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Sono riuscita ad aggiornare!! E a concludere questa storia! Non lo
credevo possibile, lettore! Un vero miracolo!
Emh… bene, sorvolando sui miei scleri.. buona lettura (ringraziamenti
e cose simili a fine capitolo – perdona la sua lunghezza spropositata, ma non
sono riuscita a dividerlo)
#005 ~ Always remember.
La stanza era satura di un’aria che sarebbe stato
eccessivo definire di tensione, ma che portava con sé una certa elettricità che
stava continuando ad innervosire – se il grado di nervosismo non aveva già
raggiunto il massimo – Nate, che non aveva smesso di camminare su e giù,
controllando continuamente l’orologio, contando i minuti che mancavano alle
cinque sotto lo sguardo lievemente preoccupato di Eric e Nell e quello molto
più indecifrabile di Hetty.
«Ragazzi, che aria che tira! Cosa sono quei musi
lunghi? Non è mica la prima missione del genere che fanno!» esclamò la voce di
Deeks, che entrava in quel momento, alludendo agli agenti che erano già sul
posto nonostante mancasse ancora mezz’ora.
«Signor Deeks!» esclamò sorpresa – e in realtà
neanche tanto – Hetty «Lei dovrebbe essere a riposo, ricoverato in ospedale,
non qui a lavoro»
«Ma io non sono a lavoro» ribatté lui con il
sorrisetto di chi sa già di aver vinto «Se lo fossi, sarei lì con loro» fece
notare, indicando lo schermo sul quale le immagini di tre telecamere – una per
agente – monitoravano perfettamente la situazione «Mi godo lo spettacolo»
concluse indossando auricolare e microfono e fermandosi davanti allo schermo,
accanto a Nate.
Lo psicologo lo sfiorò con un fugace sguardo. In un
istante gli tornarono alla mente le parole che gli aveva rivolto in ospedale e
rabbrividì all’idea che potesse riprendere ora quell’argomento.
Perché tutti si ostinavano a voler capire cosa
provasse, che cosa gli fosse successo? Perché non lo lasciavano semplicemente
cadere giù, impattare con il terreno, magari in modo finalmente risolutivo?
Chiuse gli occhi reprimendo un brivido e prendendo
un respiro cercò di calmarsi per non finire in quel labirinto di pensieri senza
soluzione: non doveva perdere la concentrazione, non in quel momento – stavolta
sarebbe andato tutto bene, doveva.
«Callen, com’è la situazione lì?» chiese, per
rompere quel silenzio che si stava facendo insopportabile.
Dal porto, G si fece scappare un sorriso, scuotendo
lievemente la testa per il tono preoccupato della domanda dello psicologo.
«Qui va tutto bene, tranquillo» lo rassicurò «Sta
calmo, Nate: non è la prima volta che facciamo una cosa simile!» sorrise
ancora.
Dalla sala operativa anche Deeks si lasciò andare ad
un grosso sorriso e poggiò una mano sulla spalla dello psicologo che, però,
sussultò a quell’inaspettato contatto,
lasciando un po’ sorpreso lo stesso poliziotto.
«Non conosciamo il profilo di questi rapitori, non
sappiamo come agiscono: dovete fare massima attenzione» continuò ad ammonirli
Nate, incurante delle precedenti rassicurazioni di G e di quelle che stava
continuando a ripetere.
«Ragazzi, mi spiace interrompere i vostri discorsi,
ma pare che i nostri amici siano arrivati in anticipo» comunicò Kensi che stava
appostata su un container all’entrata del porto. Due vetture, proprio in quel
momento, entrarono con una certa fretta proseguendo dritto e poi svoltando a
destra per fermarsi dopo pochi metri.
«Allora datti da fare!» scherzò Deeks.
L’agente Blye si lasciò
scappare un sorriso ingenuo: era certa che in un modo o nell’altro sarebbe
tornato a lavoro subito. Poi tornò all’azione: corse saltando su svariati
containers per non perdere di vista le macchine e si fermò stesa lungo l’ultimo
di essi osservando con il binocolo gli uomini che stavano scendendo. Anche
Callen e Sam – entrambi a terra – si avvicinarono quanto più possibile,
mantenendo le rispettive distanze ed angolazioni in riferimento ai nuovi
arrivati così che dalla sala operativa avessero una visuale quanto più completa
possibile.
«Accidenti! Più di un quarto d’ora di anticipo!» si
sorprese Sam.
«È proprio questo a preoccuparmi» sospirò Nate con
movimento di nervosismo.
«Ma a te non dava fastidio in ritardo?» scherzò
Kensi.
Il Nate di un tempo, il Nate di sempre avrebbe
sorriso, stando al gioco e magari ribattendo con spirito: era una loro
abitudine quella di sdrammatizzare, alleggerire la tensione che era presente
ogni volta, non contava da quanto facessero quel lavoro.
Lo psicologo, invece, sembrò quasi sbiancare a quel
commento e le braccia, dapprima conserte, scesero con lentezza e quasi
sconforto lungo il corpo, come se avesse perso in una sola volta tutte le
forze.
«Non ha alcun senso, Kensi, non riesci a capirlo?»
sussurrò con la stessa lentezza.
Non capivano, nessuno di loro sembrava capire,
intuire la gravità e la pericolosità, tanto alte in quella situazione. Hetty
gli si avvicinò con passo silenzioso e presenza discreta, facendogli comunque
avvertire il suo calore, la sua presenza, quasi fosse pronta a sostenerlo in
quella sua caduta. Nate l’avvertì chiaramente alla sua destra, mezzo passo
dietro di lui; poteva quasi sfiorarla eppure era distante da lei un abisso. Un
abisso che, improvviso, non aveva visto nascere e che si rifiutava di
rimarginare.
«Ragazzi, anche il signor Robinson è arrivato»
comunicò Callen «Si alza il sipario»
Julian scese dalla sua vettura e camminò verso i
rapitori con rigidezza, quasi a scatti; cercava di tenere lo sguardo fisso
sulle due vetture che aveva davanti, frenando l’istinto che provava a spostare
gli occhi in tutte le direzioni per cercare gli agenti dell’NCIS:
certo,
era stato scettico riguardo all’aiuto che avrebbero potuto dargli, ma ora, di
fronte a quegli uomini, nel pieno dell’azione, si stava rendendo conto che il
loro aiuto sarebbe potuto essere davvero risolutivo.
Da una delle due vetture scese un uomo, carnagione
chiara, alto quanto Sam ma più magro; la telecamera di G ad altezza d’uomo
inquadrò quel volto ordinario, così lontano dal suscitare un qualsiasi sospetto
sulla sua integrità, suscitando l’attenzione dello psicologo. Nate si avvicinò
allo schermo con sguardo penetrante, sua mente analizzò ogni linea, ogni ruga
di quel viso soffermandosi sugli occhi scuri: aveva intuito tutto già dal loro
arrivo in anticipo, ma ora ne aveva avuto la conferma.
«Non sono qui per far del male, loro vogliono solo
quei soldi» sussurrò, quasi come se stesse parlando a se stesso piuttosto che
al gruppo.
«Che intendi?» chiese Deeks aggrottando le
sopracciglia
incuriosito.
«Il fatto che siano arrivati in anticipo, che non
siano che pochi – forse solo due - uomini male armati ed evidentemente
inesperti chiarisce ogni cosa! Ecco perché è tutto anomalo, capite?!»
Gli occhi allarmati e granati dello psicologo
vagarono con inconcludente penetranza sui volti dei colleghi, scontrandosi con
sorda incomprensione e sorpresa per lo scatto.
«Dottor Getz, si calmi e ci spieghi ciò che ha
capito» lo invitò con lieve tensione sul volto Hetty.
«Non sono i soliti criminali, quelli magari già
schedati e recidivi! Questa è gente comune, la famiglia della porta accanto. Se
sono arrivati a questo punto, deve averceli spinti qualcosa di serio: sono i
primi a volere che tutto vada liscio, è una loro priorità tanto quanto nostra»
«E questo è un bene, giusto?» tentò Deeks «Voglio
dire, se sono i primi a volere che tutto finisca bene, i rischi effettivi sono
minori»
«Non necessariamente. Anzi, potrebbe essere il
contrario» ammonì lo psicologo sibillino.
«Nate…» sospirò Callen.
«Non sono esperti, hanno più paura di quanta ne può
avere il signor Robinson. Al momento, concentrati come sono sui soldi e
soprattutto su quello a cui servono, non si rendono conto dei rischi e delle
conseguenze a cui li porterà questo gesto, ma se mai dovesse finire l’effetto
anestetico dell’adrenalina e della necessità e pensassero al dopo, nessuno
potrebbe indovinare le loro mosse future: sarebbe come giocare alla roulette
russa, con tutti i rischi del caso»
«Mi spiace interrompere la lezione, doc, ma qui le
acque si muovono»
Tutti si concentrarono di nuovo sull’azione che in
effetti stava giusto vedendo il momento cruciale dello scambio. Julian,
infatti, aveva appena lanciato la valigetta con i soldi tra le mani dell’uomo
che Nate aveva tanto bene analizzato.
«Mia figlia?!» chiese preoccupato.
L’uomo sembrò quasi non sentirlo, interessato solo
ai soldi che aveva fra le mani: li guardava come si guarda una gemma dal valore
inestimabile, come si guarda un miracolo,
l’ammirazione e la gratitudine che brillavano nei suoi occhi neri, quasi non
esistesse nient’altro al di fuori di quei biglietti verdi.
«Dov’è mia figlia?!» gridò Julian, sempre più
preoccupato.
Solo allora l’uomo parve sentire la richiesta di
Robinson e voltandosi verso le vetture ferme pochi metri dietro di lui fece un
cenno netto con la testa, un comando al quale un altro uomo scese dalla seconda
auto portando con sé la ragazzina evidentemente disorientata e con un cappuccio
nero sulla testa.
«Rose!» la chiamò il padre allo stesso tempo
sollevato e preoccupato, muovendosi verso di lei, ma fu fermato dalla pistola
del primo uomo che gli intimava di mantenere la sua posizione.
«Papà! Papà, dove sei?» fece disperata la piccola,
divincolandosi dalla stretta troppo forte dell’altro uomo.
«Tranquilla piccola, papà è qui: tra poco sarà tutto
finito e torneremo a casa dalla mamma, d’accordo?» la rassicurò Julian da
lontano.
L’ostaggio si mosse lentamente in avanti, sempre
tenuta ben stretta dal rapitore, fino a che quest’ultimo non fu accanto al
compagno che gli mostrò la valigetta con i soldi. Anche il secondo uomo ebbe lo
stesso moto di gioia che aveva precedentemente colto l’altro e solo allora
lasciò la ragazzina con uno spintone che la fece arrivare tra le braccia del
padre. Non appena il signor Robinson poté stringere fra le braccia la figlia,
si voltò verso la propria sinistra guardando Sam che, ancora nascosto dietro il
container gli fece segno di allontanarsi e stare giù. Neanche un istante dopo,
le cose precipitarono freneticamente.
«Fermi, agenti federali!» gridò l’agente Hanna,
quando i civili furono nascosti, ma il suo avviso ricevette come risposta una
scarica di proiettili, intercettati dalla facciata metallica del container
dietro cui Sam si era nuovamente ritirato; solo uno l’aveva preso di striscio
alla spalla, senza però dargli troppe preoccupazioni.
«Sam!» aveva gridato dalla sala operativa lo
psicologo ed anche Eric e Nell avevano avuto un moto di paura guardandosi per
un attimo sconvolti per poi fissare di nuovo lo schermo.
«Tranquillo, doc: è routine» li rassicurò l’agente.
Dall’alto intanto, Kensi sparò un colpo preciso che
prese il secondo uomo alla spalla inchiodandolo a terra.
«Uno è giù!» avvisò, ma non fece in tempo a prendere
l’altro che si era già nascosto fra gli stretti passaggi crearti dalla
disposizione dei containers.
«A quello ci pensiamo noi, Kensi: tu occupati del
ferito» diede disposizioni G, per poi seguire Sam che si era già messo
all’inseguimento dell’uomo.
Correndo dietro i due però, Callen intravide
un’ombra in fuga nella direzione opposta alla sua.
«Sam, ce n’è un altro!» comunicò cominciando ad
inseguirlo «Ci dividiamo: lo prendo io»
«Perfetto» approvò il collega continuando a correre:
la telecamera, posta sull’incavo del collo, sobbalzava trasmettendo un segnale
così traballante che solo a vederlo sembrava avere il mal di mare. Il resto del
team restava in attesa della fine dell’operazione con il fiato sospeso e gli
occhi incollati ai tre riquadri due dei quali erano ancora nel bel mezzo
dell’azione.
Sam cominciava a scocciarsi: per quanto ancora
sarebbe dovuta andare avanti quella corsa prima di poter mettere le manette a
quell’uomo? Ormai lo precedeva solo di qualche passo e poteva sentire il suo
fiato grosso che entrava ed usciva irregolare dai polmoni e i muscoli delle
gambe che resistevano a stento sotto il peso di uno sforzo tanto lungo ed
intenso. Strinse i denti e fece un nuovo scatto in avanti, accelerando con
prepotenza e gettandosi in avanti, sperando che quel balzo fosse finalmente
risolutivo. E in effetti le forti braccia dell’agente si strinsero attorno
all’uomo, le mani si presero in una stretta senza possibilità di fuga e Sam
scaraventò a terra l’uomo con un sospiro di sollievo, mettendogli finalmente le
manette.
«Qui ho concluso, gente» avvisò «tu corri ancora,
G?» chiese poi con un sorrisetto.
«Scherza pure, ma ti faccio presente che ti sei
scelto da inseguire quello meno in forma, mio caro! Il ragazzino è una lepre!»
si lamentò Callen continuando a correre dieto il fuggiasco.
«Tutte scuse!» continuò a prenderlo in giro l’agente
Hanna mentre tirava su l’arrestato che provava ancora a liberarsi
divincolandosi dalla forte presa.
Il ragazzino che correva davanti a G, in effetti,
non aveva più di 18 anni e pareva conoscere molto bene quel posto dal momento
che l’agente, pur essendo veloce, faticava a stargli dietro e seguiva a stento
le improvvise e continue svolte che quello prendeva. E infatti quando Callen
imboccò una nuova strada a sinistra, trovandosi in uno spazio più ampio
lasciato libero dai containers, si accorse di essere solo. Si guardò intorno
incapace di capire come fosse possibile una cosa simile: il ragazzo era
sparito, come risucchiato da un buco nero.
«Dov’è finito? G, l’hai perso?» chiese Nate con
preoccupazione – stavolta forse realmente eccessiva, tanto che l’agente alzò
gli occhi al cielo chiaramente infastidito.
«Tranquillo, doc: ora lo prendo» disse, trattenendo
il tono spazientito che normalmente avrebbe assunto quella frase,
istintivamente rispettoso di una preoccupazione troppo grande per essere
infondata o comunque immotivata.
Estraendo la pistola e togliendo la sicura, Callen
cominciò a perlustrare quello spazio e tutte le sue svolte, in ognuna delle
quali poteva essersi nascosto il ragazzo. Si mosse a destra e poi di nuovo a
destra con circospezione e passo felpato: aveva un brutto presentimento, sentiva
una strana pressione alla bocca dello stomaco, come gli era capitato in poche altre
missioni – tra l’altro di gran lunga più pericolose e complesse di questa.
Mentre prendeva di nuovo la svolta a destra maledisse la paranoia – infondata o
meno non importava – che alla fine lo psicologo era riuscito ad insinuare anche
in lui.
Non avrebbe saputo dire, in seguito, se fosse stato
quell’ultimo pensiero a distrarlo – scusa possibile agli occhi di chiunque, ma per nulla plausibile per chi
lo conosceva – o se, in ogni caso,
sarebbe accaduto comunque. Non aveva fatto che pochi passi dopo la svolta
quando un rumore improvviso attirò la sua attenzione e quasi nello stesso
momento avvertì qualcosa di freddo – il metallo di una pistola – colpirlo
violentemente all’attaccatura fra collo e spalle spezzandogli il fiato e
facendolo cadere in ginocchio.
«Fermo!» gridò la voce spaventata ma ferma del
ragazzo che ora puntava l’arma verso l’agente «Sta fermo e tieni le mani in
alto!»
Dalla sala operativa occhi sconcertati assistettero
al rovesciamento improvviso della situazione attraverso la telecamera e a Nate
parve girare la testa: tutto ciò che aveva temuto e per cui aveva ammonito il
team fino alla noia e allo sfinimento sembrava essersi appena avverato nel più
pericoloso dei modi possibili.
«Sam!» chiamò allarmato e all’agente non servì altro
che quel tono terrorizzato per capire cosa fosse successo.
«Dov’è?!» domandò solo, mentre già correva.
Intanto il ragazzo aveva fatto alzare in piedi uno
stordito G che ora teneva bloccato con una stretta al collo che solo chi
frequentava corsi di corpo a corpo – come poi risultò – poteva essere in grado
di fare con tanta forza e precisione. Così li trovò Sam quando svoltando,
pistola alla mano, riuscì finalmente a raggiungerli.
«Fermo tu!» gridò il ragazzo che il corpo di Callen
copriva quasi interamente «Sta lontano e
abbassa l’arma o giuro che lo ammazzo» minacciò.
L’agente Hanna fu colto alla sprovvista da tanta
determinazione e vedendo che il collega non era del tutto lucido – non
abbastanza per tentare una qualche controffensiva – per il suo bene
indietreggiò alzando le mani, senza, però, lasciare l’arma.
«Ed ora, Nate?» sussurrò.
Attraverso la telecamera dell’ex SEAL,
lo psicologo aveva l’intera situazione sotto gli occhi e vedeva perfettamente
il viso del ragazzo che aveva G in ostaggio. In un istante riuscì a far tornare
regolare e calma la respirazione alterata dall’improvvisa paura e di nuovo si
avvicinò quasi in trance allo schermo finché nel suo campo visivo non ci fu che
quel volto, quegli occhi scuri.
Li conosceva, li conosceva bene. Con loro aveva già sbagliato.
*
Il sangue sparso
a terra gli dà meno nausea dell’ultima volta e se per qualcuno questo potrebbe
considerarsi un progresso, nel suo cuore sa che è solo un passo in più verso un
baratro in cui ha scelto di buttarsi, quello compreso nel pacchetto del
“andiamo in guerra e salviamo il mondo”. Cammina tra i cadaveri, ringraziando
con consapevole egoismo il Cielo per non essere lui quello stesso esanime a
terra, né qualcuno dei suoi e ripone la pistola quasi scarica nella fondina sul
fianco.
«Ottimo lavoro»
si sente dire dal marine che ha coordinato l’irruzione appena conclusasi «Per
quanto alcuni ci siano sfuggiti, questi catturati ci forniranno tutte le
informazioni che ci servono»
Storce il naso
per il diverso concetto di “ottimo lavoro” che ha e il soldato, che ha scorto
quel muto commento, gli si avvicina poggiandogli una mano sulla spalla.
«Ci hai detto tu
di agire, non dimenticarlo. Hai avuto ragione, era il momento giusto: ora non
fare la vittima»
«Ti sbagli, non
sto facendo la vittima. Sono solo un illuso. Hai ragione: è stato un ottimo
lavoro» lo liquida con aria malinconica e voce distante mentre si allontana,
tentando di guadagnare l’uscita.
È a pochi passi
dalla porta di quel grosso casolare, quando qualcosa alla sua sinistra provoca
un lieve fruscio, sottile eppure non troppo da non essere avvertito. L’uomo si
volta e si avvicina a dei barili, dietro i quali scorge con poca difficoltà un
ragazzino che tremante punta i propri grossi occhi nocciola nei suoi e sussulta
stringendo in mano un coltellino. Per qualche istante la scena pare fermarsi,
come una fotografia, gli occhi di uno in quelli dell’altro e milioni di parole
che scorrono mute in quei colori. Poi, il ragazzo si muove, come a volersi colpire
con l’arma, ma l’uomo è più veloce di lui e con uno scatto gli blocca il polso,
disarmandolo in poco tempo.
«Fermo, sta
calmo» prova a rassicuralo, ma gli occhi del ragazzo – che poteva avere massimo
diciotto anni – trasudano paura e disperazione.
L’uomo allora
non trova meglio da fare che stringerlo a sé e accarezzagli la schiena con
dolcezza.
*
Erano gli stessi occhi. La stessa paura, la stessa
disperazione di chi si è infilato in qualcosa più grande di lui, trascinato da
una corrente troppo forte ed ora in balia del terribile oceano.
«Non allontanarti, Sam. Fermati!» ordinò lo
psicologo con improvvisa risoluzione, senza staccare gli occhi da quelli
digitali del ragazzo.
L’ex SEAL
credette di aver sbagliato a sentire.
«Scusa, Nate?» chiese con tono sorpreso, mentre il
nervosismo del rapitore aumentava a vista d’occhio «Ti faccio notare che si sta
innervosendo…»
«Appunto! Non indietreggiare, anzi! Fa uno scatto
improvviso e disarmalo»
Sam sgranò gli occhi: che lo psicologo fosse
improvvisamente impazzito? Che la guerra – o qualunque terribile cose fosse
successa in quei mesi – lo avesse fatto ammattire? Quello che gli stava dicendo
di fare andava contro qualsiasi protocollo o più semplicemente contro il buon
senso che indicava di fare ciò che la persona con pistola ed ostaggio indicava.
«Nate, credimi, non penso sia la cosa più
conveniente da fare. E se sparasse a G?» tentò ancora quello, senza staccare
gli occhi dal ragazzo la cui stretta rischiava di far perdere i sensi
all’agente per assenza di ossigeno.
«Sta lontano, ti ho detto di gettare via la
pistola!» gridò di nuovo il rapitore, lanciando sguardi nervosi in ogni
direzione con evidente paura e confermando i timori di Sam.
«È la sola
cosa da fare ora! L’unica che può tirare Callen fuori da quel casino, devi starmi a sentire! Quel ragazzo è
spaventato, è finito in qualcosa più grande di lui ed ora non vede via
d’uscita. Se riesce a capire cosa lo aspetta, se in un momento di lucidità si
rende conto di quanto sia grande la stupidaggine a cui ha preso parte, potrebbe
perdere quel briciolo di controllo che gli è rimasto e… e Dio solo sa chi
potrebbe andarci di mezzo!»
Nate aveva gridato quelle parole tutte in una volta,
senza prendere fiato, con una necessità che sapeva di disperazione, come se
anche la sua vita dipendesse dall’azione dell’ex SEAL – e forse era così.
Dal canto suo, Sam non sapeva come muoversi, in che
modo agire. Ovvio che riponeva fiducia nelle capacità dello psicologo, eppure
in quella particolare situazione ciò che gli aveva detto di fare sembrava così
assurdo: saltare addosso al rapitore, con G in quelle condizione, poteva essere pericoloso. Se il ragazzo preso
dalla paura avesse premuto il grilletto, colpendo Callen? Non sapeva come
avrebbe reagito: ci era già passato e quella sensazione di vertigini e di vuoto
che aveva provato mentre stringeva a sé il corpo sanguinante del collega era
una delle poche cose che mai, mai
avrebbe voluto riprovare, pur di evitare la quale avrebbe fatto davvero di tutto.
Nate lesse tutti quei pensieri dagli occhi dell’agente Hanna come se ne avesse
parlato ad alta voce: riusciva a capirlo, capiva bene ciò che provava, ma
quello che gli aveva detto di fare era ciò che andava fatto, non c’era altra
soluzione.
«Sam, ti giuro che non si farà male nessuno, ma ti
prego, ti prego, fa come ti ho detto,
ora!» lo scongiurò per l’ennesima volta.
L’ex SEAL
sentiva che se non avesse preso una decisione in quel preciso istante sarebbe
impazzito. Fu allora che l’istinto prevalse su tutto e lo fece agire senza più
pensare. Scattò in avanti, gettandosi sul ragazzo e bloccando la sua arma con
la mano libera puntò la propria pistola alla sua testa fermandolo
definitivamente. Callen si lasciò scappare un sospiro di sollievo accasciandosi
a terra ancora stordito dal colpo e dalla caotica paura della situazione,
mentre Sam prendendo il suo paio di manette arrestava il ragazzo; Kensi, giunta
proprio in quel momento, aiutò poi G a rialzarsi.
Anche dalla sala operativa l’aria carica di
elettricità si era dissolta improvvisa, liberando chi teneva ancora lo sguardo
incollato allo schermo dalla tensione che bloccava ogni movimento. Eric e Nell
si erano dati il cinque quasi avessero rischiato loro la vita o avessero appena
disinnescato una bomba; Hetty aveva rivolto uno sguardo carico di orgoglio come
pochi altri a Nate per l’ottima direttiva data all’agente e per qualche istante
aveva incrociato gli occhi dello psicologo trovandoli lucidi come se
trattenessero le lacrime a stento.
«Ottimo lavoro, doc!» fece con entusiasmo Deeks,
dandogli una pacca sulla spalla, ma questi non ebbe il tempo di replicare – se
mai avesse voluto – perché la stretta inizialmente forte del poliziotto divenne
improvvisamente scialba e fiacca fino a che Nate, voltandosi, non lo vide
reggersi a stento in piedi e fece appena in tempo a prenderlo prima che si
accasciasse a terra privo di sensi.
«Deeks!» gridarono in coro Eric e Nell, mentre lo
psicologo tentava di rianimarlo con leggeri colpetti al viso innaturalmente
pallido, sbottonando i primi bottoni della camicia e i polsini così che la
circolazione non fosse ostacolata da nulla.
«Eric, aiutami ad alzarlo: dobbiamo portarlo subito
in ospedale!» ordinò poi con serietà ed urgenza.
Quando riaprì gli occhi, Deeks fece inizialmente
fatica a mettere a fuoco ciò che lo circondava, abbagliato dalla forte luce che
emanava il neon del soffitto. Li richiuse infastidito e tentò di muoversi
accorgendosi però che qualcosa – probabilmente il sondino nasale e la flebo –
lo ostacolavano; un giramento di testa mise definitivamente fine ad ogni suo
tentativo di alzarsi.
«Ehi, calmo» lo ammonì Sam – o meglio la sua voce alla destra del
poliziotto.
Quando riuscì a tenere gli occhi almeno socchiusi, notò
che nel volto dell’ex SEAL, dietro la solita espressione di simpatica ironia,
c’era un filo di tensione: che Callen stesse male? Eppure una delle ultime cose
che ricordava era proprio G che veniva aiutato a tenersi in piedi da Kensi,
lontano dal rapitore ormai in manette. Cosa era successo?
«E… e G?» chiese con voce roca e stanca.
«Un po’ più a sinistra, Deeks»
Le labbra del poliziotto si dischiusero in un
leggero ma sincero sorriso mentre spostava con lentezza la testa verso la voce
di Callen che scorse alla sua sinistra, quasi ai piedi del letto, con il suo
solito sorrisetto, gli occhi che scintillavano e un grosso cerotto che
sporgeva, bianco, ai due lati del collo. Affianco aveva Nate con la sua ormai
abituale espressione di indecifrabile tristezza, macchiata ora da un timido
sorriso ed Hetty che con aria saggia era visibilmente felice del suo risveglio.
Kensi, invece, era seduta accanto al letto, all’altezza del cuscino, così che
per vederla il poliziotto dovette alzare la testa facendo leva sui gomiti.
Gli occhi sottili della collega sembravano trattenere
qualcosa di oscuro che rendeva torbido il loro castano: c’era paura in quello
sguardo, una paura che aveva la forza di paralizzare e in un attimo Deeks si
chiese quanta avesse dovuto provarne e perché. Avrebbe potuto chiederglielo in
modo diretto, come faceva sempre, ma già gli sembrava di sentire la sua risposta
con tanto di tono offeso: “Che vai a pensare! Ero solo preoccupata per G!”.
Eppure lui lo sapeva che non erano solo per G quegli occhi.
Trasportato da quei pensieri si distese con più tranquillità
sul letto, mantenendo un sorriso pieno di calma e pace nonostante la ferita
continuasse a bruciare.
«I Robinson?» chiese con voce più sciolta.
«Stanno bene. La piccola Rose ha potuto finalmente
riabbracciare sua madre. Non le hanno fatto alcun male: era in ottime
condizioni fisiche, solo un po’ spaventata» lo rassicurò Sam.
«Nate aveva ragione: i suoi rapitori non erano
professionisti» precisò G.
«Cioè?»
«Sono i genitori di una compagna di scuola della
piccola» continuò lo psicologo senza guardare precisamente qualcuno dei
presenti. «Avevano bisogno di soldi: la loro bambina è da tempo malata di
cancro e pare che in Europa ci sia un centro medico specializzato nella cura
della malattia in pazienti tanto giovani. Le banche, però, hanno fatto resistenza
a qualunque tipo di prestito perché il lavoro dei coniugi non assicura la
restituzione della somma; per questo sono ricorsi… ad altre vie. Sapevano che
Rose è una delle poche ragazzine a tornare a scuola a piedi e che quindi
sarebbe stato più facile prenderla; in ogni caso, non hanno mai avuto
intenzioni cattive nei suoi confronti: nelle ore in cui la piccola è stata con
loro le hanno dato tutto ciò che voleva, rassicurandola per di più»
«Che brutta storia» si lasciò scappare con tristezza
il poliziotto «ed ora cosa succederà alla coppia e alla loro bambina?»
«Credo che avranno tutte le attenuanti del caso.
Hanno commesso un crimine, ma erano mossi da esigenze disperate di cui credo
che in giudice terrà conto; alla fine non hanno fatto del male a nessuno»
«E in ogni caso, signor Deeks, non è di questo che
deve preoccuparsi al momento. Lei ha una convalescenza da gestire e le
consiglio di starsene buono per un po’: di rischi, in questi giorni, ne abbiamo
corsi fin troppo»
Durante quelle parole anche lo sguardo di Hetty era
diventato improvvisamente duro, serio: non era un semplice consiglio il suo e
la preoccupazione che scintillava nei suoi occhi rendeva l’ordine ancora più
forte.
«Altrimenti… c’è sempre il vecchio metodo»
intervenne per la prima volta Kensi «lo si ammanetta al letto e fine della
storia» propose.
Il poliziotto la guardò per qualche istante negli
occhi e tanto bastò a distruggere qualsiasi frase dal gusto malizioso gli si
fosse formata nella testa. Ancora una volta la serietà dello sguardo contro cui
era cozzato gli aveva tolto il fiato – ancor più se era quello meraviglioso di
Kensi.
Ora quegli occhi erano solo per lui, non c’erano più
scuse.
Il rumore della porta che si chiudeva riscosse
l’attenzione di tutti, ancora concentrata su Deeks, giusto in tempo per
rendersi conto che Nate era
andato via senza dire nulla. Con uno sguardo Hetty esortò Callen a seguirlo e
questi salutando il resto della squadra con un cenno del capo uscì dalla
stanza. Quando fu in corridoio, però, lo psicologo era già sparito.
Quella notte il vento era quasi assente e l’immensa
distesa del mare se ne stava placida e nera, riflettendo le poche luci delle
stelle e quella più intensa della luna in
fase decrescente.
«È inquietante sentire la tua presenza dietro le spalle,
Callen» sussurrò Nate senza staccare gli occhi dall’oscurità dell’acqua.
Ad alcuni passi di distanza G sorrise abbassando la
testa e muovendosi verso lo psicologo fino ad affiancarlo; poggiò poi le
braccia sulla ringhiera di legno che contornava il balcone della rimessa.
«Sapevi che ero dietro di te da quando sono
arrivato, giusto?» chiese guardandolo senza essere ricambiato.
«Tu invece come facevi a sapere che ero venuto
proprio qui?» controbatté Nate senza rispondere alla prima domanda né guardare il
suo interlocutore.
«Ci conosciamo da anni, ormai! Se tu mi leggi come
un libro aperto, anch’io ho imparato qualcosa su di te.. e un luogo del genere
– con questa calma – è l’ideale quando vuoi ritirarti, lontano da tutto e
tutti. Il che… succede troppo spesso
ultimamente»
A quell’osservazione piena di sottintesi lo
psicologo si destò guardando Callen dritto negli occhi troppo chiari e
brillanti quella notte. Che stesse prendendo l’iniziativa? Che si fosse
scocciato di aspettare come gli altri che fosse lui a fare il primo passo, a
confessare il perché di quel cambiamento tanto radicale? Una parte di lui – non
poté mentire a se stesso – fu sollevata; la restante tremò a quell’idea.
«Non credo ci sia bisogno di farti la domanda
esplicita, Nate» sottolineò l’agente, senza interrompere quello scambio di
sguardi.
«Sai… un tempo avevo paura del mare di notte: avere
questa immensa distesa di acqua scura come unico orizzonte è qualcosa di troppo
grande ed indefinito, da togliere il fiato. Ora, invece, mi rendo conto di
quanto fosse stupida una simile paura, di quanto il mare possa essere
rilassante e tranquillo – anche così – rispetto a tante altre realtà»
«La prima volta che hai provato ad avere un dialogo
con me, a psicoanalizzarmi, mi
dicesti che parlare aiuta» ribatté G e lo psicologo sorrise notando come il
discorso si muovesse con un linguaggio sottinteso e pur spaziando tra argomenti
diversi e senza continuità logica fosse, in realtà, fin troppo chiaro ad
entrambi gli interlocutori.
«Ricordi la prima persona a cui sparando hai tolto
la vita, G?» chiese allora, diretto.
Callen rimase ad osservare i suoi occhi per un po’
prima di rispondere. Non che non lo ricordasse, anzi… si stava solo accertando
che quello fosse davvero l’inizio della spiegazione: in fondo aveva imparato
dal migliore a leggere le intenzioni dagli occhi.
«È stato… è stato molto tempo fa. Non per questo,
però, ho dimenticato il suo volto. Scoprii in seguito che aveva 34 anni – il
suo aspetto ne tradiva qualcuno in meno; alto, bruno, il viso abbronzato dal Sole
e gli occhi grandi e neri come la pece» mentre parlava, lo sguardo di G era
perso in un punto poco più in alto della spalla di Nate, perso nei ricordi
lontani «ho ancora ben chiara anche la semi-automatica che aveva nel nostro
scontro, mentre a me restavano solo due colpi. Quella fu la prima volta in cui
mi trovai davvero a rischio: di solito agivo nell’ombra e per quanto fossero
rischiose le missioni, io ero sempre stato invisibile, come un fantasma.
Dovetti sparare per forza: o io o lui. Fui più veloce» concluse abbassando gli
occhi sul mare sottostante.
«Odio l’odore del sangue. È qualcosa di istintivo:
non riesco a sopportarne neanche più la vista – mi sento male» confessò Nate
con disgusto sul volto «La prima volta che è stata colpa mia sarei voluto
morire. L’avevo messo in conto quando solo partito: sapevo che non ero in gita,
che mi sarei macchiato le mani come tutti gli altri, laggiù… ma avere il sangue
altrui sulle proprie mani, sentire il suo odore metallico e sapere che è solo
colpa tua è un’altra cosa e non si può mettere preventivamente in conto, nessuno può»
Callen lo guardò; i suoi occhi mostravano una
rassegnata paura, paura di se stesso, di ciò che era diventato. Doveva fare
qualcosa.
«Nate, ascoltami: non è cambiato nulla, tu sei la
stessa persona di prima dell’Afghanistan, la stessa persona che aiuta gli altri
a far chiarezza con se stessi e che ha aiutato me quando non avevo un me stesso
con cui confrontarmi. Hai dovuto sparare: è la guerra. Il senso di colpa ed il
tormento passeranno: devi solo darti tempo» e per quanto una simile frase
suonasse superficiale prima nella sua testa, Callen si rese conto di non
trovare altre parole di conforto se non quella stupida speranza.
Lo psicologo lo guardò mentre un sorriso distrutto
si faceva strada sul suo viso improvvisamente pallido.
«Tu non capisci, G: sono già passati! È questo il
punto: tu…tu non hai idea del modo in cui…»
Aveva cominciato a tremare, stringendosi le spalle
con le mani e chiudendo gli occhi, a capo chino. Callen pensò che somigliasse
ad un pulcino bagnato e senza più mamma chioccia a proteggerlo, solo in un
mondo enorme e crudele.
«Comincia daccapo, Nate» lo pregò, prendendolo per
le spalle «Aiutami a capire» ed entrambi potevano rendersi conto che stavano
giocando a ruoli invertiti.
Lo psicologo si sciolse da quella presa e si schiarì
la voce: credeva che quando mai sarebbe giunto a quel fatidico momento,
provando disgusto per se stesso, ogni fibra del suo corpo si sarebbe rifiutata
di parlare; invece, in quel momento sembrava quasi averne voglia. Quanto poteva
essere assurda la natura umana?
«È cominciato tutto circa tre mesi fa – forse più –
quando Hetty mi ha inviato ad Asadabad, al confine con il Pakistan, dove
insieme ad un gruppo di marines dovevo fermare una piccola cellula terroristica
in ascesa – i figli del Sangue. Mi
misi subito a lavoro. Feci ricerche, incontrai informatori e persino esponenti
della piccola criminalità locale – sai sono… ero bravo a passare inosservato. Quando ebbi raccolto tutto il
materiale lo passai ai soldati: avevo scoperto che la cellula si nascondeva in
un complesso di case che credevamo vuote perché inagibili. Sondai il territorio
e presi tutte le dovute precauzioni prima di dare il consenso per l’irruzione,
ma tutt’ora non so in che modo i capi della cellula sapessero del nostro
arrivo…»
«È stato lì che… sì, insomma, che ti hanno sparato?»
lo interruppe Callen, quasi pentendosene.
Nate lo guardò per un istante stupito: aveva parlato
con Hetty? Eppure nei suoi occhi c’era una strana consapevolezza, come se
sapesse da tempo quel particolate ed avesse fatto fatica a tenerselo per se
così a lungo. Sorrise: G, a dispetto delle apparenze, sarebbe potuto diventare
uno psicologo davvero bravo. Aveva quel sesto senso e soprattutto quella sensibilità
che unita all’intuito stavano alla base di un buon lavoro in quel campo.
«No, quelle… quelle risalgono a poco dopo. Nella
prima irruzione, fortunatamente, ci furono solo due feriti lievi fra i marines
e altrettanti fra i terroristi. Il problema fu che della cellula catturammo solo
pochi membri – quelli più giovani ed inesperti o gli ultimi arrivati, che poco
o niente sapevano delle future mosse dei capi. Stavo uscendo dal covo quando
dietro a dei barili, vicino alla porta, scorsi un ragazzino con due grandi
occhi neri e spaventati. Mi guardò per qualche istante, come incantato, poi
prese un coltello e se lo puntò alla gola; se non fossi stato rapido ad agire
sarebbe morto così, davanti a me, ucciso dalle idiozie con cui riempiono la
testa del ragazzini laggiù. Lo portai alla basa con la scusa che poteva
fornirci informazioni, ma le prime due settimane trascorsero in un terrorizzato
silenzio da parte sua e domande a vuoto da parte mia»
«In arabo?» lo interruppe di nuovo G con un mezzo
sorriso.
Chi si fosse chiesto quanta importanza potesse avere
a questo punto una simile domanda, certamente non aveva compreso quanto fosse
alta la tensione di quel triste racconto e come quelle semplici parole avessero
dato la possibilità a Nate di riprendere fiato e smorzare la pressione che man
mano cresceva sempre più.
«Sì, G: in arabo. Lo so parlare bene, sai!» si
difese con tono serio e falsamente indispettito «Fu chiedendogli per l’ennesima
volta, in arabo, il suo nome che un giorno
mi rispose “Tarìq” con tono lieve, quasi un sussurro. Seppi, in seguito, che
aveva da poco compiuto 16 anni e che da qualche mese era entrato in quel gruppo
di terroristi per ordine del padre. Sciogliendosi, notai che Tarìq era un
ragazzo socievole e divertente, stranamente propenso al sorriso, considerata la
sua condizione. Cominciò subito a fidarsi di me, tanto che in poco tempo
eravamo inseparabili: mi chiamava “Rasha”, che per lui significava “fratello
maggiore”. Conosceva perfettamente la città e ben presto si offrì di aiutarmi
nelle missioni di ricognizione, fino a che non riuscimmo a trovare il nuovo
nascondiglio della cellula. Quando lo riferimmo ai soldati, Tarìq insistette
perché mandassimo lui: diceva che si sarebbero fidati di un loro fratello e che
ben presto avrebbe scoperto i loro futuri programmi, così da facilitarci
l’arresto. Tra i marines, ardita proposta del ragazzo fu vista come fattibile
benché rischiosa: ero l’unico ad aver bollato quella follia come tale e
nonostante godessi di rispetto e fossi puntualmente interpellato prima di
simili decisioni, stavolta gli altri – compreso Tarìq – vedevano la mia
ostilità come uno scrupolo inutile e anzi controproducente. Io…io non so a cosa
stessi pensando quando, alla fine, cedetti alle insistenti richieste ed
autorizzai la cosa: Tarìq mi rassicurò, dicendomi che non avrebbe fatto cosa
azzardate – come se quello non fosse un azzardo – e che si sarebbe fatto
sentire con regolarità. Da quel giorno non lo vidi più. Si metteva in contatto
con noi ogni giorno ad un ora precisa, lasciando dei biglietti in un luogo
stabilito e le cose parvero andare bene per i primi dieci giorni. All’improvviso
il silenzio. Attendemmo un giorno, due, tre, poi fu il panico: che qualcosa non
andasse era evidente, tuttavia c’era la possibilità che fosse solo una prova e
che facendo irruzione avremmo compromesso tutto e questo ci paralizzava. Al
quinto giorno di silenzio autorizzai l’irruzione. Mai avrei immaginato quello
che trovammo. Nel covo non c’era nessuno; solo, al centro della stanza, Tarìq
era riverso in una pozza di sangue, agonizzante. Il suo corpo aveva subito
torture di ogni sorta e quando lo presi tra le braccia riuscì solo a sussurrare
uno spento “scusa, Rasha”, prima di morire. Tuttora non so quali siano stati i
sentimenti che mi presero in quel momento, ma credo che chiamarli morte non sia sbagliato. Stordito
com’ero non mi accorsi che eravamo tutti vittima di un’imboscata e quando mi
resi conto dei proiettili che volavano ovunque era troppo tardi: due di essi mi
presero alla spalla e al fianco e persi conoscenza, rischiando seriamente di
morire. Lottai fra la vita e la morte per due settimane. Quando mi svegliai,
mandai subito un breve messaggio ad Hetty per informarla della nuova situazione
e mi decisi ad agire in prima persona: la morte di Tarìq era colpa mia, io lo
avevo mandato lì dentro e stava a me trovare i suoi assassini. Forzai la
guarigione ed in breve fui di nuovo in piedi. Di tutto quello che feci, però,
in quei giorni di ricerca, ho solo ricordi confusi: quello che non dimenticherò
mai è ciò che ho provato. Trovarli era diventato un’ossessione, l’unica cosa
che mi tenesse in piedi, come se alla fine di quella caccia Tarìq sarebbe
tornato. Non dormivo, non mangiavo – alle volte sono svenuto per inedia; non mi
sono mai fermato, neanche per un istante, finché non li ho trovati, a miglia di
distanza da Asadabad e da Kabul, al sicuro – o almeno così credevano…»
Il respiro di Nate si era fatto pesante ed
irregolare, il racconto aveva acquisito una foga simile a quella descritta,
come se parlandone lo psicologo stesse rivivendo quei momenti, ripercorrendo
passo dopo passo ogni azione istintiva, ogni momento di ossessiva ricerca fino
alla svolta finale.
«Avvertii la squadra di marines più vicina al covo
senza alcun motivo pratico: entrai da solo. Furono sorpresi di vedermi: mi
credevano morto il giorno dell’imboscata, con Tarìq. Invece ero lì, anche per
lui. Non hai idea di come ho lottato, dello sguardo con cui ho sparato: non
provavo nulla, nulla se non un gran senso di pace, di gioia… era la vendetta
che avevo cercato per tutto quel tempo ed ora si stava compiendo davanti ai
miei occhi soddisfatti. Furono i marines che avevo avvertito a fermare
quella…quella carneficina e a farmi rinsavire. Ne avevo uccisi cinque e feriti
tanti altri; i soldati che mi presero in custodia le ore successive, dissero
poi che avevo uno sguardo vuoto e freddo mentre arrestavano i superstiti, come se non fossi lì con
loro. Qualche giorno dopo, quando mi fui ripreso, rividi i membri della cellula
arrestati: mi guardarono come si guarda una macchina di morte, con lo stesso
terrore e la stessa rassegnazione negli occhi. Non passa notte, G, che io non
mi trovi di nuovo di fronte a quegli sguardi o faccia irruzione nel covo
uccidendo tutti, il sangue che sgorga a fiotti dai cadaveri portando via con se
la loro vita e voci che mi ripetono che sono un assassino, che tutte le scuse
del mondo non bastano a giustificare il diritto di giudicare che mi sono
arrogato e che di certo non spetta a nessuno di noi»
Nate sembrava invecchiato di anni dopo quel
racconto, come se il peso di quell’esperienza stesse schiacciando il suo corpo
e la sua anima. G lo fissava senza sapere cosa fare, bloccato da tanto
tormento.
«Ho chiesto ad Hetty di tornare a lavorare qui, lontano
dal campo, per provare a riprendermi, a dimenticare… ma pare non faccia alcuna
differenza il posto in cui mi trovo, se rivedo quei volti in chiunque mi stia
accanto…» sospirò «Vorrei solo dimenticare, G…»
A quella richiesta Callen parve scuotersi dallo
stato di torpore emotivo in cui la confessione dello psicologo lo aveva gettato
e quasi con violenza prese l’amico per le spalle.
«È la cosa più stupida che potessi dire, Nate!
Dimenticare? Sul serio? E poi? Una volta che avrai dimenticato tutto, cosa
farai? Certo, magari starai meglio, ma sarai stupidamente esposto agli stessi
errori che credi di aver già compiuto! Ogni esperienza che facciamo ci insegna
qualcosa e per quanto possa far male, dobbiamo farne tesoro se vogliamo andare
avanti. Hai perso il controllo, hai ceduto a sentimenti irrazionali che ti
hanno guidato ad azioni discutibili. Bene. Ora hai intenzione di estraniarti e
non provarne più per tutto il testo della tua vita? Ti rendi conto da solo che
è un proposito stupido oltre che impossibile, vero?»
«E trovarsi di nuovo in una simile situazione,
invece, sarebbe più saggio? Prima di tutto questo sapevo quanto i sentimenti
potessero condizionare le azioni di un uomo – praticamente ogni cosa che
facciamo dipende da essi – e per questa cosa li ammiravo – e non fare quella
faccia, Callen, hai capito che intendo. Ora ne ho paura! E… e la cosa più
assurda è che, nonostante tutto, continuo a sbagliare! Oggi, quando quel
ragazzo ti ha preso in ostaggio, ho convinto Sam ad agire come dicevo facendo
leva sua fiducia in me, senza dargli alcuna garanzia, con il rischio di perdere
tutto»
«Ma è così con tutto, Nate! Per ogni sentimento che
proviamo, ogni volta che ci mettiamo in gioco, c’è un’alta dose di rischio!
Eppure… è proprio questo che rende tanto belli i legami che ognuno stabilisce
con l’altro. Non… non dovrei essere io a spiegarti certe cose…» sorrise G
imbarazzato.
Lo psicologo aveva di nuovo gli occhi lucidi, ma
stavolta il sorriso che allargava le sue labbra era sincero ed il dolore che
provava sembrava essersi alleviato – anche solo di un po’. Con un gesto
inconsueto, strinse a sé Callen ringraziandolo, e questo, sorpreso, ricambiò il
suo gesto, per poi lasciarlo di fronte al mare, più sereno ed in pace con se
stesso di come lo aveva trovato.
Nate respirò a pieni polmoni l’aria salmastra
traendone un dimenticato senso di tranquillità; poi prese il cellulare
scorrendo la rubrica fino al numero di Deeks per scrivergli un messaggio.
Un’ultima lacrima scese ad illuminare il sorriso che
faticava a svanire dalle sue labbra.
“Kensi ha
ragione: tornare è come impattare inevitabilmente contro il suolo, senza
possibilità di evitare lo schianto… Ma io sono stato fortunato: ho degli ottimi
paracadute”
~~~~~~~~~~~~~~
Ebbene?? Quanto fa pena, caro lettore? Per me molto: io ed i finali
non andiamo molto d’accordo – vorrei sempre metterti tutta me stessa,
trasmettere qualcosa in più, ma alla fine esce sempre qualcosa di vagamente e
superficialmente moraleggiante ._____.
Ad ogni modo, devo ringraziarvi tutti per la vostra attenzione. In
particolare: Taila, Bellis,
Tinta87, Misato85, e fange69 per
aver recensito; Charlie_Winchester, Maia in Wonderland,
Rose e Sharel
per aver seguito.
Forse pubblicherò altro, quindi a presto (UwU)
Un bacio.
Alchimista ~ ♥