ha nemmeno fatto caso; non ha sentito quello che cantava. O perlomeno,
non lo ha sentito a 360° gradi, con tutti i sensi e le capacità recettive
deviate di chi ha insito in sé il sacro fuoco dell’arte.
-
Non mi piace il testo. – borbotta, infine, lasciandosi cadere su una sedia.
Dennis
lo guarda, alzando un sopracciglio.
-
Perché? E’ ottimo.
-
Non è d’impatto… non è sufficientemente catartico.
Cappie da un colpetto
al piatto con la bacchetta, evitando di guardare sia Louis che Dennis. E’ un
gesto che fa quando è irritato, quando quelli della produzione richiedono un
nuovo album e i tempi non coincidono.
D’altronde,
Cappie è ancora poco più che un ragazzino.
Ha
ventidue anni, un taglio di capelli vagamente Emo per
cui Louis e Dennis lo hanno preso in giro tante volte; tanto più che la sua
testa è di un rosso ramato naturale, e lo fa sembrare particolarmente
eccentrico. Ha le orecchie piene di anelli e indossa quasi sempre abiti neri,
doc martens e svariate cazzate dal gusto dark.
Dennis,
invece, è più moderato; se non fosse il chitarrista di una band famosissima, lo
si potrebbe scambiare per uno qualunque. Ha i capelli a spazzola, neri; e un
paio di begli occhi verdi che, per qualche assurdo motivo, sembrano ridere
sempre.
E’
difficile rimanere tristi, o incazzati, o delusi se di mezzo ci sono gli occhi
di Dennis. Persino Louis, quando lo guarda, si sente pervadere da una strana
emozione; che se in tutta la sua vita non avesse fatto alto che prendere
insetticidi per precauzione, probabilmente sarebbe in grado di sentire le
farfalle nello stomaco.
Appoggia
l’indice e il pollice all’attaccatura del naso sulla fronte, massaggiandosi la
testa; comincia a sentire quel lieve fastidio quando la violenza creativa si
stratifica in eccesso sotto la sua pelle, premenedo
per esplodere. Le sue sinapsi diventano centrali nucleari, luoghi comuni dove
ogni clichet esplode alla ricerca di una nuova
strada. Le parole si inseguono e si combinano tra di loro, cercando di trovarvi
un senso compiuto.
-
Non capisco qual è il verso che non va – borbotta Cappie,
continuando a giocherellare con la batteria.
-
Ma mi affoga il cuore nello stomaco ogni
volta che qualche placca intercontinentale con un terremoto ti allontana da me.
-
Effettivamente, non fa impazzire nemmeno me – fa notare Dennis, buttandosi su
una sedia e facendo scrocchiare il collo.
-
La soluzione è: pausetta!
La
voce, stavolta, non è di nessuno del gruppo. Viene dalla porta, dalla presenza
di Julie appena arrivata nella stanza.
Non
appena entra Julie, Louis sente un istantaneo sollievo.
Si
tratta della compagna di Dennis; una giovane gallerista, con una bella treccia
color del grano e occhi chiari, che sembra uscita dal testo di una poesia. Ha
arrotolata attorno al collo una sciarpa multicolore, e tra le mani tiene un
sacchetto della pasticceria.
-
Sia lodata Julie! – esclama Cappie, saltando in aria.
Dennis ride, facendo cenno alla compagnia di mettersi seduta sulle sue
ginocchia. Lei, dopo averlo baciato sulla fronte e aver rivolto un sorriso a
tutti, si mette seduta.
-
Quale buone notizie porti, Ju? – chiede Louis,
appropriandosi di una pasta al cioccolato.
-
Mmmh! – borbotta lei, con la bocca piena. – Stamani sul
giornale c’era scritto che siete stati invitati ai Music
Awards.
A Louis si gela il sangue.
I Music Awards. Se ne era totalmente scordato. Montagne e montagne
di ragazzine sotto il metro e sessanta che si strappano capelli come fili dell’elettricità,
mentre un gruppo di critici in ceralacca e papillon è pronto a dar loro un
giudizio più spietato possibile. E se tutto va bene, si torna a casa con
qualche centone.
- Ah si, mi ero scordato a dirtelo –
borbotta Dennis, affondando il naso nel suo collo. Probabilmente, la sua era
una dimenticanza calcolata.
- Fa niente, non credo che verrò. Me ne
starò a casa a guardare l’ultima puntata di Grey’s Anatomy.
- Ma perché non ci rimaniamo tutti? –
propone Cappie, cominciando a battere la bacchetta
sul tavolo. Notoriamente, quando Cappie non suona la
batteria, suona tutto quello che ha intorno fino a quando non diventa pericolosamente
snervante; il che, di solito, coincide con un Dennis irritato che gli intima di
smettere o un Louis particolarmente fuori di testa che lo minaccia.
- Non abbiamo bisogno di un’altra serata
tutti insieme passata a contemplare i capelli del Dr. Sheperd,
è autolesionista – fa notare Julie.
E Louis ride.
Ci sono momenti in cui la mancanza di Ian si acuisce così tanto da fargli mancare il respiro; e
di solito, quei momenti coincidono con una violenta e irritante fase creativa
in cui il giovane arriva quasi a scrivere sui muri, pur di svuotare se stesso.
Ma di tanto in tanto, capita che quel
vuoto si riempia di una leggerezza inaspettata e effervescente, data dalla
presenza confortante dei soliti volti noti.
- Mi sa che per oggi finiamo qui. Tanto
sono le sette e mezza… Un po’ tardi per fare merenda,
effettivamente. – fa notare Louis, rendendosi conto solo dopo di quanto ha
mangiato.
- Mh, andata.
A chi serve un passaggio? Cap?
- No, sono in moto. Louis, tu vieni con
me?
- Se Julie ha la macchina vado con lei.
- Malfidato!
Ridono, buttando il resto della serata sullo
scherzo; poi, uscendo dall’ufficio, ognuno prende la sua strada. Cappie col casco in mano saluta gli altri, sparendo rapido
per le vie dove la tecnologia s’arrampica come un’edera maligna; Louis, invece,
sale dentro la Fiat seicento di Julie, mentre la ragazza si mette gli occhiali
per guidare.
- Vuoi che guidi io? – le chiede Dennis,
preoccupato. Ma lei scuote la testa e salta al posto del guidatore, mettendo in
moto. Quando gira la chiave nel quadrante, parte un vecchio CD
dei Rammstein, che cantano Amerika con voce particolarmente
cattiva.
Louis non capisce bene cosa i due
davanti si stiano dicendo; probabilmente stanno scherzando, parlando del più e
del meno.
Ma lui è catturato dalle luci di fuori,
dal modo uomocentrico in cui la città si snoda, con
tanto di tram grandi come enorme serpenti di ferro che sembrano mangiare l’asfalto
e inghiottire tutte le vernici colorate dei muri.
Il panorama ha il sapore del petrolio, e
quasi nessuno guarda dove va; la gente cammina portando i cellulari al
guinzaglio o urlando in auricolari a lavoratori invisibili. L’isteria è un
concetto ritrovabile persino nel 21esimo secolo, nel mondo soffocante e
distorto.
Una traversa, un’altra traversa. Un
giovane col cappello da contadino tiene una sigaretta tra le dita e, quando la
macchina di Julie si ferma al semaforo, guarda dietro al finestrino.
Rimane lì a fissare Louis coi suoi occhi
di cenere e un sorriso spento, appoggiato al palo. Con un gilet pieno di
lustrini su una camicia bianca e calzoni di pelle troppo aderenti; ed è bello
nel modo poetico e volgare di tutte le puttane, mentre aspetta che qualcuno gli
offra quattro soldi per dimenticarsi della propria dignità.
Ma ben presto diventa un ricordo anche
lui, sparisce in una macchia di colori. Il fotogramma successivo è casa di
Louis.
- Io allora scendo qui. Grazie per il
passaggio.
- Vieni a cena, una sera di queste? –
domanda Julie da dietro gli occhiali da mosca.
- Come no. Basta che non fai cucinare
Dennis, non voglio morire avvelenato.
Un’ultima risate, poi la portiera
sbatte. Ben presto, anche il portone di vetro scatta e si chiude, lasciando
dietro di sé una vita relativa.
Nel tempo che seguirà, Louis salirà in
casa, si farà una doccia, rollerà una canna, prenderà il telefono e chiamerà di
nuovo Emily.
Ma la progressione del presente, noi la
seguiremo andando dietro alla macchina di Julie.
*
L’abitacolo
della macchina è un panorama ben conosciuto.
E’
una macchina piccola e sporca con una radio piena di tasti gialli; attaccato
allo specchietto retrovisore c’è un cornetto portafortuna ed un piccolo
portachiavi a forma di infradito arancione.
Cose
così. Che fanno di una macchina qualsiasi la macchina di Julie, e non solo.
E’
stata anche l’auto dove, in un giorno in cui faceva troppo freddo per uscire
fuori, ha mangiato una pizza con Dennis. E poi ci ha fatto per la prima volta l’amore,
facendosi anche un po’ male.
Colpa
del freno a mano, dei sedili rotti, di tutto che sembrava dover cadere da un
momento all’altro. Il mondo stesso.
Dennis
è sempre stato tutto.
Julie
ci pensa proprio ora, mentre guida – mentre guarda la striscia bianca scorrere
sotto ai suoi occhi e lui è seduto lì vicino senza dire una parola, con la
fronte appoggiata al finestrino e lo stesso sguardo di un canarino in gabbia.
E’
sempre stato tutto. Lo è stato dall’inizio, dalla festa in cui si sono
conosciuti; lei indossava un abito troppo corto ed era indecentemente brilla; e
lui invece aveva una maglietta dei Doors e sembrava
così provvisorio, in mezzo a tutti gli altri.
Era
bello come qualcosa che deve sparire da un momento all’altro. Bello come i
luoghi comuni dell’assenza.
E
aveva scelto lei. Per qualche motivo astruso e incomprensibile, lei era
diventata la sua casa. Il suo santuario.
E’
stato quasi sei anni fa. Louis era già in preda alla sua depressione artistica
e la band ai primi tempi; lei era diventata la compagna di Dennis e parte del
tutto.
Adesso,
a distanza di anni, di quella ragazza ubriaca e del ragazzo distaccato che le
dedicava canzoni con la chitarra è rimasto solo il ricordo di un amore
imprigionato tra i sedili di un auto che profuma ancora di pelle e arbre magique.
Non
sono più gli stessi, Julie lo sa. Eppure in qualche modo il loro amore si è preservato,
si è mantenuto.
Anche
se Dennis sembra sempre più lontano, sempre più chiuso in se stesso; lei
sarebbe disposta persino ad amarlo solo da fuori. Basta che lui glielo conceda.
Quando
arrivano a casa, Julie tira un respiro di sollievo. Non le piace guidare dentro
Seattle, ma si sforza di farlo per avere un minimo di autonomia. Dennis si
offre quasi sempre di guidare al posto suo, ma non glielo lascia fare.
-
Che c’è per cena? – domanda lui, sbadigliando e prendendo la strada del
vialetto d’ingresso.
Vivono
in una di quelle villette a schiera, di quelle con la porta dipinta e il numero
di ottone. Hanno persino un cane, una piccola bestiola piena di peli che si
chiama Pablo.
-
Non ne ho idea, ma penso che tireremo fuori una scatoletta di tonno. – propone Julie,
serafica, entrando in casa e sfilandosi la sciarpa mentre Pablo corre loro
incontro per fare le feste.
Al
solito Dennis si ferma a giocare con il cane, mentre Julie accende la luce della
cucina.
-
Ma basta tonno, cazzo. Lo stiamo mangiando da una settimana.
-
Lo so, ma ti faccio notare che è una settimana per l’appunto che torniamo
tardi. Non è che ho tutto questo tempo di mettermi a cucinare le prelibatezze
francesi, io.
-
Mmh, non ti offendere. Una sera di queste ti faccio
una cenetta io.
Julie
ride, mentre Dennis l’abbraccia da dietro e le bacia il collo. Mentre prova ad
aprire la scatoletta del tonno, lui la distrae.
-
Daiii, che sennò non mangiamo mai.
-
Ma io mi mangio te! – borbotta lui, dandole un morso sulla spalla. Julie ride,
e fa finta di minacciarlo con la scatoletta del tonno.
-
Non mi avrai, uomo!
-
Questo lo dici tu, piccola sardina al limone!
Ed
è così che cominciano a ridere, e scherzare. Proprio come due adolescenti, si
punzecchiano, si inseguono, giocano in giro per la casa; e va a finire che
Julie rotola dal divano al tappeto, mentre Dennis, lanciatosi al suo
inseguimento, fa la stessa cosa. Con i piedi appoggiati allo schienale del
divano, entrambi guardano il soffitto.
-
Ma tu sei felice, Dennis? – domanda Julie, dopo un attimo di silenzio.
E’
una domanda che sente di dover fare. Che la sta dilaniando lentamente.
Capitano
raramente, ormai, quei momenti in cui lei e Dennis giocano come due idioti e si
crea tra loro l’atmosfera complice che gli consente di parlare. Tanto vale
sfruttarla, anche se c’è il rischio di rovinare tutto.
-
Perché mi fai questa domanda? – chiede lui, dopo un attimo di silenzio.
-
Ogni tanto mi sembra che tu ti senta in gabbia. – risponde lei, con la massima
sincerità possibile.
Il
silenzio che ne consegue è sconcertante. Perché magari dura pure poco, ma è uno
di quei momenti che rischia di dilatarsi e di ripercuotersi all’infinito con
estrema voracità; ed è uno di quei
silenzi che un po’ ti uccide, da quanto fa male. Ti svuota.
-
Ora, in questo momento, sì. Ma non è
sempre così.
E
a Julie viene in mente Kokosckha e la Sposa nel Vento; il quadro in cui i due
protagonisti sono abbracciati dopo aver fatto l’amore, e lei dorme mentre lui,
sveglio, fissa il vuoto sapendo già che tutto finirà.
-
Che vuol dire, che non è sempre così?
A
quel punto, Dennis si mette a sedere, abbracciandosi le ginocchia. La
situazione dev’essere più grave di quel che sembra.
-
Guardaci, Juls.
– l’ha chiamata Juls. Col nomignolo standard che le
ha appioppato lui. E Julie, con tutta la stupidità di una donna innamorata, in
fondo spera ancora che qualcosa possa cambiare in positivo.
-
Guardaci – riprende lui – Viviamo sotto lo stesso tetto, ci vediamo durante il giorno… ma tutto quello che facciamo è comportarci come
amici. Ridiamo, scherziamo. Mai un ti amo. Mai un po’ di sesso.
E
a quel punto, a lei si gela il sangue.
Quand’è
l’ultima volta che hanno fatto l’amore? Che si sono detti ti amo a vicenda?
Il
primo, folle, irrazionale istinto è quello di spogliarsi; di offrirsi come
vittima sacrificale e dire: “Eccomi, sono qui. Scopami.” Ed aspettare che lui
si fotta pure la sua anima per conservare i propri istinti.
Con
le dita nervose, slaccia i bottoni della camicia. Dennis la guarda stravolto, e
appoggia le mani sulle sue per fermarla.
-
Juls, no. – dice, con voce tenera.
-
Possiamo fare sesso, no? Qui, ora, sul tappeto. – propone lei, cercando di
sfilarsi la gonna – Come la prima volta che siamo venuti qui. Te lo ricordi,
no? L’abbiamo fatto sul pavimento perché non c’erano materassi. E ci siamo
addormentati davanti al camino.
-
Julie, non cambierà quello che sta succedendo. Se adesso facciamo sesso, non
torneremo quelli che eravamo.
-
Ma…
-
Non è quello, capisci? Ma ci vedi? Stiamo insieme tutti i giorni e non
riusciamo a pensare nemmeno a uno straccio di futuro. Arriviamo alla sera e l’unica
cosa che sappiamo fare è discutere sulla cena, su Grey’s
Anatomy, su chi deve portare fuori il cane. Cazzo,
non facciamo un progetto da anni ormai! Nemmeno le vacanze. Nemmeno un viaggio
all’estero d’estate.
E
stavolta, Julie capisce che spogliarsi non le servirà a niente sul serio.
Perché Dennis ha appena messo a nudo la sua anima in un modo diverso da quello
che si sarebbe aspettata; e ora è spaventata sul serio, dall’enormità di quello
che sta succedendo.
-
Possiamo cominciare. Posso cambiare. – propone, con voce tremolante.
-
A che servirebbe? La ragazza di cui mi ero innamorato non esiste già più. –
dice lui, con un sorriso triste.
Julie
si sente morire dentro. Di botto, all’improvviso, senza che nessuno l’abbia
avvisata. Vorrebbe riavvolgere la pellicola e tornare indietro, al pomeriggio,
alle sette e un quarto, alla macchina, a quando è entrata in casa, alla
scatoletta di tonno. E magari tagliarsi le dita così sarebbe stata costretta a
medicarsi e magari Dennis le avrebbe tamponato la ferita, anziché
infliggergliene una ancora più grande.
Strizza
gli occhi per non piangere, ma con scarsi risultati.
-
Julie… - prova a iniziare Dennis.
-
Non mi toccare. – dice lei, scansandosi. Poi si alza, cerca le scarpe e la
borsa.
-
Julie, aspetta, calmati. Non sei lucida. Non mi sembra il momenti giusto per
uscire di casa.
-
Vado da mia sorella, non ti preoccupare. – esclama lei, con le mani che
tremano. Afferra le chiavi della macchina; della paura di guidare, ora, si è
persino scordata.
Dennis
la insegue in ogni stanza della casa, mentre lei prende oggetti qua e la più o
meno irrilevanti; e alla fine se ne esce sul vialetto con una valigia piena di
lacrime.
Lui
la chiama ancora, dalla porta della casa; ma lei è già dentro la macchina.
Andrà
da sua sorella, ha detto.
Mette
in moto la macchina, e Dennis le è dietro. Cerca di urlarle qualcosa, ma c’è il
vetro ad attutire le sue parole; e c’è un cuore malato che non vuole nemmeno
sentire quello che lui ha da dire.
Così
lo vede allontanarsi pian piano dallo specchietto retrovisore; e mentre va, sa
che è quella la distanza che vorrebbe prendere dalla sua vita.
Mentre
guida, non riconosce nemmeno più le strade.
E’
buio, e Seattle sembra terribilmente marcia, sporca e piena di schifo umano.
*
Piove
di nuovo.
Alla
sera, a Seattle piove quasi sempre.
Seduta
sul divano di casa di Ian, Demi tiene tra le mani la
cornice appoggiata sul comodino all’ingresso.
Nella
foto, lei, Ian e Adam
sorridono vivacemente; erano i tempi del liceo, avevano poco più di diciott’anni. Adam aveva addosso
l’uniforme della squadra di football, mentre Ian
sembrava poco più che uno studentello Emo; in mezzo a loro due, lei sorrideva allegra, con le
trecce castane ai lati del viso e gli shorts che gridavano estate ovunque.
Sospira,
soffermandosi su Adam. Nella foto è venuto
particolarmente bene; i suoi occhi blu sembrano quasi bucare il tempo e lo
spazio ed arrivare fino a oggi, direttamente dal passato. Peccato che non sia
così semplice.
-
Ti manca così tanto?
La
voce di Ian la coglie all’improvviso, facendola
sobbalzare. E’ stata beccata ancora una volta con le mani nel sacco – dal suo
migliore amico, per giunta.
Arrossisce.
Sa che non c’è bisogno di parlare, per spiegare il suo tumulto interiore; me è
altrettanto sicura che Ian lo farà lo stesso, anche
solo per cercare di tranquillizzarla. Fa parte del suo buon cuore.
-
Mi manca tantissimo. Vorrei che fosse qui, ora.
Ian sospira, mettendosi seduto
vicino a lei.
-
Perché non provi a scrivergli un e-mail? – propone, passandosi una mano tra la
zazzera bionda.
Demi
alza un sopracciglio, perplessa – Non mi sembra che tu abbia scritto molto a
Louis, in questi anni.
-
Touché. Ma Louis è su tutte le copertine, quasi tutti
i giorni. Basta comprare Rolling Stones.
Adam è in Afghanistan, non è la stessa cosa.
Il posto che non
deve essere nominato fa
venire i brividi a Demi. Perché immaginarsi Adam – il
suo Adam –
in mezzo alle bombe con un fucile in mano non è esattamente confortante.
-
Forse hai ragione. Dovrei scrivergli. Anche perché non voglio che passino altri
due mesi, prima di riuscire a prendere la linea telefonica.
Così,
Demi si alza, lasciando Ian sul divano con la tazza
di thé in mano, e accende il pc.
Quando
si trova davanti alla pagina bianca, le prende un attimo di terrore. Le ha
sempre messo paura, il vuoto; lo spazio deserto da riempire con parole e
emozioni. Ha paura di non esserne capace.
Ma,
in qualche modo, comincia.
Caro Adam,
come stai? Va tutto
bene, in terra d’Islam? Noi stiamo bene. Ian è il
solito cazzone, continua a guardare Louis a distanza
proprio come faceva alle superiore. Mi sta facendo esasperare.
A Seattle piove.
Bella novità, eh?
Scommetto che ti
manca la pioggia. Laggiù è tipo deserto arabico, o no?
A me manchi tu.
Mi manchi come
potrebbe mancarmi un paesaggio che ho visto per tutta la vita; mi manca vederti,
e abbracciarti, e l’odore delle tue magliette e le tue mani piene di calli e
parlare delle cose stupide prima di andare a dormire.
Dio sono un
disastro. Ian è più bravo di me a scrivere, lui si
che riesce a tenere una corrispondenza come Cristo comanda. Io no, perché poi
comincio a scrivere tante cazzate.
Tipo che vorrei
che tu non ti arruolassi più.
E tornassi a
casa, da me. Perché non ti ho mai detto che ti amo, e vorrei così tanto
potertelo dire.
Non te l’ho
detto nemmeno quando al liceo stavi con quella cheerleader idiota – Lucy, si
chiamava. Perché dicevi di essere innamorato e io volevo solo fossi felice.
Però adesso lo
so che se tornassi potrei renderti felice io, no?
Perché ti amo e
ti ho sempre amato.
Ma tanto, questa
e-mail non te la invierò mai. Almeno non tutta. L’ultima parte magari la tolgo,
ma volevo avere la soddisfazione di scriverla.
Niente, ti voglio
bene.
Rispondimi
quando e se puoi, soldato Joker.
I miss you, per citare i Blink.
Demi.
*
Eccomi di nuovo qui… aggiornamento lampo anche stavolta =)
Abbiamo conosciuto il
resto della band, finalmente. E anche Julie (non è tenerissima?). Ian e Demi li abbiamo visti poco, ma non volevo concludere
senza di loro.
Spero che il capitolo
vi sia piaciuto.
E niente, la citazione
iniziale è di “Mi Vida” dei Linea 77.
Alla prossima!
- sc