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Autore: starcrossed    17/06/2011    2 recensioni
In un giorno di pioggia, sbiadito come una fotografia, Louis da un passaggio in macchina a uno Ian fradicio e un po' troppo fragile - così fragile da amare solo per una notte e sparire il mattino dopo.
Otto anni dopo, Louis è il vocalist di successo di una band; ogni suo testo, ogni sua canzone ruota intorno alla figura di un amore misterioso e senza tempo. Così, mentre la sua vita si staglia tra successi professionali e proibizioni da star, quella di Ian, in parallelo, si muove assieme alle canzoni scritte per lui. Attorno a entrambi, ruotano una vastità di personaggi dalle esistenze ellittiche, confusionarie; ma ogni tassello, sotto il cielo plumbeo di Seattle, ha il suo posto. E i mondi di Louis e Ian sembrano destinati a incontrarsi di nuovo...
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2

Quello che non vorresti mai sentirti dire

 

Dopo

 un'attenta

 analisi,

 confronti

 e riflessioni

 ho capito

 che

 io...

no,

non

 ho

 capito

 niente

 di

 te.

 

La musica pulsa sin troppo forte, nella stanza.

Con un ultimo colpo di batteria, Cappie conclude la canzone, lasciando che i piatti vibrino ancora un po’ e spargano l’ultima nota nell’aria. Il resto, poi, dopo un ultima scivolata di Dennis sulla chitarra, è solo silenzio.

Come uno Ian Curtis maledetto, Louis ha ancora gli occhi chiusi, e resta aggrappato all asta del microfono con entrambe le mani – lunghe dita pallide che stringono la plastica come se fosse vita. Ha le labbra attaccate alla parte retinata dell’amplificatore, e sembra quasi tremare. Evanescente e sottile, la sua immagine sa di quel dolore interno che ti lacera dentro – che ti smuove l’essenza lasciandola vibrare.

Seattle, alle sette della sera, è una trasfusione di radiazioni chimiche; fuori dalle finestre degli studi del registrazione il paesaggio cola come la tela di un pittore impressionista, disperdendosi sulla infinite gradazioni del rosso. Dentro la stanza, il bianco asettico è sintomatico di anime vuote che cercano una pace inesistente.

- Cazzo, io non so voi ma non riesco a sentire la chitarra – borbotta Dennis, sfilandosi la Fender rosso fuoco e appoggiandola al grosso amplificatore.

- Mh, anch’io ho avuto l’impressione che il volume della batteria fosse un po’ troppo forte.

Louis riapre gli occhi, stanco. Non ci ha nemmeno fatto caso; non ha sentito quello che cantava. O perlomeno, non lo ha sentito a 360° gradi, con tutti i sensi e le capacità recettive deviate di chi ha insito in sé il sacro fuoco dell’arte.

- Non mi piace il testo. – borbotta, infine, lasciandosi cadere su una sedia.

Dennis lo guarda, alzando un sopracciglio.

- Perché? E’ ottimo.

- Non è d’impatto… non è sufficientemente catartico.

Cappie da un colpetto al piatto con la bacchetta, evitando di guardare sia Louis che Dennis. E’ un gesto che fa quando è irritato, quando quelli della produzione richiedono un nuovo album e i tempi non coincidono.

D’altronde, Cappie è ancora poco più che un ragazzino.

Ha ventidue anni, un taglio di capelli vagamente Emo per cui Louis e Dennis lo hanno preso in giro tante volte; tanto più che la sua testa è di un rosso ramato naturale, e lo fa sembrare particolarmente eccentrico. Ha le orecchie piene di anelli e indossa quasi sempre abiti neri, doc martens e svariate cazzate dal gusto dark.

Dennis, invece, è più moderato; se non fosse il chitarrista di una band famosissima, lo si potrebbe scambiare per uno qualunque. Ha i capelli a spazzola, neri; e un paio di begli occhi verdi che, per qualche assurdo motivo, sembrano ridere sempre.

E’ difficile rimanere tristi, o incazzati, o delusi se di mezzo ci sono gli occhi di Dennis. Persino Louis, quando lo guarda, si sente pervadere da una strana emozione; che se in tutta la sua vita non avesse fatto alto che prendere insetticidi per precauzione, probabilmente sarebbe in grado di sentire le farfalle nello stomaco.

Appoggia l’indice e il pollice all’attaccatura del naso sulla fronte, massaggiandosi la testa; comincia a sentire quel lieve fastidio quando la violenza creativa si stratifica in eccesso sotto la sua pelle, premenedo per esplodere. Le sue sinapsi diventano centrali nucleari, luoghi comuni dove ogni clichet esplode alla ricerca di una nuova strada. Le parole si inseguono e si combinano tra di loro, cercando di trovarvi un senso compiuto.

- Non capisco qual è il verso che non va – borbotta Cappie, continuando a giocherellare con la batteria.

- Ma mi affoga il cuore nello stomaco ogni volta che qualche placca intercontinentale con un terremoto ti allontana da me.

- Effettivamente, non fa impazzire nemmeno me – fa notare Dennis, buttandosi su una sedia e facendo scrocchiare il collo.

- La soluzione è: pausetta!

La voce, stavolta, non è di nessuno del gruppo. Viene dalla porta, dalla presenza di Julie appena arrivata nella stanza.

Non appena entra Julie, Louis sente un istantaneo sollievo.

Si tratta della compagna di Dennis; una giovane gallerista, con una bella treccia color del grano e occhi chiari, che sembra uscita dal testo di una poesia. Ha arrotolata attorno al collo una sciarpa multicolore, e tra le mani tiene un sacchetto della pasticceria.

- Sia lodata Julie! – esclama Cappie, saltando in aria. Dennis ride, facendo cenno alla compagnia di mettersi seduta sulle sue ginocchia. Lei, dopo averlo baciato sulla fronte e aver rivolto un sorriso a tutti, si mette seduta.

- Quale buone notizie porti, Ju? – chiede Louis, appropriandosi di una pasta al cioccolato.

- Mmmh! – borbotta lei, con la bocca piena. – Stamani sul giornale c’era scritto che siete stati invitati ai Music Awards.

A Louis si gela il sangue.

I Music Awards. Se ne era totalmente scordato. Montagne e montagne di ragazzine sotto il metro e sessanta che si strappano capelli come fili dell’elettricità, mentre un gruppo di critici in ceralacca e papillon è pronto a dar loro un giudizio più spietato possibile. E se tutto va bene, si torna a casa con qualche centone.

- Ah si, mi ero scordato a dirtelo – borbotta Dennis, affondando il naso nel suo collo. Probabilmente, la sua era una dimenticanza calcolata.

- Fa niente, non credo che verrò. Me ne starò a casa a guardare l’ultima puntata di Grey’s Anatomy.

- Ma perché non ci rimaniamo tutti? – propone Cappie, cominciando a battere la bacchetta sul tavolo. Notoriamente, quando Cappie non suona la batteria, suona tutto quello che ha intorno fino a quando non diventa pericolosamente snervante; il che, di solito, coincide con un Dennis irritato che gli intima di smettere o un Louis particolarmente fuori di testa che lo minaccia.

- Non abbiamo bisogno di un’altra serata tutti insieme passata a contemplare i capelli del Dr. Sheperd, è autolesionista – fa notare Julie.

E Louis ride.

Ci sono momenti in cui la mancanza di Ian si acuisce così tanto da fargli mancare il respiro; e di solito, quei momenti coincidono con una violenta e irritante fase creativa in cui il giovane arriva quasi a scrivere sui muri, pur di svuotare se stesso.

Ma di tanto in tanto, capita che quel vuoto si riempia di una leggerezza inaspettata e effervescente, data dalla presenza confortante dei soliti volti noti.

- Mi sa che per oggi finiamo qui. Tanto sono le sette e mezza… Un po’ tardi per fare merenda, effettivamente. – fa notare Louis, rendendosi conto solo dopo di quanto ha mangiato.

- Mh, andata. A chi serve un passaggio? Cap?

- No, sono in moto. Louis, tu vieni con me?

- Se Julie ha la macchina vado con lei.

- Malfidato!

Ridono, buttando il resto della serata sullo scherzo; poi, uscendo dall’ufficio, ognuno prende la sua strada. Cappie col casco in mano saluta gli altri, sparendo rapido per le vie dove la tecnologia s’arrampica come un’edera maligna; Louis, invece, sale dentro la Fiat seicento di Julie, mentre la ragazza si mette gli occhiali per guidare.

- Vuoi che guidi io? – le chiede Dennis, preoccupato. Ma lei scuote la testa e salta al posto del guidatore, mettendo in moto. Quando gira la chiave nel quadrante, parte un vecchio CD dei Rammstein, che cantano Amerika con voce particolarmente cattiva.

Louis non capisce bene cosa i due davanti si stiano dicendo; probabilmente stanno scherzando, parlando del più e del meno.

Ma lui è catturato dalle luci di fuori, dal modo uomocentrico in cui la città si snoda, con tanto di tram grandi come enorme serpenti di ferro che sembrano mangiare l’asfalto e inghiottire tutte le vernici colorate dei muri.

Il panorama ha il sapore del petrolio, e quasi nessuno guarda dove va; la gente cammina portando i cellulari al guinzaglio o urlando in auricolari a lavoratori invisibili. L’isteria è un concetto ritrovabile persino nel 21esimo secolo, nel mondo soffocante e distorto.

Una traversa, un’altra traversa. Un giovane col cappello da contadino tiene una sigaretta tra le dita e, quando la macchina di Julie si ferma al semaforo, guarda dietro al finestrino.

Rimane lì a fissare Louis coi suoi occhi di cenere e un sorriso spento, appoggiato al palo. Con un gilet pieno di lustrini su una camicia bianca e calzoni di pelle troppo aderenti; ed è bello nel modo poetico e volgare di tutte le puttane, mentre aspetta che qualcuno gli offra quattro soldi per dimenticarsi della propria dignità.

Ma ben presto diventa un ricordo anche lui, sparisce in una macchia di colori. Il fotogramma successivo è casa di Louis.

- Io allora scendo qui. Grazie per il passaggio.

- Vieni a cena, una sera di queste? – domanda Julie da dietro gli occhiali da mosca.

- Come no. Basta che non fai cucinare Dennis, non voglio morire avvelenato.

Un’ultima risate, poi la portiera sbatte. Ben presto, anche il portone di vetro scatta e si chiude, lasciando dietro di sé una vita relativa.

Nel tempo che seguirà, Louis salirà in casa, si farà una doccia, rollerà una canna, prenderà il telefono e chiamerà di nuovo Emily.

Ma la progressione del presente, noi la seguiremo andando dietro alla macchina di Julie.

 

*

 

L’abitacolo della macchina è un panorama ben conosciuto.

E’ una macchina piccola e sporca con una radio piena di tasti gialli; attaccato allo specchietto retrovisore c’è un cornetto portafortuna ed un piccolo portachiavi a forma di infradito arancione.

Cose così. Che fanno di una macchina qualsiasi la macchina di Julie, e non solo.

E’ stata anche l’auto dove, in un giorno in cui faceva troppo freddo per uscire fuori, ha mangiato una pizza con Dennis. E poi ci ha fatto per la prima volta l’amore, facendosi anche un po’ male.

Colpa del freno a mano, dei sedili rotti, di tutto che sembrava dover cadere da un momento all’altro. Il mondo stesso.

Dennis è sempre stato tutto.

Julie ci pensa proprio ora, mentre guida – mentre guarda la striscia bianca scorrere sotto ai suoi occhi e lui è seduto lì vicino senza dire una parola, con la fronte appoggiata al finestrino e lo stesso sguardo di un canarino in gabbia.

E’ sempre stato tutto. Lo è stato dall’inizio, dalla festa in cui si sono conosciuti; lei indossava un abito troppo corto ed era indecentemente brilla; e lui invece aveva una maglietta dei Doors e sembrava così provvisorio, in mezzo a tutti gli altri.

Era bello come qualcosa che deve sparire da un momento all’altro. Bello come i luoghi comuni dell’assenza.

E aveva scelto lei. Per qualche motivo astruso e incomprensibile, lei era diventata la sua casa. Il suo santuario.

E’ stato quasi sei anni fa. Louis era già in preda alla sua depressione artistica e la band ai primi tempi; lei era diventata la compagna di Dennis e parte del tutto.

Adesso, a distanza di anni, di quella ragazza ubriaca e del ragazzo distaccato che le dedicava canzoni con la chitarra è rimasto solo il ricordo di un amore imprigionato tra i sedili di un auto che profuma ancora di pelle e arbre magique.

Non sono più gli stessi, Julie lo sa. Eppure in qualche modo il loro amore si è preservato, si è mantenuto.

Anche se Dennis sembra sempre più lontano, sempre più chiuso in se stesso; lei sarebbe disposta persino ad amarlo solo da fuori. Basta che lui glielo conceda.

Quando arrivano a casa, Julie tira un respiro di sollievo. Non le piace guidare dentro Seattle, ma si sforza di farlo per avere un minimo di autonomia. Dennis si offre quasi sempre di guidare al posto suo, ma non glielo lascia fare.

- Che c’è per cena? – domanda lui, sbadigliando e prendendo la strada del vialetto d’ingresso.

Vivono in una di quelle villette a schiera, di quelle con la porta dipinta e il numero di ottone. Hanno persino un cane, una piccola bestiola piena di peli che si chiama Pablo.

- Non ne ho idea, ma penso che tireremo fuori una scatoletta di tonno. – propone Julie, serafica, entrando in casa e sfilandosi la sciarpa mentre Pablo corre loro incontro per fare le feste.

Al solito Dennis si ferma a giocare con il cane, mentre Julie accende la luce della cucina.

- Ma basta tonno, cazzo. Lo stiamo mangiando da una settimana.

- Lo so, ma ti faccio notare che è una settimana per l’appunto che torniamo tardi. Non è che ho tutto questo tempo di mettermi a cucinare le prelibatezze francesi, io.

- Mmh, non ti offendere. Una sera di queste ti faccio una cenetta io.

Julie ride, mentre Dennis l’abbraccia da dietro e le bacia il collo. Mentre prova ad aprire la scatoletta del tonno, lui la distrae.

- Daiii, che sennò non mangiamo mai.

- Ma io mi mangio te! – borbotta lui, dandole un morso sulla spalla. Julie ride, e fa finta di minacciarlo con la scatoletta del tonno.

- Non mi avrai, uomo!

- Questo lo dici tu, piccola sardina al limone!

Ed è così che cominciano a ridere, e scherzare. Proprio come due adolescenti, si punzecchiano, si inseguono, giocano in giro per la casa; e va a finire che Julie rotola dal divano al tappeto, mentre Dennis, lanciatosi al suo inseguimento, fa la stessa cosa. Con i piedi appoggiati allo schienale del divano, entrambi guardano il soffitto.

- Ma tu sei felice, Dennis? – domanda Julie, dopo un attimo di silenzio.

E’ una domanda che sente di dover fare. Che la sta dilaniando lentamente.

Capitano raramente, ormai, quei momenti in cui lei e Dennis giocano come due idioti e si crea tra loro l’atmosfera complice che gli consente di parlare. Tanto vale sfruttarla, anche se c’è il rischio di rovinare tutto.

- Perché mi fai questa domanda? – chiede lui, dopo un attimo di silenzio.

- Ogni tanto mi sembra che tu ti senta in gabbia. – risponde lei, con la massima sincerità possibile.

Il silenzio che ne consegue è sconcertante. Perché magari dura pure poco, ma è uno di quei momenti che rischia di dilatarsi e di ripercuotersi all’infinito con estrema voracità;  ed è uno di quei silenzi che un po’ ti uccide, da quanto fa male. Ti svuota.

- Ora, in questo momento, sì. Ma non  è sempre così.

E a Julie viene in mente Kokosckha e la Sposa nel Vento; il quadro in cui i due protagonisti sono abbracciati dopo aver fatto l’amore, e lei dorme mentre lui, sveglio, fissa il vuoto sapendo già che tutto finirà.

- Che vuol dire, che non è sempre così?

A quel punto, Dennis si mette a sedere, abbracciandosi le ginocchia. La situazione dev’essere più grave di quel che sembra.

- Guardaci, Juls. – l’ha chiamata Juls. Col nomignolo standard che le ha appioppato lui. E Julie, con tutta la stupidità di una donna innamorata, in fondo spera ancora che qualcosa possa cambiare in positivo.

- Guardaci – riprende lui – Viviamo sotto lo stesso tetto, ci vediamo durante il giorno… ma tutto quello che facciamo è comportarci come amici. Ridiamo, scherziamo. Mai un ti amo. Mai un po’ di sesso.

E a quel punto, a lei si gela il sangue.

Quand’è l’ultima volta che hanno fatto l’amore? Che si sono detti ti amo a vicenda?

Il primo, folle, irrazionale istinto è quello di spogliarsi; di offrirsi come vittima sacrificale e dire: “Eccomi, sono qui. Scopami.” Ed aspettare che lui si fotta pure la sua anima per conservare i propri istinti.

Con le dita nervose, slaccia i bottoni della camicia. Dennis la guarda stravolto, e appoggia le mani sulle sue per fermarla.

- Juls, no. – dice, con voce tenera.

- Possiamo fare sesso, no? Qui, ora, sul tappeto. – propone lei, cercando di sfilarsi la gonna – Come la prima volta che siamo venuti qui. Te lo ricordi, no? L’abbiamo fatto sul pavimento perché non c’erano materassi. E ci siamo addormentati davanti al camino.

- Julie, non cambierà quello che sta succedendo. Se adesso facciamo sesso, non torneremo quelli che eravamo.

- Ma…

- Non è quello, capisci? Ma ci vedi? Stiamo insieme tutti i giorni e non riusciamo a pensare nemmeno a uno straccio di futuro. Arriviamo alla sera e l’unica cosa che sappiamo fare è discutere sulla cena, su Grey’s Anatomy, su chi deve portare fuori il cane. Cazzo, non facciamo un progetto da anni ormai! Nemmeno le vacanze. Nemmeno un viaggio all’estero d’estate.

E stavolta, Julie capisce che spogliarsi non le servirà a niente sul serio. Perché Dennis ha appena messo a nudo la sua anima in un modo diverso da quello che si sarebbe aspettata; e ora è spaventata sul serio, dall’enormità di quello che sta succedendo.

- Possiamo cominciare. Posso cambiare. – propone, con voce tremolante.

- A che servirebbe? La ragazza di cui mi ero innamorato non esiste già più. – dice lui, con un sorriso triste.

Julie si sente morire dentro. Di botto, all’improvviso, senza che nessuno l’abbia avvisata. Vorrebbe riavvolgere la pellicola e tornare indietro, al pomeriggio, alle sette e un quarto, alla macchina, a quando è entrata in casa, alla scatoletta di tonno. E magari tagliarsi le dita così sarebbe stata costretta a medicarsi e magari Dennis le avrebbe tamponato la ferita, anziché infliggergliene una ancora più grande.

Strizza gli occhi per non piangere, ma con scarsi risultati.

- Julie… - prova a iniziare Dennis.

- Non mi toccare. – dice lei, scansandosi. Poi si alza, cerca le scarpe e la borsa.

- Julie, aspetta, calmati. Non sei lucida. Non mi sembra il momenti giusto per uscire di casa.

- Vado da mia sorella, non ti preoccupare. – esclama lei, con le mani che tremano. Afferra le chiavi della macchina; della paura di guidare, ora, si è persino scordata.

Dennis la insegue in ogni stanza della casa, mentre lei prende oggetti qua e la più o meno irrilevanti; e alla fine se ne esce sul vialetto con una valigia piena di lacrime.

Lui la chiama ancora, dalla porta della casa; ma lei è già dentro la macchina.

Andrà da sua sorella, ha detto.

Mette in moto la macchina, e Dennis le è dietro. Cerca di urlarle qualcosa, ma c’è il vetro ad attutire le sue parole; e c’è un cuore malato che non vuole nemmeno sentire quello che lui ha da dire.

Così lo vede allontanarsi pian piano dallo specchietto retrovisore; e mentre va, sa che è quella la distanza che vorrebbe prendere dalla sua vita.

Mentre guida, non riconosce nemmeno più le strade.

E’ buio, e Seattle sembra terribilmente marcia, sporca e piena di schifo umano.

 

*

 

Piove di nuovo.

Alla sera, a Seattle piove quasi sempre.

Seduta sul divano di casa di Ian, Demi tiene tra le mani la cornice appoggiata sul comodino all’ingresso.

Nella foto, lei, Ian e Adam sorridono vivacemente; erano i tempi del liceo, avevano poco più di diciott’anni. Adam aveva addosso l’uniforme della squadra di football, mentre Ian sembrava poco più che uno studentello Emo; in mezzo a loro due, lei sorrideva allegra, con le trecce castane ai lati del viso e gli shorts che gridavano estate ovunque.

Sospira, soffermandosi su Adam. Nella foto è venuto particolarmente bene; i suoi occhi blu sembrano quasi bucare il tempo e lo spazio ed arrivare fino a oggi, direttamente dal passato. Peccato che non sia così semplice.

- Ti manca così tanto?

La voce di Ian la coglie all’improvviso, facendola sobbalzare. E’ stata beccata ancora una volta con le mani nel sacco – dal suo migliore amico, per giunta.

Arrossisce. Sa che non c’è bisogno di parlare, per spiegare il suo tumulto interiore; me è altrettanto sicura che Ian lo farà lo stesso, anche solo per cercare di tranquillizzarla. Fa parte del suo buon cuore.

- Mi manca tantissimo. Vorrei che fosse qui, ora.

Ian sospira, mettendosi seduto vicino a lei.

- Perché non provi a scrivergli un e-mail? – propone, passandosi una mano tra la zazzera bionda.

Demi alza un sopracciglio, perplessa – Non mi sembra che tu abbia scritto molto a Louis, in questi anni.

- Touché. Ma Louis è su tutte le copertine, quasi tutti i giorni. Basta comprare Rolling Stones. Adam è in Afghanistan, non è la stessa cosa.

Il posto che non deve essere nominato fa venire i brividi a Demi. Perché immaginarsi Adam – il suo Adam – in mezzo alle bombe con un fucile in mano non è esattamente confortante.

- Forse hai ragione. Dovrei scrivergli. Anche perché non voglio che passino altri due mesi, prima di riuscire a prendere la linea telefonica.

Così, Demi si alza, lasciando Ian sul divano con la tazza di thé in mano, e accende il pc.

Quando si trova davanti alla pagina bianca, le prende un attimo di terrore. Le ha sempre messo paura, il vuoto; lo spazio deserto da riempire con parole e emozioni. Ha paura di non esserne capace.

Ma, in qualche modo, comincia.

 

Caro Adam,

come stai? Va tutto bene, in terra d’Islam? Noi stiamo bene. Ian è il solito cazzone, continua a guardare Louis a distanza proprio come faceva alle superiore. Mi sta facendo esasperare.

A Seattle piove. Bella novità, eh?

Scommetto che ti manca la pioggia. Laggiù è tipo deserto arabico, o no?

A me manchi tu.

Mi manchi come potrebbe mancarmi un paesaggio che ho visto per tutta la vita; mi manca vederti, e abbracciarti, e l’odore delle tue magliette e le tue mani piene di calli e parlare delle cose stupide prima di andare a dormire.

Dio sono un disastro. Ian è più bravo di me a scrivere, lui si che riesce a tenere una corrispondenza come Cristo comanda. Io no, perché poi comincio a scrivere tante cazzate.

Tipo che vorrei che tu non ti arruolassi più.

E tornassi a casa, da me. Perché non ti ho mai detto che ti amo, e vorrei così tanto potertelo dire.

Non te l’ho detto nemmeno quando al liceo stavi con quella cheerleader idiota – Lucy, si chiamava. Perché dicevi di essere innamorato e io volevo solo fossi felice.

Però adesso lo so che se tornassi potrei renderti felice io, no?

Perché ti amo e ti ho sempre amato.

Ma tanto, questa e-mail non te la invierò mai. Almeno non tutta. L’ultima parte magari la tolgo, ma volevo avere la soddisfazione di scriverla.

Niente, ti voglio bene.

Rispondimi quando e se puoi, soldato Joker.

I miss you, per citare i Blink.

 

Demi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

Eccomi di nuovo qui… aggiornamento lampo anche stavolta =)

Abbiamo conosciuto il resto della band, finalmente. E anche Julie (non è tenerissima?). Ian e Demi li abbiamo visti poco, ma non volevo concludere senza di loro.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto.

E niente, la citazione iniziale è di “Mi Vida” dei Linea 77.

Alla prossima!

 

- sc

   
 
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