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Autore: Carlos Olivera    19/06/2011    2 recensioni
Giappone. XVI Secolo.
La guerra civile consuma e distrugge tutto ciò che incontra. I signori della guerra si combattono l'un l'altro per il potere assoluto, i contadini soffrono e muoiono nelle campagne, i mercanti si arricchiscono, e le città bruciano.
Oda Nobunaga, presentatosi come il salvatore del Paese, si appresta a riunificare l'intero Giappone sotto il suo comando, e ben presto anche gli ultimi che ancora lo contrastano cadranno come fiori appassiti.
Ma qualcosa, qualcosa di terribile, cova al di sotto del caos che ovunque regna sovrano. Dall'occidente sono arrivate nuove armi, nuove conoscenze e una nuova fede, ma anche un'antica e sanguinosa battaglia segreta che dura da centinaia di anni, e che avrà in questo Paese uno dei suo maggiori teatri di scontro.
Dovere. Onore. Vendetta. Giustizia. Questo è ciò che mi guida, che mi spinge e proseguire lungo la strada che ho scelto, verso quel destino a cui non posso sottrarmi.
E' la mia maledizione.
Io sono Iguro Takemura.
Io sono... un Assassino.
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Un nuovo capitolo a tempo di record.

Vi prego, ditemi cosa ne pensate. Una recensione non fa mai male, e potrebbe servire a migliorarmi.

 

2

 

 

Iguro non sapeva per quanto tempo fosse stato immerso nel tetro oblio della morte.

         Ore, giorni. Settimane.

         Di certo non si aspettava di riaprire gli occhi; quando lo fece, però, lottando con il dolore che lo dilaniava in ogni parte del corpo, desiderò di non averlo mai fatto.

         Il suo villaggio, quell’eremo di pace e di armonia, placidamente adagiato nella vallata e circondato dalle risaie, non esisteva più; al suo posto, avvolto in una nebbia spettrale e immersa in una luce soffusa, come da anticamera dell’oltretomba, solo una distesa di terra insanguinata, corpi senza vita, ruderi devastati e legni bruciati.

         Nessuno era stato risparmiato.

         Uomini, donne, bambini, vecchi. Tutte le persone che aveva mai conosciuto ora giacevano senza vita nel loro stesso sangue, trafitti dalle frecce, sventrati dalle spade, infilzati dalle lance.

         Molte donne, le più giovani, erano state violentate, e sicuramente qualcuna era stata portata via, macabra e crudele consuetudine dei samurai di più alto rango che così facendo accrescevano il numero delle proprie dame di favore evitando di doverle comprare in qualche mercato.

         Lottando con il dolore, cercò di rimettersi in piedi, ma come riuscì a poggiare nuovamente sulle sue gambe una fitta terribile al fianco destro lo costrinse a lanciare un urlo di dolore. Sgomento, si guardò la parte lesa, appena distinguibile sotto la tunica insanguinata; il proiettile sparato dall’uomo a cavallo, quella specie di demone nero che aveva intravisto allontanarsi dopo averlo colpito, lo aveva ferito solo di striscio. Una ferita trascurabile, ma che unita a tutte le altre si era rivelata più di quanto il suo fisico potesse sopportare.

         Il sollievo per essere riuscito, in qualche modo, a sopravvivere, fu ben presto annientato dalla consapevolezza che lui sembrava essere stato il solo al quale il destino aveva voluto guardare con benevolenza.

         Come un fantasma, si ritrovò a camminare senza meta in mezzo a quella distesa informe di cadaveri e corpi straziati, chiamando con la poca voce che riusciva a trovare i propri amici, chiedendo se ci fosse qualcuno ancora vivo, ma i suoi appelli si perdevano nella nebbia.

         Un cane selvatico intento a dilaniare una carogna si diede alla fuga dopo avergli ringhiato un momento contro appena lo aveva visto arrivare; tutto era desolazione e morte.

         Quasi per caso, si ritrovò a tu per tu con il corpo senza vita di suo padre.

         «Padre…» mormorò inginocchiandosi.

         Anche nella morte, Takemura aveva saputo mantenere tutto il suo orgoglio; i lineamenti erano distesi, l’espressione serena, gli occhi chiusi. Sembrava quasi che stesse dormendo, ma la veste arrossata e il moncone di freccia nello sterno testimoniavano la cruda realtà.

         Solo dopo, quando le lacrime smisero per un momento di inondargli gli occhi, Iguro si accorse che quello sul quale suo padre era appoggiato con la schiena era il muretto della loro casa; per chissà quale miracolo, il fuoco non l’aveva raggiunta, ma i segni del passaggio di quei barbari razziatori erano più che evidenti.

         Avventuratosi all’interno, non prima di aver composto per quanto possibile il corpo di suo padre ed averlo seppellito, la sua disperazione se possibile divenne ancora più grande quando, entrato nella saletta da pranzo, trovò sua madre riversa sulla schiena, con una spaventosa ferita alla spalla sinistra, i capelli strappati e spettinati e il volto tumefatto.

         «Madre!» disse correndo da lei.

         Lei aprì leggermente gli occhi, un gesto semplice ma che le costò, sicuramente, un enorme sforzo.

         «I… Iguro…»

         «Madre… resisti. Ti salverò…»

         «Lascia stare… ormai per me è finita… e tu lo sai.»

         «Madre…» disse il ragazzo a denti stretti, sforzandosi di non piangere

         «Figlio mio. C’è una cosa che devo dirti… finché ne ho la forza.» quindi chiuse un momento gli occhi, come a voler richiamare a sé le ultime forze per trovare il coraggio di parlare «Iguro… tu non sei nostro figlio.»

         «Che cosa!?» replicò il ragazzo spiazzato

         «Tua madre… era una nobildonna… di Nagasaki. È lì… che tu sei nato.»

         «A Nagasaki!?»

         «Tuo padre… era un comandante di navi. Veniva da occidente. Io servivo nella loro casa. Ti ho… ti ho visto nascere. E quando la loro famiglia venne spazzata via da una congiura… lui… ti affidò a me. Mi disse di nasconderti… di farti crescere in pace.

         Voleva che tu… avessi una infanzia felice. In previsione di quello che ti aspettava.»

         «Di che stai parlando?»

         «Tuo padre era speciale. Non era venuto in questo Paese… solo come mercante… e navigatore. Lui… aveva una missione. Ma ha fallito. Sua moglie, tua madre, è morta… e lui… è stato costretto a scappare».

         Un violento colpo di tosse costrinse la donna a fermarsi; fiotti di sangue colarono dalla sua bocca, e il suo respiro si fece sempre più affannoso.

         «Madre!».

         Lei allora, sollevato il braccio, indicò in alto, verso il piccolo altare degli antenati affisso alla parete; gli oggetti sacri come quello erano l’unica cosa che persino dei samurai razzatori, a meno che non fossero realmente disperati, evitavano di toccare, pena una sventura e una sorte terribili per mano degli dèi che avevano offeso.

         Iguro, poggiata delicatamente la madre sul tatami, si alzò e si avvicinò al tempietto, sfiorandolo con le mani, quindi guardò di nuovo la donna.

         «Rompilo.» disse lei.

         Lui, dapprincipio, esitò, anch’egli timoroso delle conseguenze di un gesto così blasfemo, ma poi, dinnanzi allo sguardo d’acciaio della madre, afferrò l’altare e lo scaraventò a terra con tutta la sua forza, riducendolo in pezzi.

         Tra le schegge di legno, come per magia comparve un oggetto strano; sembrava un bracciale, un bracciale di cuoio rinforzato e decorato con intarsi d’argento, uno dei quali raffigurava due asticelle disposte a formare una sorta di compasso.

         Un oggetto occidentale senza dubbio, opera di un artigiano espertissimo. Attonito, Iguro lo raccolse, rigirandoselo tra le mani.

         «Quell’oggetto… mi fu affidato da tuo padre. Disse di dartelo… quando fossi stato pronto. Non so… se tu lo sia… ma ormai… il mio tempo è scaduto».

         Un rantolo di agonia annunciò quelli che erano gli ultimi momenti di vita della donna.

         «Madre!» disse Iguro tornando da lei

         «Voglio che tu sappia… che io e tuo padre… ti abbiamo… sempre amato. Amato… come un figlio. Siamo entrambi immensamente fieri di te.»

         «Madre. Anche io ringrazio il cielo di essere stato vostro figlio. Ma ti prego. Non morire. Non mi lasciare.»

         «Ormai è giunto il mio momento.» disse, quindi prese Iguro per la collottola «Vai… vai ad Hakuba

         «Perché? Cosa c’è ad Hakuba

         «Il… tuo… destino…».

         A  quel punto, dopo aver accarezzato brevemente il volto del figlio accennando un sorriso, Suzue spirò.

         Iguro ormai non aveva più lacrime per piangere, ma strinse a sé il corpo della madre con tutte le sue forze e poggiò la fronte sul suo seno, cercando di raccogliere quel poco di calore che ancora vi albergava.

         Poco dopo, portatala delicatamente all’esterno, la seppellì, proprio accanto a Takemura; il pensiero che i suoi genitori si fossero ricongiunti lo faceva stare un po’ meglio, ma il dolore era incontenibile, e con esso la rabbia.

         Il suo primo pensiero era di correre dietro ai bastardi che avevano attaccato il suo villaggio ed ucciderne quanti più poteva, ma ciò che restava del suo raziocinio gli diceva che in questo modo avrebbe ottenuto solo di morire inutilmente.

         Dopo aver rivolto le preghiere di rito, guardò il bracciale trovato nascosto nell’altare, ora infilato al polso sinistro.

         Se sua madre aveva voluto a tutti i costi che lo avesse, doveva essere qualcosa di veramente speciale.

         Di colpo, gli tornò in mente quella strana euforia che aveva provato nel mezzo della battaglia, e gli venne voglia di scoprire cosa ci fosse di tanto importante ad Hakuba da spingere sua madre a usare le poche forze che le erano rimaste prima di morire ad invitarlo, quasi con tono di ordine, ad andarci.

         Ciò che aveva appena sentito era stato per lui come un colpo al cuore.

         Ora si spiegava quel senso di estraneità che lo aveva accompagnato fin da quando gli riusciva di ricordare, quella consapevolezza di essere diverso che non riusciva a spiegarsi ma che percepiva come reale.

         Chi era suo padre?

         Anche questo voleva scoprire. La lista delle domande, dei quesiti sulla sua vita, diventava sempre più lunga, e qualcosa gli diceva che solo ad Hakuba avrebbe trovato le risposte. E poi chissà, poteva anche darsi che laggiù avrebbe incontrato qualcuno pronto ad insegnargli come sfruttare quella sorta di istinto guerriero che poco prima si era impadronito di lui, permettendogli così di aspirare ad ottenere la propria vendetta.

         Alzato lo sguardo, vide un cavallo che pascolava tranquillamente in un cortiletto con in sella il cadavere di un samurai infilzato alla schiena da un forcone.

         Avvicinatosi, gettò a terra il corpo e calmò l’animale, quindi, salitovi in groppa, lasciò il villaggio; prima di andarsene, raggiunta la cima di una collinetta, si volse un’ultima volta a guardare quell’eremo di pace violata in cui era cresciuto, e che in tutta la vita non aveva mai lasciato, poi, con gli occhi lucidi, gli volse le spalle, dirigendosi verso l’uscita della valle.

 

Nagasaki

Settembre 1568

 

Da quando gli occidentali avevano incominciato ad insediarsi nel Paese, la città di Nagasaki, il più grande porto commerciale e militare del sud, era diventata il centro culturale più multietnico dell’Impero.

         Tra le sue strade non era raro incontrare mercanti, dignitari e religiosi stranieri, soprattutto europei, e i porti pullulavano di imbarcazioni occidentali, così grandi e maestose che al confronto anche i più grandi vascelli locali sembravano barchette da diporto.

         Ovunque, e soprattutto nei quartieri a sud, erano state costruite case, negozi, magazzini e luoghi di culto occidentali, e non era raro, camminando in quelle zone, imbattersi in uomini vestiti di nero, sacerdoti come venivano chiamati dai barbari, che indottrinavano e predicavano i rudimenti e la magnificenza della propria fede ai passanti.

         Le conversioni a questa nuova religione, il cui simbolo era una croce, si erano fatte abbastanza numerose negli ultimi anni; correva voce che anche molti signori locali si fossero convertiti, infatti non era raro vedere le portantine di alcuni di loro scortate nelle loro uscite ufficiali da quegli uomini in nero.

         Da quando l’ultimo vicario dell’ordine dei Gesuiti, così si facevano chiamare, aveva lasciato il Paese, il potere effettivo era gestito da Paolo Miki, un locale convertito; giovane e bello, aveva lunghi capelli neri, e se non fosse stato per il voto di castità impostogli dal suo status, con quei suoi tratti gentili e quasi femminei avrebbe fatto strage di cuori tra nobildonne e principesse di ogni nazione.

         Quella mattina, molto presto, Paolo e alcuni altri sacerdoti avevano lasciato l’abbazia in cui risiedevano, un vecchio tempio zen riconvertito a chiesa cristiana, e si erano diretti al porto, dove verso mezzogiorno era approdata una nave battente bandiera portoghese, ma con sulla prua un’insegna di legno dipinta di rosso sulla quale erano raffigurate due chiavi incrociate.

         I ponticelli vennero calati, e da uno di essi, tra i primi a sbarcare, scese un giovane sacerdote dai tratti gentili.

         Doveva avere pressappoco la stessa età di Paolo, tra i ventisette e i trent’anni, ma i suoi tratti erano chiaramente occidentali; capelli rossicci abbastanza lunghi, barbetta attorno alla bocca, occhi ambrati grandi e profondi, corporatura slanciata e robusta.

         Paolo e gli altri piegarono la testa, e lui gli si avvicinò.

         «Benvenuto a Nagasaki, vostra eccellenza Valignano

         «Voi siete Paolo Miki, ho ragione?»

         «Sì, vostra eccellenza. Sono il capo dei Gesuiti di questa città.

         Se volete seguirmi, vi accompagnerò all’abbazia».

         Il corteo compì quindi a ritroso il cammino dal porto al convento, e una volta giuntivi i due religiosi andarono subito ad appartarsi in un angolo tranquillo del giardino che circondava l’edificio.

         Il nuovo arrivato restò un momento in silenzio a rimirare la perfezione e la straordinaria bellezza del giardino, un eremo di pace e di assoluta perfezione gestito con mano sapiente da un piccolo gruppo di esperti giardinieri. Nella sezione occidentale, un piccolo laghetto a forma di girino ospitava sulla sua superficie tre piccole isole, collegate tra di loro e con la terraferma da ponticelli di pietra; lungo le sponde, salici piangenti e alberi di ciliegio protendevano i loro rami fin oltre il ciglio, e nell’acqua nuotavano stuoli di pesci dai colori più diversi.

         «Che posto è bellissimo. Mai visto niente di simile.»

         «In questo Paese quella del giardino è a tutti gli effetti un’arte. Il nostro popolo vi dedica la stessa cura ed attenzione che rivolge alla propria anima.»

         «Capisco».

         Si sedettero ad un elegante tavolino di pietra all’ombra di una tettoia di legno, e poco dopo un confratello venne a portare loro delle tazze di tè con anche dei curiosi dolcetti composti da tre palline dai vari colori infilzate in uno stuzzicadenti.

         «E questo?» domandò Valignano

         «È un mocchan dango. Un dolce di riso. Il colore delle parti è dato dal ripieno.»

         «Molto buono.» commentò l’ospite dopo averlo assaggiato.

         In quella, uno strano tremore scosse l’intero giardino; sembrava provenire direttamente dal terreno, tanto che Valignano guardò in basso con un accenno di preoccupazione.

         «Dovrete farci l’abitudine, vostra eccellenza.» disse Paolo dopo aver accennato, non visto, una risatina «In questo Paese purtroppo la terra è piuttosto bellicosa.»

         «Da quello che ho sentito, mi pare che tutto in questo Paese sia piuttosto bellicoso».

         A quelle parole Paolo cambiò subito espressione, abbassando lo sguardo.

         «Purtroppo, la situazione in questo momento non è per niente rosea. Giusto pochi giorni fa, Nobunaga Oda è entrato nella capitale con le sue truppe e ha preso il controllo della città. Lo shogun è stato ucciso.» quindi strinse i pugni e digrignò i denti «Avevamo faticato tanto per riuscire a metterlo al potere, ed è durato meno di sei mesi.»

         «Ho sentito parlare di questo Nobunaga Oda. Sembra stia creando parecchi problemi.»

         «E non è il solo problema. Purtroppo, da quando il nostro ultimo vicario è scomparso nel nulla durante il suo viaggio in Cina, gran parte del potere e dell’influenza che potevamo esercitare in questo Paese è andato disperso.»

         «A quanto pare, non ne siete stato informato.»

         «Di che cosa, vostra eccellenza?»

         «Il nostro confratello, Francesco Saverio, non è scomparso nel nulla. È stato assassinato.»

         «Assassinato!?» esclamò Paolo quasi balzando in piedi.

         Valignano sorseggiò un altro po’ del suo tè.

         «Dunque non sapevate niente. Immagino non si fidassero a sufficienza di voi. Siamo abbastanza sicuri che gli Assassini abbiano messo radici in questo Paese.»

         «Gli Assassini!? Com’è possibile?»

         «L’uomo che ha ucciso Francesco Saverio era un occidentale, ma viveva in questo Paese. Anche se siamo riusciti a renderlo inoffensivo, temiamo abbia avuto il tempo di far nascere una confraternita.

         È questo uno dei motivi per i quali sono stato inviato qui.»

         «Ora che mi sovviene, la vostra fama di cacciatore di Assassini è quasi leggendaria all’interno dell’ordine. Avete sradicato le confraternite degli Assassini in tutto l’estremo oriente.»

         «Sì. Ma ho il sentore che qui sarà diverso. Da quanto ho avuto modo di apprendere nel corso del viaggio, usando i documenti e i rapporti redatti dai miei predecessori, questo è un Paese particolare. Non solo è perennemente in guerra con sé stesso da mille anni, ma qui l’arte dell’omicidio e dell’assassinio furtivo è estremamente diffusa e ben applicata.

         Sarà difficile rintracciare gli Assassini in questo stato di perenne confusione.

         Quindi, come prima cosa, sarà necessario mettere fine a questo caos. A quel punto, potremo procedere nella nostra ricerca.»

         «Mi rincresce doverglielo dire, ma ci abbiamo già provato. Ma ogni volta che cerchiamo di portare al potere uno o l’altro signore della guerra, dopo una manciata di tempo arriva qualcun altro che lo spazza via.

         Inoltre, qui al sud gli occidentali sono visti con una certa benevolenza. Ma il centro del potere è al nord, ad Honshu. E i nobili di laggiù non hanno molta simpatia per noi.»

         «Compreso… Nobunaga Oda?».

         Di nuovo, Paolo parve nascondere a stento lo sdegno.

         «E pensare che lo chiamavano il Pagliaccio di Owari. Ora invece non c’è signore o potente in tutto il Paese che non lo tema. Abbiamo provato a servirci anche di lui. Ma quel maledetto si è preso le nostre tecnologie, le nostre conoscenze e ci ha mollati, e ora diffida di noi almeno quanto diffida dei pochi che ancora lo contrastano.»

         «Se ho capito bene, questo Oda Nobunaga è un avversario pericoloso.»

         «Molto pericoloso. È solo una questione di tempo. Prima o poi l’intero Paese sarà suo. E a quel punto, le cose per il nostro ordine potrebbero farsi davvero complicate.»

         «Questo non è detto. In fin dei conti, non siamo venuti qui per estendere il nostro controllo sul mondo? Molte nazioni e colonie sono già sotto il nostro controllo. Qui sarà la stessa cosa. A tal proposito, se davvero Nobunaga si appresta a diventare il nuovo signore di questo Paese, non vedo perché non dovremmo cercare di intrattenere buoni rapporti con lui.

         Se è davvero così potente, riuscire a farne nuovamente un nostro alleato sarebbe un’ottima cosa.»

         «Perdonate la franchezza, ma non ci riuscirete. Quell’uomo agisce solo per sé stesso. Non ha paura di niente, e gli piace dimostrarlo. Ha preso di petto situazioni davanti alle quali anche il più coraggioso di noi sarebbe fuggito.

         La gente pensa che lui sia un oni

         «Un oni

         «Uno spirito, un demone. In ogni caso, un essere soprannaturale.»

         «In tal caso.» disse Valignano sorseggiando quanto restava del suo tè «Tutto quello che dobbiamo fare è trovare un sostituto. Qualcuno disposto a venire a più miti consigli.» quindi guardò Paolo «Mi hanno parlato molto bene di voi, Paolo Miki. Al momento giusto, le vostre abilità e la vostra esperienza sono sicuro potranno tornare molto utili».

 

Provincia di Shinsu

Settembre 1568

 

Iguro, non essendo mai uscito dai confini del suo villaggio, non aveva idea di dove si trovasse Hakuba.

         Durante il viaggio, transitando per una piccola cittadina, aveva chiesto informazioni ad un mercante, ma tutto quello che era stato in grado di scoprire era che il villaggio si trovava da qualche parte tra le montagne che circondavano Nagano.

         Ci erano volute molte settimane, ma ora sentiva di non essere molto lontano.

         In tutto quel tempo, le ferite avevano avuto modo di guarire, e ora sentiva di essere tornato, se non in perfetta, quanto meno in buona forma.

         Non avendo con sé né soldi né altro per pagarsi l’alloggio in qualche locanda, aveva trascorso tutte le sue notti all’addiaccio, in una radura tra i boschi o lungo il letto di qualche ruscello, al fuoco di un bivacco. Tuttavia, aveva paura ad addormentarsi, perché se lo faceva le immagini di quel massacro tornavano a perseguitarlo, risultando più terribili ed insopportabili anche di quei sogni a cui non era ancora riuscito a trovare un senso.

         Rivedeva i suoi genitori, i loro volti tumefatti e devastati dal dolore, i suoi amici morire ed osservarlo, immobili ed evanescenti come fantasmi, immersi nell’oscurità, il suo villaggio cadere in macerie e popolarsi di spettri.

         Durante il viaggio, più di una volta era stato costretto a cambiare direzione per evitare battaglie sanguinose che vedevano coinvolti gli eserciti di chissà quali signori della guerra, e più passava il tempo più si rendeva in quali, pietose condizioni fosse il Paese del quale fino ad ora non aveva conosciuto che una piccola vallata.

         A metà del ventesimo giorno di marcia, dopo aver attraversato laghi, foreste, fiumi e montagne, Iguro si era ormai inoltrato di molto nella provincia di Shinsu; tuttavia, nonostante fosse ormai a poche miglia da Nagano, e per quante persone fermasse per chiedere informazioni, nessuno sapeva spiegargli con certezza dove si trovasse Hakuba.

         Alcuni addirittura, per la maggior parte contadini che incontrava transitando lungo le risaie, si rifiutavano di rispondergli, volgendo lo sguardo altrove e seguitando a lavorare o a camminare.

         Finalmente, una vecchia signora ebbe pietà di lui e della sua espressione smarrita.

         «Il villaggio di Hakuba si trova a nord. Ai piedi del monte Karamatsu.» poi aggiunse, minacciosa «Ma state attento. Quello è un luogo infestato dal male, un covo di tagliagole esperti ed infallibili. Nessuno di quelli che vi si è spinto è mai tornato, inclusi i samurai.»

         «I samurai? Quali samurai?»

         «Quelli dei Takeda. Questa terra fa parte dei loro domini. Hanno tentato più volte di sottomettere Hakuba, ma di tutti gli eserciti che gli sono stati lanciati contro non ce n’è uno che abbia fatto ritorno.»

         «Capisco. Grazie dell’informazione.»       

         «Fate attenzione, giovane. Non vorrei faceste la stessa fine».

         Ormai certo di essere sulla strada giusta Iguro continuò a seguire il sentiero che stava percorrendo, che in breve lo condusse ai piedi delle montagne che, secondo le parole della vecchia contadina, circondavano Hakuba.

         Nonostante il sole e il grandioso spettacolo offerto dalle cime, alcune innevate nonostante l’estate, dai boschi di pini pullulanti di vita e dai torrenti impetuosi, quel posto emanava davvero un’aura, se non tetra, quantomeno fortemente mistica. Sapeva quasi di luogo inviolato e inviolabile, dove a nessuno straniero era consentito l’accesso.

         Verso mezzodì, dopo aver viaggiato per tutta la mattina attraverso il bosco, il ragazzo uscì finalmente all’aperto, ma i suoi occhi si aprirono su di uno spettacolo orribile.

         Nella radura, circondato da prati e risaie, stava un piccolo villaggio, per la verità più uno sparuto agglomerato di povere case; un manipolo di samurai, probabilmente quanto restava di una di quelle armate di cui aveva parlato la vecchia signora, lo stava depredando, proprio come era successo con il suo, razziando tutto quello che trovava e uccidendo chiunque resistesse o tentasse la fuga, donne e bambini inclusi.

         Prima ancora che Iguro potesse comprendere appieno ciò che stava accadendo o decidere cosa fare, un gruppetto di samurai che stavano setacciando i boschetti attorno al villaggio in cerca di superstiti lo notarono, e presero a tirargli addosso coi loro archi. Il ragazzo spronò il cavallo e si allontanò, riuscendo a seminarli, ma poco dopo incrociò un gruppo di contadine che disperatamente cercavano di mettersi in salvo dagli aggressori salendo lungo il crinale che conduceva alla strada.

         Due di loro, a causa del terreno ripido e del pesante canestro che portavano ancora sulla schiena, inciamparono, rotolando giù proprio in bocca ai samurai, uno dei quali si preparò a finirle.

         «Fermatevi!» urlò senza pensarci.

         Era disarmato, senza niente con cui difendere sé stesso o quelle donne, ma nonostante ciò decise che doveva fare qualcosa e lanciò il cavallo verso di loro.

         D’improvviso, qualcosa in lui parve risvegliarsi; quello spirito guerriero che già aveva saggiato nell’attacco al suo villaggio. Di nuovo, tutto parve andare al rallentatore, e una strana foga si impadronì di lui, assieme alla certezza di sapere cosa fare.

         Il cavallo saltò giù dalla strada, un salto di parecchi metri, e mentre l’animale era ancora in volo il ragazzo saltò giù, proprio sopra ai samurai; con un gesto repentino, inarcò il polso sinistro, e immediatamente dal fondo del bracciale che portava ancora al braccio sinistro scaturì una lama lunga e sottile, finemente decorata ed intarsiata.

         Come un dio della morte, piombò sul samurai che stava per uccidere le contadine, buttandolo a terra e piantandogli la lama nella gola uccidendolo sul colpo. Con la stessa rapidità, recuperò la spada del nemico appena ucciso e la usò per trafiggere uno dei suoi compagni, ma l’arma restò incastrata tra le ossa e l’armatura del morto e dovette lasciarla.

         Un terzo samurai ne approfittò, ma Iguro prima deviò la lancia, quindi la afferrò, tirò l’aggressore a sé e gli piantò la lama del bracciale dritta in un occhio, quindi usò l’arma appena conquistata per trafiggere un quarto nemico al costato.

         I restanti samurai, cinque o sei, cominciarono ad indietreggiare, spaventati da una tale dimostrazione di forza, e a quel punto ad Iguro bastò uno sguardo di fuoco per convincerli a cambiare aria.

         Altrettanto fecero le contadine, che corsero via dopo aver brevemente ringraziato il loro salvatore, e subito dopo, come era già accaduto prima, la foga, improvvisamente, scomparve, abbandonando Iguro e lasciandogli soltanto un’immensa stanchezza e un principio di vomito per la vista di come aveva conciato quegli uomini.

         Era talmente impegnato a sforzarsi per non vomitare da non accorgersi che l’ultimo samurai che aveva colpito, invece di venire ucciso, era stato solo ferito, per quanto gravemente. Questi, rialzatosi e afferrata la spada, corse contro al ragazzo, che ebbe a malapena il tempo di voltarsi.

         Un rimbombo assordante riecheggiò nell’aria, e quando già Iguro stava cominciando a saggiare il sapore della morte il suo aggressore crollò a terra come spinto violentemente da una mano invisibile, morto sul colpo.

         Attonito, il ragazzo guardò in alto, verso la strada.

         Inginocchiato a terra, e armato di uno di quei bastoni sputa fuoco del quale Iguro aveva sentito parlare, stava un giovane uomo, pressappoco sulla trentina, i lineamenti puliti e il viso molto bello, destinato senza dubbio ad attirare l’attenzione, uno sguardo sbarazzino e provocatorio stampato in faccia e un’espressione fiera, sicura di sé.

         Dalla cima della sua arma usciva un fumo grigiastro che emanava un odore maleodorante, peggiore anche di quello del sangue.

         Indossava una casacca verde con le maniche lunghe, come un mercenario, e sotto di essa parti di un’armatura, sicuramente sottratta a qualche nemico morto.

         Alzatosi in piedi dalla posizione inginocchiata, l’archibugiere misterioso guardò Iguro, e come gli cadde l’occhio sul bracciale di cuoio le sue labbra si piegarono in un sorrisetto divertito.

         «Ma guarda un po’.» disse tra sé e sé.

         Sceso dal crinale si avvicinò al ragazzo, prendendo a squadrarlo da capo a piedi; Iguro si sentiva un po’ a disagio, anche perché non era certo di potersi fidare appieno di quel tipo.

         «Devo ammettere che questo è l’ultimo posto in cui mi sarei aspettato di incontrare un Assassino.»

         «Un Assassino!?» ripeté il ragazzo

         «I tuoi tratti mi sono molto famigliari. Tu devi il figlio del comandante Pinto

         «Tu conosci mio padre!?».

         Quello, di nuovo, sorrise.

         Poco dopo, da tutte le direzioni sbucarono decine di uomini vestiti di nero che lanciatisi sul villaggio fecero strage dei samurai razziatori, uccidendoli o costringendoli alla fuga; li guidava un uomo spaventoso, un gigante grosso come una torre che impugnava un’enorme lancia.

         Sembravano degli shinobi, ma avevano qualcosa di strano; la loro tecnica di lotta era particolare, così come i loro vestiti, una sorta di tuniche con un lungo cappuccio che copriva loro il volto; inoltre, avevano tutti al polso sinistro quei bracciali con la lama segreta.

         «Ma chi sei tu?» domandò perplesso e confuso Iguro rivolto al suo salvatore

         «Magoichi Saika.» rispose lui poggiandosi l’arma sulla spalla «Per servirti».

 

  
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