Un
nuovo capitolo a tempo di record.
Vi
prego, ditemi cosa ne pensate. Una recensione non fa mai male, e potrebbe
servire a migliorarmi.
2
Iguro non sapeva per quanto tempo fosse
stato immerso nel tetro oblio della morte.
Ore,
giorni. Settimane.
Di
certo non si aspettava di riaprire gli occhi; quando lo fece, però, lottando
con il dolore che lo dilaniava in ogni parte del corpo, desiderò di non averlo
mai fatto.
Il
suo villaggio, quell’eremo di pace e di armonia, placidamente adagiato nella
vallata e circondato dalle risaie, non esisteva più; al suo posto, avvolto in
una nebbia spettrale e immersa in una luce soffusa, come da anticamera
dell’oltretomba, solo una distesa di terra insanguinata, corpi senza vita,
ruderi devastati e legni bruciati.
Nessuno
era stato risparmiato.
Uomini,
donne, bambini, vecchi. Tutte le persone che aveva mai conosciuto ora giacevano
senza vita nel loro stesso sangue, trafitti dalle frecce, sventrati dalle
spade, infilzati dalle lance.
Molte
donne, le più giovani, erano state violentate, e sicuramente qualcuna era stata
portata via, macabra e crudele consuetudine dei samurai di più alto rango che
così facendo accrescevano il numero delle proprie dame di favore evitando di
doverle comprare in qualche mercato.
Lottando
con il dolore, cercò di rimettersi in piedi, ma come riuscì a poggiare
nuovamente sulle sue gambe una fitta terribile al fianco destro lo costrinse a
lanciare un urlo di dolore. Sgomento, si guardò la parte lesa, appena
distinguibile sotto la tunica insanguinata; il proiettile sparato dall’uomo a cavallo,
quella specie di demone nero che aveva intravisto allontanarsi dopo averlo
colpito, lo aveva ferito solo di striscio. Una ferita trascurabile, ma che
unita a tutte le altre si era rivelata più di quanto il suo fisico potesse
sopportare.
Il
sollievo per essere riuscito, in qualche modo, a sopravvivere, fu ben presto
annientato dalla consapevolezza che lui sembrava essere stato il solo al quale
il destino aveva voluto guardare con benevolenza.
Come
un fantasma, si ritrovò a camminare senza meta in mezzo a quella distesa
informe di cadaveri e corpi straziati, chiamando con la poca voce che riusciva
a trovare i propri amici, chiedendo se ci fosse qualcuno ancora vivo, ma i suoi
appelli si perdevano nella nebbia.
Un
cane selvatico intento a dilaniare una carogna si diede alla fuga dopo avergli
ringhiato un momento contro appena lo aveva visto arrivare; tutto era
desolazione e morte.
Quasi
per caso, si ritrovò a tu per tu con il corpo senza vita di suo padre.
«Padre…» mormorò inginocchiandosi.
Anche
nella morte, Takemura aveva saputo mantenere tutto il
suo orgoglio; i lineamenti erano distesi, l’espressione serena, gli occhi
chiusi. Sembrava quasi che stesse dormendo, ma la veste arrossata e il moncone
di freccia nello sterno testimoniavano la cruda realtà.
Solo
dopo, quando le lacrime smisero per un momento di inondargli gli occhi, Iguro
si accorse che quello sul quale suo padre era appoggiato con la schiena era il
muretto della loro casa; per chissà quale miracolo, il fuoco non l’aveva
raggiunta, ma i segni del passaggio di quei barbari razziatori erano più che
evidenti.
Avventuratosi
all’interno, non prima di aver composto per quanto possibile il corpo di suo
padre ed averlo seppellito, la sua disperazione se possibile divenne ancora più
grande quando, entrato nella saletta da pranzo, trovò sua madre riversa sulla
schiena, con una spaventosa ferita alla spalla sinistra, i capelli strappati e
spettinati e il volto tumefatto.
«Madre!»
disse correndo da lei.
Lei
aprì leggermente gli occhi, un gesto semplice ma che le costò, sicuramente, un
enorme sforzo.
«I… Iguro…»
«Madre… resisti. Ti salverò…»
«Lascia
stare… ormai per me è finita…
e tu lo sai.»
«Madre…» disse il ragazzo a denti stretti, sforzandosi di
non piangere
«Figlio
mio. C’è una cosa che devo dirti… finché ne ho la
forza.» quindi chiuse un momento gli occhi, come a voler richiamare a sé le
ultime forze per trovare il coraggio di parlare «Iguro…
tu non sei nostro figlio.»
«Che
cosa!?» replicò il ragazzo spiazzato
«Tua
madre… era una nobildonna…
di Nagasaki. È lì… che tu sei nato.»
«A
Nagasaki!?»
«Tuo
padre… era un comandante di navi. Veniva da
occidente. Io servivo nella loro casa. Ti ho… ti ho
visto nascere. E quando la loro famiglia venne spazzata via da una congiura… lui… ti affidò a me. Mi
disse di nasconderti… di farti crescere in pace.
Voleva
che tu… avessi una infanzia felice. In previsione di
quello che ti aspettava.»
«Di
che stai parlando?»
«Tuo
padre era speciale. Non era venuto in questo Paese…
solo come mercante… e navigatore. Lui…
aveva una missione. Ma ha fallito. Sua moglie, tua madre, è morta…
e lui… è stato costretto a scappare».
Un
violento colpo di tosse costrinse la donna a fermarsi; fiotti di sangue
colarono dalla sua bocca, e il suo respiro si fece sempre più affannoso.
«Madre!».
Lei
allora, sollevato il braccio, indicò in alto, verso il piccolo altare degli
antenati affisso alla parete; gli oggetti sacri come quello erano l’unica cosa
che persino dei samurai razzatori, a meno che non fossero realmente disperati,
evitavano di toccare, pena una sventura e una sorte terribili per mano degli
dèi che avevano offeso.
Iguro,
poggiata delicatamente la madre sul tatami, si alzò e si avvicinò al tempietto,
sfiorandolo con le mani, quindi guardò di nuovo la donna.
«Rompilo.»
disse lei.
Lui,
dapprincipio, esitò, anch’egli timoroso delle conseguenze di un gesto così
blasfemo, ma poi, dinnanzi allo sguardo d’acciaio della madre, afferrò l’altare
e lo scaraventò a terra con tutta la sua forza, riducendolo in pezzi.
Tra
le schegge di legno, come per magia comparve un oggetto strano; sembrava un
bracciale, un bracciale di cuoio rinforzato e decorato con intarsi d’argento,
uno dei quali raffigurava due asticelle disposte a formare una sorta di
compasso.
Un
oggetto occidentale senza dubbio, opera di un artigiano espertissimo. Attonito,
Iguro lo raccolse, rigirandoselo tra le mani.
«Quell’oggetto… mi fu affidato da tuo padre. Disse di dartelo… quando fossi stato pronto. Non so…
se tu lo sia… ma ormai… il
mio tempo è scaduto».
Un
rantolo di agonia annunciò quelli che erano gli ultimi momenti di vita della
donna.
«Madre!»
disse Iguro tornando da lei
«Voglio
che tu sappia… che io e tuo padre…
ti abbiamo… sempre amato. Amato…
come un figlio. Siamo entrambi immensamente fieri di te.»
«Madre.
Anche io ringrazio il cielo di essere stato vostro figlio. Ma ti prego. Non
morire. Non mi lasciare.»
«Ormai
è giunto il mio momento.» disse, quindi prese Iguro per la collottola «Vai… vai ad Hakuba.»
«Perché?
Cosa c’è ad Hakuba?»
«Il… tuo… destino…».
A quel punto, dopo aver accarezzato brevemente
il volto del figlio accennando un sorriso, Suzue
spirò.
Iguro
ormai non aveva più lacrime per piangere, ma strinse a sé il corpo della madre
con tutte le sue forze e poggiò la fronte sul suo seno, cercando di raccogliere
quel poco di calore che ancora vi albergava.
Poco
dopo, portatala delicatamente all’esterno, la seppellì, proprio accanto a Takemura; il pensiero che i suoi genitori si fossero
ricongiunti lo faceva stare un po’ meglio, ma il dolore era incontenibile, e
con esso la rabbia.
Il
suo primo pensiero era di correre dietro ai bastardi che avevano attaccato il
suo villaggio ed ucciderne quanti più poteva, ma ciò che restava del suo
raziocinio gli diceva che in questo modo avrebbe ottenuto solo di morire
inutilmente.
Dopo
aver rivolto le preghiere di rito, guardò il bracciale trovato nascosto
nell’altare, ora infilato al polso sinistro.
Se
sua madre aveva voluto a tutti i costi che lo avesse, doveva essere qualcosa di
veramente speciale.
Di
colpo, gli tornò in mente quella strana euforia che aveva provato nel mezzo
della battaglia, e gli venne voglia di scoprire cosa ci fosse di tanto
importante ad Hakuba da spingere sua madre a usare le
poche forze che le erano rimaste prima di morire ad invitarlo, quasi con tono
di ordine, ad andarci.
Ciò
che aveva appena sentito era stato per lui come un colpo al cuore.
Ora
si spiegava quel senso di estraneità che lo aveva accompagnato fin da quando
gli riusciva di ricordare, quella consapevolezza di essere diverso che non
riusciva a spiegarsi ma che percepiva come reale.
Chi
era suo padre?
Anche
questo voleva scoprire. La lista delle domande, dei quesiti sulla sua vita,
diventava sempre più lunga, e qualcosa gli diceva che solo ad Hakuba avrebbe trovato le risposte. E poi chissà, poteva
anche darsi che laggiù avrebbe incontrato qualcuno pronto ad insegnargli come
sfruttare quella sorta di istinto guerriero che poco prima si era impadronito
di lui, permettendogli così di aspirare ad ottenere la propria vendetta.
Alzato
lo sguardo, vide un cavallo che pascolava tranquillamente in un cortiletto con
in sella il cadavere di un samurai infilzato alla schiena da un forcone.
Avvicinatosi,
gettò a terra il corpo e calmò l’animale, quindi, salitovi in groppa, lasciò il
villaggio; prima di andarsene, raggiunta la cima di una collinetta, si volse
un’ultima volta a guardare quell’eremo di pace violata in cui era cresciuto, e
che in tutta la vita non aveva mai lasciato, poi, con gli occhi lucidi, gli
volse le spalle, dirigendosi verso l’uscita della valle.
Nagasaki
Settembre
1568
Da quando gli occidentali avevano
incominciato ad insediarsi nel Paese, la città di Nagasaki, il più grande porto
commerciale e militare del sud, era diventata il centro culturale più multietnico
dell’Impero.
Tra
le sue strade non era raro incontrare mercanti, dignitari e religiosi
stranieri, soprattutto europei, e i porti pullulavano di imbarcazioni
occidentali, così grandi e maestose che al confronto anche i più grandi
vascelli locali sembravano barchette da diporto.
Ovunque,
e soprattutto nei quartieri a sud, erano state costruite case, negozi,
magazzini e luoghi di culto occidentali, e non era raro, camminando in quelle
zone, imbattersi in uomini vestiti di nero, sacerdoti come venivano chiamati
dai barbari, che indottrinavano e predicavano i rudimenti e la magnificenza
della propria fede ai passanti.
Le
conversioni a questa nuova religione, il cui simbolo era una croce, si erano
fatte abbastanza numerose negli ultimi anni; correva voce che anche molti
signori locali si fossero convertiti, infatti non era raro vedere le portantine
di alcuni di loro scortate nelle loro uscite ufficiali da quegli uomini in
nero.
Da
quando l’ultimo vicario dell’ordine dei Gesuiti, così si facevano chiamare,
aveva lasciato il Paese, il potere effettivo era gestito da Paolo Miki, un locale convertito; giovane e bello, aveva lunghi
capelli neri, e se non fosse stato per il voto di castità impostogli dal suo
status, con quei suoi tratti gentili e quasi femminei avrebbe fatto strage di
cuori tra nobildonne e principesse di ogni nazione.
Quella
mattina, molto presto, Paolo e alcuni altri sacerdoti avevano lasciato
l’abbazia in cui risiedevano, un vecchio tempio zen riconvertito a chiesa
cristiana, e si erano diretti al porto, dove verso mezzogiorno era approdata
una nave battente bandiera portoghese, ma con sulla prua un’insegna di legno
dipinta di rosso sulla quale erano raffigurate due chiavi incrociate.
I
ponticelli vennero calati, e da uno di essi, tra i primi a sbarcare, scese un
giovane sacerdote dai tratti gentili.
Doveva
avere pressappoco la stessa età di Paolo, tra i ventisette e i trent’anni, ma i
suoi tratti erano chiaramente occidentali; capelli rossicci abbastanza lunghi,
barbetta attorno alla bocca, occhi ambrati grandi e profondi, corporatura
slanciata e robusta.
Paolo
e gli altri piegarono la testa, e lui gli si avvicinò.
«Benvenuto
a Nagasaki, vostra eccellenza Valignano.»
«Voi
siete Paolo Miki, ho ragione?»
«Sì,
vostra eccellenza. Sono il capo dei Gesuiti di questa città.
Se
volete seguirmi, vi accompagnerò all’abbazia».
Il
corteo compì quindi a ritroso il cammino dal porto al convento, e una volta
giuntivi i due religiosi andarono subito ad appartarsi in un angolo tranquillo
del giardino che circondava l’edificio.
Il
nuovo arrivato restò un momento in silenzio a rimirare la perfezione e la
straordinaria bellezza del giardino, un eremo di pace e di assoluta perfezione
gestito con mano sapiente da un piccolo gruppo di esperti giardinieri. Nella
sezione occidentale, un piccolo laghetto a forma di girino ospitava sulla sua
superficie tre piccole isole, collegate tra di loro e con la terraferma da
ponticelli di pietra; lungo le sponde, salici piangenti e alberi di ciliegio
protendevano i loro rami fin oltre il ciglio, e nell’acqua nuotavano stuoli di
pesci dai colori più diversi.
«Che
posto è bellissimo. Mai visto niente di simile.»
«In
questo Paese quella del giardino è a tutti gli effetti un’arte. Il nostro
popolo vi dedica la stessa cura ed attenzione che rivolge alla propria anima.»
«Capisco».
Si
sedettero ad un elegante tavolino di pietra all’ombra di una tettoia di legno,
e poco dopo un confratello venne a portare loro delle tazze di tè con anche dei
curiosi dolcetti composti da tre palline dai vari colori infilzate in uno
stuzzicadenti.
«E
questo?» domandò Valignano
«È
un mocchan dango. Un dolce
di riso. Il colore delle parti è dato dal ripieno.»
«Molto
buono.» commentò l’ospite dopo averlo assaggiato.
In
quella, uno strano tremore scosse l’intero giardino; sembrava provenire
direttamente dal terreno, tanto che Valignano guardò
in basso con un accenno di preoccupazione.
«Dovrete
farci l’abitudine, vostra eccellenza.» disse Paolo dopo aver accennato, non
visto, una risatina «In questo Paese purtroppo la terra è piuttosto bellicosa.»
«Da
quello che ho sentito, mi pare che tutto in questo Paese sia piuttosto
bellicoso».
A
quelle parole Paolo cambiò subito espressione, abbassando lo sguardo.
«Purtroppo,
la situazione in questo momento non è per niente rosea. Giusto pochi giorni fa,
Nobunaga Oda è entrato nella capitale con le sue
truppe e ha preso il controllo della città. Lo shogun è stato ucciso.» quindi
strinse i pugni e digrignò i denti «Avevamo faticato tanto per riuscire a
metterlo al potere, ed è durato meno di sei mesi.»
«Ho
sentito parlare di questo Nobunaga Oda. Sembra stia
creando parecchi problemi.»
«E
non è il solo problema. Purtroppo, da quando il nostro ultimo vicario è
scomparso nel nulla durante il suo viaggio in Cina, gran parte del potere e
dell’influenza che potevamo esercitare in questo Paese è andato disperso.»
«A
quanto pare, non ne siete stato informato.»
«Di
che cosa, vostra eccellenza?»
«Il
nostro confratello, Francesco Saverio, non è scomparso nel nulla. È stato
assassinato.»
«Assassinato!?»
esclamò Paolo quasi balzando in piedi.
Valignano sorseggiò un altro po’ del suo tè.
«Dunque
non sapevate niente. Immagino non si fidassero a sufficienza di voi. Siamo
abbastanza sicuri che gli Assassini abbiano messo radici in questo Paese.»
«Gli
Assassini!? Com’è possibile?»
«L’uomo
che ha ucciso Francesco Saverio era un occidentale, ma viveva in questo Paese.
Anche se siamo riusciti a renderlo inoffensivo, temiamo abbia avuto il tempo di
far nascere una confraternita.
È
questo uno dei motivi per i quali sono stato inviato qui.»
«Ora
che mi sovviene, la vostra fama di cacciatore di Assassini è quasi leggendaria
all’interno dell’ordine. Avete sradicato le confraternite degli Assassini in
tutto l’estremo oriente.»
«Sì.
Ma ho il sentore che qui sarà diverso. Da quanto ho avuto modo di apprendere
nel corso del viaggio, usando i documenti e i rapporti redatti dai miei
predecessori, questo è un Paese particolare. Non solo è perennemente in guerra
con sé stesso da mille anni, ma qui l’arte dell’omicidio e dell’assassinio
furtivo è estremamente diffusa e ben applicata.
Sarà
difficile rintracciare gli Assassini in questo stato di perenne confusione.
Quindi,
come prima cosa, sarà necessario mettere fine a questo caos. A quel punto,
potremo procedere nella nostra ricerca.»
«Mi
rincresce doverglielo dire, ma ci abbiamo già provato. Ma ogni volta che
cerchiamo di portare al potere uno o l’altro signore della guerra, dopo una
manciata di tempo arriva qualcun altro che lo spazza via.
Inoltre,
qui al sud gli occidentali sono visti con una certa benevolenza. Ma il centro
del potere è al nord, ad Honshu. E i nobili di laggiù
non hanno molta simpatia per noi.»
«Compreso… Nobunaga Oda?».
Di
nuovo, Paolo parve nascondere a stento lo sdegno.
«E
pensare che lo chiamavano il Pagliaccio di Owari. Ora
invece non c’è signore o potente in tutto il Paese che non lo tema. Abbiamo
provato a servirci anche di lui. Ma quel maledetto si è preso le nostre
tecnologie, le nostre conoscenze e ci ha mollati, e ora diffida di noi almeno
quanto diffida dei pochi che ancora lo contrastano.»
«Se
ho capito bene, questo Oda Nobunaga è un avversario
pericoloso.»
«Molto
pericoloso. È solo una questione di tempo. Prima o poi l’intero Paese sarà suo.
E a quel punto, le cose per il nostro ordine potrebbero farsi davvero
complicate.»
«Questo
non è detto. In fin dei conti, non siamo venuti qui per estendere il nostro
controllo sul mondo? Molte nazioni e colonie sono già sotto il nostro
controllo. Qui sarà la stessa cosa. A tal proposito, se davvero Nobunaga si appresta a diventare il nuovo signore di questo
Paese, non vedo perché non dovremmo cercare di intrattenere buoni rapporti con
lui.
Se
è davvero così potente, riuscire a farne nuovamente un nostro alleato sarebbe
un’ottima cosa.»
«Perdonate
la franchezza, ma non ci riuscirete. Quell’uomo agisce solo per sé stesso. Non
ha paura di niente, e gli piace dimostrarlo. Ha preso di petto situazioni
davanti alle quali anche il più coraggioso di noi sarebbe fuggito.
La
gente pensa che lui sia un oni?»
«Un
oni?»
«Uno
spirito, un demone. In ogni caso, un essere soprannaturale.»
«In
tal caso.» disse Valignano sorseggiando quanto
restava del suo tè «Tutto quello che dobbiamo fare è trovare un sostituto.
Qualcuno disposto a venire a più miti consigli.» quindi guardò Paolo «Mi hanno
parlato molto bene di voi, Paolo Miki. Al momento
giusto, le vostre abilità e la vostra esperienza sono sicuro potranno tornare
molto utili».
Provincia
di Shinsu
Settembre
1568
Iguro, non essendo mai uscito dai confini
del suo villaggio, non aveva idea di dove si trovasse Hakuba.
Durante
il viaggio, transitando per una piccola cittadina, aveva chiesto informazioni
ad un mercante, ma tutto quello che era stato in grado di scoprire era che il
villaggio si trovava da qualche parte tra le montagne che circondavano Nagano.
Ci
erano volute molte settimane, ma ora sentiva di non essere molto lontano.
In
tutto quel tempo, le ferite avevano avuto modo di guarire, e ora sentiva di
essere tornato, se non in perfetta, quanto meno in buona forma.
Non
avendo con sé né soldi né altro per pagarsi l’alloggio in qualche locanda,
aveva trascorso tutte le sue notti all’addiaccio, in una radura tra i boschi o
lungo il letto di qualche ruscello, al fuoco di un bivacco. Tuttavia, aveva
paura ad addormentarsi, perché se lo faceva le immagini di quel massacro
tornavano a perseguitarlo, risultando più terribili ed insopportabili anche di
quei sogni a cui non era ancora riuscito a trovare un senso.
Rivedeva
i suoi genitori, i loro volti tumefatti e devastati dal dolore, i suoi amici
morire ed osservarlo, immobili ed evanescenti come fantasmi, immersi nell’oscurità,
il suo villaggio cadere in macerie e popolarsi di spettri.
Durante
il viaggio, più di una volta era stato costretto a cambiare direzione per
evitare battaglie sanguinose che vedevano coinvolti gli eserciti di chissà
quali signori della guerra, e più passava il tempo più si rendeva in quali,
pietose condizioni fosse il Paese del quale fino ad ora non aveva conosciuto
che una piccola vallata.
A
metà del ventesimo giorno di marcia, dopo aver attraversato laghi, foreste,
fiumi e montagne, Iguro si era ormai inoltrato di molto nella provincia di Shinsu; tuttavia, nonostante fosse ormai a poche miglia da
Nagano, e per quante persone fermasse per chiedere informazioni, nessuno sapeva
spiegargli con certezza dove si trovasse Hakuba.
Alcuni
addirittura, per la maggior parte contadini che incontrava transitando lungo le
risaie, si rifiutavano di rispondergli, volgendo lo sguardo altrove e
seguitando a lavorare o a camminare.
Finalmente,
una vecchia signora ebbe pietà di lui e della sua espressione smarrita.
«Il
villaggio di Hakuba si trova a nord. Ai piedi del
monte Karamatsu.» poi aggiunse, minacciosa «Ma state
attento. Quello è un luogo infestato dal male, un covo di tagliagole esperti ed
infallibili. Nessuno di quelli che vi si è spinto è mai tornato, inclusi i
samurai.»
«I
samurai? Quali samurai?»
«Quelli
dei Takeda. Questa terra fa parte dei loro domini. Hanno
tentato più volte di sottomettere Hakuba, ma di tutti
gli eserciti che gli sono stati lanciati contro non ce n’è uno che abbia fatto
ritorno.»
«Capisco.
Grazie dell’informazione.»
«Fate
attenzione, giovane. Non vorrei faceste la stessa fine».
Ormai
certo di essere sulla strada giusta Iguro continuò a seguire il sentiero che
stava percorrendo, che in breve lo condusse ai piedi delle montagne che,
secondo le parole della vecchia contadina, circondavano Hakuba.
Nonostante
il sole e il grandioso spettacolo offerto dalle cime, alcune innevate
nonostante l’estate, dai boschi di pini pullulanti di vita e dai torrenti
impetuosi, quel posto emanava davvero un’aura, se non tetra, quantomeno
fortemente mistica. Sapeva quasi di luogo inviolato e inviolabile, dove a
nessuno straniero era consentito l’accesso.
Verso
mezzodì, dopo aver viaggiato per tutta la mattina attraverso il bosco, il
ragazzo uscì finalmente all’aperto, ma i suoi occhi si aprirono su di uno
spettacolo orribile.
Nella
radura, circondato da prati e risaie, stava un piccolo villaggio, per la verità
più uno sparuto agglomerato di povere case; un manipolo di samurai,
probabilmente quanto restava di una di quelle armate di cui aveva parlato la
vecchia signora, lo stava depredando, proprio come era successo con il suo,
razziando tutto quello che trovava e uccidendo chiunque resistesse o tentasse
la fuga, donne e bambini inclusi.
Prima
ancora che Iguro potesse comprendere appieno ciò che stava accadendo o decidere
cosa fare, un gruppetto di samurai che stavano setacciando i boschetti attorno
al villaggio in cerca di superstiti lo notarono, e presero a tirargli addosso
coi loro archi. Il ragazzo spronò il cavallo e si allontanò, riuscendo a
seminarli, ma poco dopo incrociò un gruppo di contadine che disperatamente
cercavano di mettersi in salvo dagli aggressori salendo lungo il crinale che
conduceva alla strada.
Due
di loro, a causa del terreno ripido e del pesante canestro che portavano ancora
sulla schiena, inciamparono, rotolando giù proprio in bocca ai samurai, uno dei
quali si preparò a finirle.
«Fermatevi!»
urlò senza pensarci.
Era
disarmato, senza niente con cui difendere sé stesso o quelle donne, ma
nonostante ciò decise che doveva fare qualcosa e lanciò il cavallo verso di
loro.
D’improvviso,
qualcosa in lui parve risvegliarsi; quello spirito guerriero che già aveva
saggiato nell’attacco al suo villaggio. Di nuovo, tutto parve andare al
rallentatore, e una strana foga si impadronì di lui, assieme alla certezza di
sapere cosa fare.
Il
cavallo saltò giù dalla strada, un salto di parecchi metri, e mentre l’animale
era ancora in volo il ragazzo saltò giù, proprio sopra ai samurai; con un gesto
repentino, inarcò il polso sinistro, e immediatamente dal fondo del bracciale
che portava ancora al braccio sinistro scaturì una lama lunga e sottile,
finemente decorata ed intarsiata.
Come
un dio della morte, piombò sul samurai che stava per uccidere le contadine,
buttandolo a terra e piantandogli la lama nella gola uccidendolo sul colpo. Con
la stessa rapidità, recuperò la spada del nemico appena ucciso e la usò per
trafiggere uno dei suoi compagni, ma l’arma restò incastrata tra le ossa e l’armatura
del morto e dovette lasciarla.
Un
terzo samurai ne approfittò, ma Iguro prima deviò la lancia, quindi la afferrò,
tirò l’aggressore a sé e gli piantò la lama del bracciale dritta in un occhio,
quindi usò l’arma appena conquistata per trafiggere un quarto nemico al
costato.
I
restanti samurai, cinque o sei, cominciarono ad indietreggiare, spaventati da
una tale dimostrazione di forza, e a quel punto ad Iguro bastò uno sguardo di
fuoco per convincerli a cambiare aria.
Altrettanto
fecero le contadine, che corsero via dopo aver brevemente ringraziato il loro
salvatore, e subito dopo, come era già accaduto prima, la foga,
improvvisamente, scomparve, abbandonando Iguro e lasciandogli soltanto un’immensa
stanchezza e un principio di vomito per la vista di come aveva conciato quegli
uomini.
Era
talmente impegnato a sforzarsi per non vomitare da non accorgersi che l’ultimo
samurai che aveva colpito, invece di venire ucciso, era stato solo ferito, per
quanto gravemente. Questi, rialzatosi e afferrata la spada, corse contro al
ragazzo, che ebbe a malapena il tempo di voltarsi.
Un
rimbombo assordante riecheggiò nell’aria, e quando già Iguro stava cominciando
a saggiare il sapore della morte il suo aggressore crollò a terra come spinto
violentemente da una mano invisibile, morto sul colpo.
Attonito,
il ragazzo guardò in alto, verso la strada.
Inginocchiato
a terra, e armato di uno di quei bastoni sputa fuoco del quale Iguro aveva
sentito parlare, stava un giovane uomo, pressappoco sulla trentina, i
lineamenti puliti e il viso molto bello, destinato senza dubbio ad attirare l’attenzione,
uno sguardo sbarazzino e provocatorio stampato in faccia e un’espressione
fiera, sicura di sé.
Dalla
cima della sua arma usciva un fumo grigiastro che emanava un odore
maleodorante, peggiore anche di quello del sangue.
Indossava
una casacca verde con le maniche lunghe, come un mercenario, e sotto di essa
parti di un’armatura, sicuramente sottratta a qualche nemico morto.
Alzatosi
in piedi dalla posizione inginocchiata, l’archibugiere misterioso guardò Iguro,
e come gli cadde l’occhio sul bracciale di cuoio le sue labbra si piegarono in
un sorrisetto divertito.
«Ma
guarda un po’.» disse tra sé e sé.
Sceso
dal crinale si avvicinò al ragazzo, prendendo a squadrarlo da capo a piedi;
Iguro si sentiva un po’ a disagio, anche perché non era certo di potersi fidare
appieno di quel tipo.
«Devo
ammettere che questo è l’ultimo posto in cui mi sarei aspettato di incontrare
un Assassino.»
«Un
Assassino!?» ripeté il ragazzo
«I
tuoi tratti mi sono molto famigliari. Tu devi il figlio del comandante Pinto.»
«Tu
conosci mio padre!?».
Quello,
di nuovo, sorrise.
Poco
dopo, da tutte le direzioni sbucarono decine di uomini vestiti di nero che
lanciatisi sul villaggio fecero strage dei samurai razziatori, uccidendoli o
costringendoli alla fuga; li guidava un uomo spaventoso, un gigante grosso come
una torre che impugnava un’enorme lancia.
Sembravano
degli shinobi, ma avevano qualcosa di strano; la loro
tecnica di lotta era particolare, così come i loro vestiti, una sorta di
tuniche con un lungo cappuccio che copriva loro il volto; inoltre, avevano
tutti al polso sinistro quei bracciali con la lama segreta.
«Ma
chi sei tu?» domandò perplesso e confuso Iguro rivolto al suo salvatore
«Magoichi Saika.» rispose lui
poggiandosi l’arma sulla spalla «Per servirti».