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Autore: Alchimista    20/06/2011    2 recensioni
Quando entrò nell’enorme stanza, che - più specificatamente - era il suo posto di lavoro, uno strano odore invase le sue narici. Si fermò, poggiando un leggero bagaglio a terra e ad occhi socchiusi si perse nel respirare quel profumo che non riusciva ad identificare, né aveva mai sentito.
Sapeva… sapeva di… casa.

Nate torna dall'Afghanistan, dopo una dura missione affidatagli da Hetty e rimasta segreta a tutti. Come l'avrà cambiato quel luogo di guerra? E che effetti avrà tale cambiamento sulla pericolosa missione che il team di Los Angeles si appresta ad affrontare?
Ambientata nella seconda serie, ma non è presente alcuno Spoiler e non occorre averla vista per capire ciò di cui si parla (dato che neanche chi segue la serie sa cosa è successo al povero Nate xD) Buona Lettura!
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sono riuscita ad aggiornare!! E a concludere questa storia! Non lo credevo possibile, lettore! Un vero miracolo!

Emh… bene, sorvolando sui miei scleri.. buona lettura (ringraziamenti e cose simili a fine capitolo – perdona la sua lunghezza spropositata, ma non sono riuscita a dividerlo)

 

 

 

 

 

 

#005 ~ Always remember.

 

La stanza era satura di un’aria che sarebbe stato eccessivo definire di tensione, ma che portava con sé una certa elettricità che stava continuando ad innervosire – se il grado di nervosismo non aveva già raggiunto il massimo – Nate, che non aveva smesso di camminare su e giù, controllando continuamente l’orologio, contando i minuti che mancavano alle cinque sotto lo sguardo lievemente preoccupato di Eric e Nell e quello molto più indecifrabile di Hetty.

«Ragazzi, che aria che tira! Cosa sono quei musi lunghi? Non è mica la prima missione del genere che fanno!» esclamò la voce di Deeks, che entrava in quel momento, alludendo agli agenti che erano già sul posto nonostante mancasse ancora mezz’ora.

«Signor Deeks!» esclamò sorpresa – e in realtà neanche tanto – Hetty «Lei dovrebbe essere a riposo, ricoverato in ospedale, non qui a lavoro»

«Ma io non sono a lavoro» ribatté lui con il sorrisetto di chi sa già di aver vinto «Se lo fossi, sarei lì con loro» fece notare, indicando lo schermo sul quale le immagini di tre telecamere – una per agente – monitoravano perfettamente la situazione «Mi godo lo spettacolo» concluse indossando auricolare e microfono e fermandosi davanti allo schermo, accanto a Nate.

Lo psicologo lo sfiorò con un fugace sguardo. In un istante gli tornarono alla mente le parole che gli aveva rivolto in ospedale e rabbrividì all’idea che potesse riprendere ora quell’argomento.

Perché tutti si ostinavano a voler capire cosa provasse, che cosa gli fosse successo? Perché non lo lasciavano semplicemente cadere giù, impattare con il terreno, magari in modo finalmente risolutivo?

Chiuse gli occhi reprimendo un brivido e prendendo un respiro cercò di calmarsi per non finire in quel labirinto di pensieri senza soluzione: non doveva perdere la concentrazione, non in quel momento – stavolta sarebbe andato tutto bene, doveva.

«Callen, com’è la situazione lì?» chiese, per rompere quel silenzio che si stava facendo insopportabile.

Dal porto, G si fece scappare un sorriso, scuotendo lievemente la testa per il tono preoccupato della domanda dello psicologo.

«Qui va tutto bene, tranquillo» lo rassicurò «Sta calmo, Nate: non è la prima volta che facciamo una cosa simile!» sorrise ancora.

Dalla sala operativa anche Deeks si lasciò andare ad un grosso sorriso e poggiò una mano sulla spalla dello psicologo che, però, sussultò a quell’inaspettato  contatto, lasciando un po’ sorpreso lo stesso poliziotto.

«Non conosciamo il profilo di questi rapitori, non sappiamo come agiscono: dovete fare massima attenzione» continuò ad ammonirli Nate, incurante delle precedenti rassicurazioni di G e di quelle che stava continuando a ripetere.

«Ragazzi, mi spiace interrompere i vostri discorsi, ma pare che i nostri amici siano arrivati in anticipo» comunicò Kensi che stava appostata su un container all’entrata del porto. Due vetture, proprio in quel momento, entrarono con una certa fretta proseguendo dritto e poi svoltando a destra per fermarsi dopo pochi metri.

«Allora datti da fare!» scherzò Deeks.

L’agente Blye si lasciò scappare un sorriso ingenuo: era certa che in un modo o nell’altro sarebbe tornato a lavoro subito. Poi tornò all’azione: corse saltando su svariati containers per non perdere di vista le macchine e si fermò stesa lungo l’ultimo di essi osservando con il binocolo gli uomini che stavano scendendo. Anche Callen e Sam – entrambi a terra – si avvicinarono quanto più possibile, mantenendo le rispettive distanze ed angolazioni in riferimento ai nuovi arrivati così che dalla sala operativa avessero una visuale quanto più completa possibile.

«Accidenti! Più di un quarto d’ora di anticipo!» si sorprese Sam.

«È proprio questo a preoccuparmi» sospirò Nate con movimento di nervosismo.

«Ma a te non dava fastidio in ritardo?» scherzò Kensi. 

Il Nate di un tempo, il Nate di sempre avrebbe sorriso, stando al gioco e magari ribattendo con spirito: era una loro abitudine quella di sdrammatizzare, alleggerire la tensione che era presente ogni volta, non contava da quanto facessero quel lavoro.

Lo psicologo, invece, sembrò quasi sbiancare a quel commento e le braccia, dapprima conserte, scesero con lentezza e quasi sconforto lungo il corpo, come se avesse perso in una sola volta tutte le forze.

«Non ha alcun senso, Kensi, non riesci a capirlo?» sussurrò con la stessa lentezza.

Non capivano, nessuno di loro sembrava capire, intuire la gravità e la pericolosità, tanto alte in quella situazione. Hetty gli si avvicinò con passo silenzioso e presenza discreta, facendogli comunque avvertire il suo calore, la sua presenza, quasi fosse pronta a sostenerlo in quella sua caduta. Nate l’avvertì chiaramente alla sua destra, mezzo passo dietro di lui; poteva quasi sfiorarla eppure era distante da lei un abisso. Un abisso che, improvviso, non aveva visto nascere e che si rifiutava di rimarginare.

«Ragazzi, anche il signor Robinson è arrivato» comunicò Callen «Si alza il sipario»

Julian scese dalla sua vettura e camminò verso i rapitori con rigidezza, quasi a scatti; cercava di tenere lo sguardo fisso sulle due vetture che aveva davanti, frenando l’istinto che provava a spostare gli occhi in tutte le direzioni per cercare gli agenti dell’NCIS: certo, era stato scettico riguardo all’aiuto che avrebbero potuto dargli, ma ora, di fronte a quegli uomini, nel pieno dell’azione, si stava rendendo conto che il loro aiuto sarebbe potuto essere davvero risolutivo.

Da una delle due vetture scese un uomo, carnagione chiara, alto quanto Sam ma più magro; la telecamera di G ad altezza d’uomo inquadrò quel volto ordinario, così lontano dal suscitare un qualsiasi sospetto sulla sua integrità, suscitando l’attenzione dello psicologo. Nate si avvicinò allo schermo con sguardo penetrante, sua mente analizzò ogni linea, ogni ruga di quel viso soffermandosi sugli occhi scuri: aveva intuito tutto già dal loro arrivo in anticipo, ma ora ne aveva avuto la conferma.

«Non sono qui per far del male, loro vogliono solo quei soldi» sussurrò, quasi come se stesse parlando a se stesso piuttosto che al gruppo.

«Che intendi?» chiese Deeks aggrottando le sopracciglia incuriosito.

«Il fatto che siano arrivati in anticipo, che non siano che pochi – forse solo due - uomini male armati ed evidentemente inesperti chiarisce ogni cosa! Ecco perché è tutto anomalo, capite?!»

Gli occhi allarmati e granati dello psicologo vagarono con inconcludente penetranza sui volti dei colleghi, scontrandosi con sorda incomprensione e sorpresa per lo scatto.

«Dottor Getz, si calmi e ci spieghi ciò che ha capito» lo invitò con lieve tensione sul volto Hetty.

«Non sono i soliti criminali, quelli magari già schedati e recidivi! Questa è gente comune, la famiglia della porta accanto. Se sono arrivati a questo punto, deve averceli spinti qualcosa di serio: sono i primi a volere che tutto vada liscio, è una loro priorità tanto quanto nostra»

«E questo è un bene, giusto?» tentò Deeks «Voglio dire, se sono i primi a volere che tutto finisca bene, i rischi effettivi sono minori»

«Non necessariamente. Anzi, potrebbe essere il contrario» ammonì lo psicologo sibillino.

«Nate…» sospirò Callen.

«Non sono esperti, hanno più paura di quanta ne può avere il signor Robinson. Al momento, concentrati come sono sui soldi e soprattutto su quello a cui servono, non si rendono conto dei rischi e delle conseguenze a cui li porterà questo gesto, ma se mai dovesse finire l’effetto anestetico dell’adrenalina e della necessità e pensassero al dopo, nessuno potrebbe indovinare le loro mosse future: sarebbe come giocare alla roulette russa, con tutti i rischi del caso»

«Mi spiace interrompere la lezione, doc, ma qui le acque si muovono»

Tutti si concentrarono di nuovo sull’azione che in effetti stava giusto vedendo il momento cruciale dello scambio. Julian, infatti, aveva appena lanciato la valigetta con i soldi tra le mani dell’uomo che Nate aveva tanto bene analizzato.

«Mia figlia?!» chiese preoccupato.

L’uomo sembrò quasi non sentirlo, interessato solo ai soldi che aveva fra le mani: li guardava come si guarda una gemma dal valore inestimabile, come si guarda un miracolo, l’ammirazione e la gratitudine che brillavano nei suoi occhi neri, quasi non esistesse nient’altro al di fuori di quei biglietti verdi.

«Dov’è mia figlia?!» gridò Julian, sempre più preoccupato.

Solo allora l’uomo parve sentire la richiesta di Robinson e voltandosi verso le vetture ferme pochi metri dietro di lui fece un cenno netto con la testa, un comando al quale un altro uomo scese dalla seconda auto portando con sé la ragazzina evidentemente disorientata e con un cappuccio nero sulla testa.

«Rose!» la chiamò il padre allo stesso tempo sollevato e preoccupato, muovendosi verso di lei, ma fu fermato dalla pistola del primo uomo che gli intimava di mantenere la sua posizione.

«Papà! Papà, dove sei?» fece disperata la piccola, divincolandosi dalla stretta troppo forte dell’altro uomo.

«Tranquilla piccola, papà è qui: tra poco sarà tutto finito e torneremo a casa dalla mamma, d’accordo?» la rassicurò Julian da lontano.

L’ostaggio si mosse lentamente in avanti, sempre tenuta ben stretta dal rapitore, fino a che quest’ultimo non fu accanto al compagno che gli mostrò la valigetta con i soldi. Anche il secondo uomo ebbe lo stesso moto di gioia che aveva precedentemente colto l’altro e solo allora lasciò la ragazzina con uno spintone che la fece arrivare tra le braccia del padre. Non appena il signor Robinson poté stringere fra le braccia la figlia, si voltò verso la propria sinistra guardando Sam che, ancora nascosto dietro il container gli fece segno di allontanarsi e stare giù. Neanche un istante dopo, le cose precipitarono freneticamente.

«Fermi, agenti federali!» gridò l’agente Hanna, quando i civili furono nascosti, ma il suo avviso ricevette come risposta una scarica di proiettili, intercettati dalla facciata metallica del container dietro cui Sam si era nuovamente ritirato; solo uno l’aveva preso di striscio alla spalla, senza però dargli troppe preoccupazioni.

«Sam!» aveva gridato dalla sala operativa lo psicologo ed anche Eric e Nell avevano avuto un moto di paura guardandosi per un attimo sconvolti per poi fissare di nuovo lo schermo.

«Tranquillo, doc: è routine» li rassicurò l’agente.

Dall’alto intanto, Kensi sparò un colpo preciso che prese il secondo uomo alla spalla inchiodandolo a terra.

«Uno è giù!» avvisò, ma non fece in tempo a prendere l’altro che si era già nascosto fra gli stretti passaggi crearti dalla disposizione dei containers.

«A quello ci pensiamo noi, Kensi: tu occupati del ferito» diede disposizioni G, per poi seguire Sam che si era già messo all’inseguimento dell’uomo.

Correndo dietro i due però, Callen intravide un’ombra in fuga nella direzione opposta alla sua.

«Sam, ce n’è un altro!» comunicò cominciando ad inseguirlo «Ci dividiamo: lo prendo io»

«Perfetto» approvò il collega continuando a correre: la telecamera, posta sull’incavo del collo, sobbalzava trasmettendo un segnale così traballante che solo a vederlo sembrava avere il mal di mare. Il resto del team restava in attesa della fine dell’operazione con il fiato sospeso e gli occhi incollati ai tre riquadri due dei quali erano ancora nel bel mezzo dell’azione.

Sam cominciava a scocciarsi: per quanto ancora sarebbe dovuta andare avanti quella corsa prima di poter mettere le manette a quell’uomo? Ormai lo precedeva solo di qualche passo e poteva sentire il suo fiato grosso che entrava ed usciva irregolare dai polmoni e i muscoli delle gambe che resistevano a stento sotto il peso di uno sforzo tanto lungo ed intenso. Strinse i denti e fece un nuovo scatto in avanti, accelerando con prepotenza e gettandosi in avanti, sperando che quel balzo fosse finalmente risolutivo. E in effetti le forti braccia dell’agente si strinsero attorno all’uomo, le mani si presero in una stretta senza possibilità di fuga e Sam scaraventò a terra l’uomo con un sospiro di sollievo, mettendogli finalmente le manette.

«Qui ho concluso, gente» avvisò «tu corri ancora, G?» chiese poi con un sorrisetto.

«Scherza pure, ma ti faccio presente che ti sei scelto da inseguire quello meno in forma, mio caro! Il ragazzino è una lepre!» si lamentò Callen continuando a correre dieto il fuggiasco.

«Tutte scuse!» continuò a prenderlo in giro l’agente Hanna mentre tirava su l’arrestato che provava ancora a liberarsi divincolandosi dalla forte presa.

Il ragazzino che correva davanti a G, in effetti, non aveva più di 18 anni e pareva conoscere molto bene quel posto dal momento che l’agente, pur essendo veloce, faticava a stargli dietro e seguiva a stento le improvvise e continue svolte che quello prendeva. E infatti quando Callen imboccò una nuova strada a sinistra, trovandosi in uno spazio più ampio lasciato libero dai containers, si accorse di essere solo. Si guardò intorno incapace di capire come fosse possibile una cosa simile: il ragazzo era sparito, come risucchiato da un buco nero.

«Dov’è finito? G, l’hai perso?» chiese Nate con preoccupazione – stavolta forse realmente eccessiva, tanto che l’agente alzò gli occhi al cielo chiaramente infastidito.

«Tranquillo, doc: ora lo prendo» disse, trattenendo il tono spazientito che normalmente avrebbe assunto quella frase, istintivamente rispettoso di una preoccupazione troppo grande per essere infondata o comunque immotivata.

Estraendo la pistola e togliendo la sicura, Callen cominciò a perlustrare quello spazio e tutte le sue svolte, in ognuna delle quali poteva essersi nascosto il ragazzo. Si mosse a destra e poi di nuovo a destra con circospezione e passo felpato: aveva un brutto presentimento, sentiva una strana pressione alla bocca dello stomaco, come gli era capitato in poche altre missioni – tra l’altro di gran lunga più pericolose e complesse di questa. Mentre prendeva di nuovo la svolta a destra maledisse la paranoia – infondata o meno non importava – che alla fine lo psicologo era riuscito ad insinuare anche in lui.

Non avrebbe saputo dire, in seguito, se fosse stato quell’ultimo pensiero a distrarlo – scusa possibile agli occhi  di chiunque, ma per nulla plausibile per chi lo conosceva – o se, in  ogni caso, sarebbe accaduto comunque. Non aveva fatto che pochi passi dopo la svolta quando un rumore improvviso attirò la sua attenzione e quasi nello stesso momento avvertì qualcosa di freddo – il metallo di una pistola – colpirlo violentemente all’attaccatura fra collo e spalle spezzandogli il fiato e facendolo cadere in ginocchio.

«Fermo!» gridò la voce spaventata ma ferma del ragazzo che ora puntava l’arma verso l’agente «Sta fermo e tieni le mani in alto!»

Dalla sala operativa occhi sconcertati assistettero al rovesciamento improvviso della situazione attraverso la telecamera e a Nate parve girare la testa: tutto ciò che aveva temuto e per cui aveva ammonito il team fino alla noia e allo sfinimento sembrava essersi appena avverato nel più pericoloso dei modi possibili.

«Sam!» chiamò allarmato e all’agente non servì altro che quel tono terrorizzato per capire cosa fosse successo.

«Dov’è?!» domandò solo, mentre già correva.

Intanto il ragazzo aveva fatto alzare in piedi uno stordito G che ora teneva bloccato con una stretta al collo che solo chi frequentava corsi di corpo a corpo – come poi risultò – poteva essere in grado di fare con tanta forza e precisione. Così li trovò Sam quando svoltando, pistola alla mano, riuscì finalmente a raggiungerli.

«Fermo tu!» gridò il ragazzo che il corpo di Callen copriva quasi interamente «Sta lontano  e abbassa l’arma o giuro che lo ammazzo» minacciò.

L’agente Hanna fu colto alla sprovvista da tanta determinazione e vedendo che il collega non era del tutto lucido – non abbastanza per tentare una qualche controffensiva – per il suo bene indietreggiò alzando le mani, senza, però, lasciare l’arma.

«Ed ora, Nate?» sussurrò.

Attraverso la telecamera dell’ex SEAL, lo psicologo aveva l’intera situazione sotto gli occhi e vedeva perfettamente il viso del ragazzo che aveva G in ostaggio. In un istante riuscì a far tornare regolare e calma la respirazione alterata dall’improvvisa paura e di nuovo si avvicinò quasi in trance allo schermo finché nel suo campo visivo non ci fu che quel volto, quegli occhi scuri.

Li conosceva, li conosceva bene. Con loro aveva già sbagliato.

 

*

Il sangue sparso a terra gli dà meno nausea dell’ultima volta e se per qualcuno questo potrebbe considerarsi un progresso, nel suo cuore sa che è solo un passo in più verso un baratro in cui ha scelto di buttarsi, quello compreso nel pacchetto del “andiamo in guerra e salviamo il mondo”. Cammina tra i cadaveri, ringraziando con consapevole egoismo il Cielo per non essere lui quello stesso esanime a terra, né qualcuno dei suoi e ripone la pistola quasi scarica nella fondina sul fianco.

«Ottimo lavoro» si sente dire dal marine che ha coordinato l’irruzione appena conclusasi «Per quanto alcuni ci siano sfuggiti, questi catturati ci forniranno tutte le informazioni che ci servono»

Storce il naso per il diverso concetto di “ottimo lavoro” che ha e il soldato, che ha scorto quel muto commento, gli si avvicina poggiandogli una mano sulla spalla.

«Ci hai detto tu di agire, non dimenticarlo. Hai avuto ragione, era il momento giusto: ora non fare la vittima»

«Ti sbagli, non sto facendo la vittima. Sono solo un illuso. Hai ragione: è stato un ottimo lavoro» lo liquida con aria malinconica e voce distante mentre si allontana, tentando di guadagnare l’uscita.

È a pochi passi dalla porta di quel grosso casolare, quando qualcosa alla sua sinistra provoca un lieve fruscio, sottile eppure non troppo da non essere avvertito. L’uomo si volta e si avvicina a dei barili, dietro i quali scorge con poca difficoltà un ragazzino che tremante punta i propri grossi occhi nocciola nei suoi e sussulta stringendo in mano un coltellino. Per qualche istante la scena pare fermarsi, come una fotografia, gli occhi di uno in quelli dell’altro e milioni di parole che scorrono mute in quei colori. Poi, il ragazzo si muove, come a volersi colpire con l’arma, ma l’uomo è più veloce di lui e con uno scatto gli blocca il polso, disarmandolo in poco tempo.

«Fermo, sta calmo» prova a rassicuralo, ma gli occhi del ragazzo – che poteva avere massimo diciotto anni – trasudano paura e disperazione.

L’uomo allora non trova meglio da fare che stringerlo a sé e accarezzagli la schiena con dolcezza.

*

 

Erano gli stessi occhi. La stessa paura, la stessa disperazione di chi si è infilato in qualcosa più grande di lui, trascinato da una corrente troppo forte ed ora in balia del terribile oceano.

«Non allontanarti, Sam. Fermati!» ordinò lo psicologo con improvvisa risoluzione, senza staccare gli occhi da quelli digitali del ragazzo.

L’ex SEAL credette di aver sbagliato a sentire.

«Scusa, Nate?» chiese con tono sorpreso, mentre il nervosismo del rapitore aumentava a vista d’occhio «Ti faccio notare che si sta innervosendo…»

«Appunto! Non indietreggiare, anzi! Fa uno scatto improvviso e disarmalo»

Sam sgranò gli occhi: che lo psicologo fosse improvvisamente impazzito? Che la guerra – o qualunque terribile cose fosse successa in quei mesi – lo avesse fatto ammattire? Quello che gli stava dicendo di fare andava contro qualsiasi protocollo o più semplicemente contro il buon senso che indicava di fare ciò che la persona con pistola ed ostaggio indicava.

«Nate, credimi, non penso sia la cosa più conveniente da fare. E se sparasse a G?» tentò ancora quello, senza staccare gli occhi dal ragazzo la cui stretta rischiava di far perdere i sensi all’agente per assenza di ossigeno.

«Sta lontano, ti ho detto di gettare via la pistola!» gridò di nuovo il rapitore, lanciando sguardi nervosi in ogni direzione con evidente paura e confermando i timori di Sam.

«È la sola cosa da fare ora! L’unica che può tirare Callen fuori da quel casino, devi starmi a sentire! Quel ragazzo è spaventato, è finito in qualcosa più grande di lui ed ora non vede via d’uscita. Se riesce a capire cosa lo aspetta, se in un momento di lucidità si rende conto di quanto sia grande la stupidaggine a cui ha preso parte, potrebbe perdere quel briciolo di controllo che gli è rimasto e… e Dio solo sa chi potrebbe andarci di mezzo!»

Nate aveva gridato quelle parole tutte in una volta, senza prendere fiato, con una necessità che sapeva di disperazione, come se anche la sua vita dipendesse dall’azione dell’ex SEAL – e forse era così.

Dal canto suo, Sam non sapeva come muoversi, in che modo agire. Ovvio che riponeva fiducia nelle capacità dello psicologo, eppure in quella particolare situazione ciò che gli aveva detto di fare sembrava così assurdo: saltare addosso al rapitore, con G in quelle condizione,  poteva essere pericoloso. Se il ragazzo preso dalla paura avesse premuto il grilletto, colpendo Callen? Non sapeva come avrebbe reagito: ci era già passato e quella sensazione di vertigini e di vuoto che aveva provato mentre stringeva a sé il corpo sanguinante del collega era una delle poche cose che mai, mai avrebbe voluto riprovare, pur di evitare la quale avrebbe fatto davvero di tutto. Nate lesse tutti quei pensieri dagli occhi dell’agente Hanna come se ne avesse parlato ad alta voce: riusciva a capirlo, capiva bene ciò che provava, ma quello che gli aveva detto di fare era ciò che andava fatto, non c’era altra soluzione.

«Sam, ti giuro che non si farà male nessuno, ma ti prego, ti prego, fa come ti ho detto, ora!» lo scongiurò per l’ennesima volta.

L’ex SEAL sentiva che se non avesse preso una decisione in quel preciso istante sarebbe impazzito. Fu allora che l’istinto prevalse su tutto e lo fece agire senza più pensare. Scattò in avanti, gettandosi sul ragazzo e bloccando la sua arma con la mano libera puntò la propria pistola alla sua testa fermandolo definitivamente. Callen si lasciò scappare un sospiro di sollievo accasciandosi a terra ancora stordito dal colpo e dalla caotica paura della situazione, mentre Sam prendendo il suo paio di manette arrestava il ragazzo; Kensi, giunta proprio in quel momento, aiutò poi G a rialzarsi.

Anche dalla sala operativa l’aria carica di elettricità si era dissolta improvvisa, liberando chi teneva ancora lo sguardo incollato allo schermo dalla tensione che bloccava ogni movimento. Eric e Nell si erano dati il cinque quasi avessero rischiato loro la vita o avessero appena disinnescato una bomba; Hetty aveva rivolto uno sguardo carico di orgoglio come pochi altri a Nate per l’ottima direttiva data all’agente e per qualche istante aveva incrociato gli occhi dello psicologo trovandoli lucidi come se trattenessero le lacrime a stento.

«Ottimo lavoro, doc!» fece con entusiasmo Deeks, dandogli una pacca sulla spalla, ma questi non ebbe il tempo di replicare – se mai avesse voluto – perché la stretta inizialmente forte del poliziotto divenne improvvisamente scialba e fiacca fino a che Nate, voltandosi, non lo vide reggersi a stento in piedi e fece appena in tempo a prenderlo prima che si accasciasse a terra privo di sensi.

«Deeks!» gridarono in coro Eric e Nell, mentre lo psicologo tentava di rianimarlo con leggeri colpetti al viso innaturalmente pallido, sbottonando i primi bottoni della camicia e i polsini così che la circolazione non fosse ostacolata da nulla.

«Eric, aiutami ad alzarlo: dobbiamo portarlo subito in ospedale!» ordinò poi con serietà ed urgenza.

 

Quando riaprì gli occhi, Deeks fece inizialmente fatica a mettere a fuoco ciò che lo circondava, abbagliato dalla forte luce che emanava il neon del soffitto. Li richiuse infastidito e tentò di muoversi accorgendosi però che qualcosa – probabilmente il sondino nasale e la flebo – lo ostacolavano; un giramento di testa mise definitivamente fine ad ogni suo tentativo di alzarsi.

«Ehi, calmo» lo ammonì  Sam – o meglio la sua voce alla destra del poliziotto.

Quando riuscì a tenere gli occhi almeno socchiusi, notò che nel volto dell’ex SEAL, dietro la solita espressione di simpatica ironia, c’era un filo di tensione: che Callen stesse male? Eppure una delle ultime cose che ricordava era proprio G che veniva aiutato a tenersi in piedi da Kensi, lontano dal rapitore ormai in manette. Cosa era successo?

«E… e G?» chiese con voce roca e stanca.

«Un po’ più a sinistra, Deeks»

Le labbra del poliziotto si dischiusero in un leggero ma sincero sorriso mentre spostava con lentezza la testa verso la voce di Callen che scorse alla sua sinistra, quasi ai piedi del letto, con il suo solito sorrisetto, gli occhi che scintillavano e un grosso cerotto che sporgeva, bianco, ai due lati del collo. Affianco aveva Nate con la sua ormai abituale espressione di indecifrabile tristezza, macchiata ora da un timido sorriso ed Hetty che con aria saggia era visibilmente felice del suo risveglio. Kensi, invece, era seduta accanto al letto, all’altezza del cuscino, così che per vederla il poliziotto dovette alzare la testa facendo leva sui gomiti.

Gli occhi sottili della collega sembravano trattenere qualcosa di oscuro che rendeva torbido il loro castano: c’era paura in quello sguardo, una paura che aveva la forza di paralizzare e in un attimo Deeks si chiese quanta avesse dovuto provarne e perché. Avrebbe potuto chiederglielo in modo diretto, come faceva sempre, ma già gli sembrava di sentire la sua risposta con tanto di tono offeso: “Che vai a pensare! Ero solo preoccupata per G!”. Eppure lui lo sapeva che non erano solo per G quegli occhi.

Trasportato da quei pensieri si distese con più tranquillità sul letto, mantenendo un sorriso pieno di calma e pace nonostante la ferita continuasse a bruciare.

«I Robinson?» chiese con voce più sciolta.

«Stanno bene. La piccola Rose ha potuto finalmente riabbracciare sua madre. Non le hanno fatto alcun male: era in ottime condizioni fisiche, solo un po’ spaventata» lo rassicurò Sam.

«Nate aveva ragione: i suoi rapitori non erano professionisti» precisò G.

«Cioè?»

«Sono i genitori di una compagna di scuola della piccola» continuò lo psicologo senza guardare precisamente qualcuno dei presenti. «Avevano bisogno di soldi: la loro bambina è da tempo malata di cancro e pare che in Europa ci sia un centro medico specializzato nella cura della malattia in pazienti tanto giovani. Le banche, però, hanno fatto resistenza a qualunque tipo di prestito perché il lavoro dei coniugi non assicura la restituzione della somma; per questo sono ricorsi… ad altre vie. Sapevano che Rose è una delle poche ragazzine a tornare a scuola a piedi e che quindi sarebbe stato più facile prenderla; in ogni caso, non hanno mai avuto intenzioni cattive nei suoi confronti: nelle ore in cui la piccola è stata con loro le hanno dato tutto ciò che voleva, rassicurandola per di più»

«Che brutta storia» si lasciò scappare con tristezza il poliziotto «ed ora cosa succederà alla coppia e alla loro bambina?»

«Credo che avranno tutte le attenuanti del caso. Hanno commesso un crimine, ma erano mossi da esigenze disperate di cui credo che in giudice terrà conto; alla fine non hanno fatto del male a nessuno»

«E in ogni caso, signor Deeks, non è di questo che deve preoccuparsi al momento. Lei ha una convalescenza da gestire e le consiglio di starsene buono per un po’: di rischi, in questi giorni, ne abbiamo corsi fin troppo»

Durante quelle parole anche lo sguardo di Hetty era diventato improvvisamente duro, serio: non era un semplice consiglio il suo e la preoccupazione che scintillava nei suoi occhi rendeva l’ordine ancora più forte.

«Altrimenti… c’è sempre il vecchio metodo» intervenne per la prima volta Kensi «lo si ammanetta al letto e fine della storia» propose.

Il poliziotto la guardò per qualche istante negli occhi e tanto bastò a distruggere qualsiasi frase dal gusto malizioso gli si fosse formata nella testa. Ancora una volta la serietà dello sguardo contro cui era cozzato gli aveva tolto il fiato – ancor più se era quello meraviglioso di Kensi.

Ora quegli occhi erano solo per lui, non c’erano più scuse.

Il rumore della porta che si chiudeva riscosse l’attenzione di tutti, ancora concentrata su Deeks, giusto in tempo per rendersi conto             che Nate era andato via senza dire nulla. Con uno sguardo Hetty esortò Callen a seguirlo e questi salutando il resto della squadra con un cenno del capo uscì dalla stanza. Quando fu in corridoio, però, lo psicologo era già sparito.

 

Quella notte il vento era quasi assente e l’immensa distesa del mare se ne stava placida e nera, riflettendo le poche luci delle stelle e quella più intensa della luna in  fase decrescente.

«È inquietante sentire la tua presenza dietro le spalle, Callen» sussurrò Nate senza staccare gli occhi dall’oscurità dell’acqua.

Ad alcuni passi di distanza G sorrise abbassando la testa e muovendosi verso lo psicologo fino ad affiancarlo; poggiò poi le braccia sulla ringhiera di legno che contornava il balcone della rimessa.

«Sapevi che ero dietro di te da quando sono arrivato, giusto?» chiese guardandolo senza essere ricambiato.

«Tu invece come facevi a sapere che ero venuto proprio qui?» controbatté Nate senza rispondere alla prima domanda né guardare il suo interlocutore.

«Ci conosciamo da anni, ormai! Se tu mi leggi come un libro aperto, anch’io ho imparato qualcosa su di te.. e un luogo del genere – con questa calma – è l’ideale quando vuoi ritirarti, lontano da tutto e tutti. Il che… succede troppo spesso ultimamente»

A quell’osservazione piena di sottintesi lo psicologo si destò guardando Callen dritto negli occhi troppo chiari e brillanti quella notte. Che stesse prendendo l’iniziativa? Che si fosse scocciato di aspettare come gli altri che fosse lui a fare il primo passo, a confessare il perché di quel cambiamento tanto radicale? Una parte di lui – non poté mentire a se stesso – fu sollevata; la restante tremò a quell’idea.

«Non credo ci sia bisogno di farti la domanda esplicita, Nate» sottolineò l’agente, senza interrompere quello scambio di sguardi.

«Sai… un tempo avevo paura del mare di notte: avere questa immensa distesa di acqua scura come unico orizzonte è qualcosa di troppo grande ed indefinito, da togliere il fiato. Ora, invece, mi rendo conto di quanto fosse stupida una simile paura, di quanto il mare possa essere rilassante e tranquillo – anche così – rispetto a tante altre realtà»

«La prima volta che hai provato ad avere un dialogo con me, a psicoanalizzarmi, mi dicesti che parlare aiuta» ribatté G e lo psicologo sorrise notando come il discorso si muovesse con un linguaggio sottinteso e pur spaziando tra argomenti diversi e senza continuità logica fosse, in realtà, fin troppo chiaro ad entrambi gli interlocutori.

«Ricordi la prima persona a cui sparando hai tolto la vita, G?» chiese allora, diretto.

Callen rimase ad osservare i suoi occhi per un po’ prima di rispondere. Non che non lo ricordasse, anzi… si stava solo accertando che quello fosse davvero l’inizio della spiegazione: in fondo aveva imparato dal migliore a leggere le intenzioni dagli occhi.

«È stato… è stato molto tempo fa. Non per questo, però, ho dimenticato il suo volto. Scoprii in seguito che aveva 34 anni – il suo aspetto ne tradiva qualcuno in meno; alto, bruno, il viso abbronzato dal Sole e gli occhi grandi e neri come la pece» mentre parlava, lo sguardo di G era perso in un punto poco più in alto della spalla di Nate, perso nei ricordi lontani «ho ancora ben chiara anche la semi-automatica che aveva nel nostro scontro, mentre a me restavano solo due colpi. Quella fu la prima volta in cui mi trovai davvero a rischio: di solito agivo nell’ombra e per quanto fossero rischiose le missioni, io ero sempre stato invisibile, come un fantasma. Dovetti sparare per forza: o io o lui. Fui più veloce» concluse abbassando gli occhi sul mare sottostante.

«Odio l’odore del sangue. È qualcosa di istintivo: non riesco a sopportarne neanche più la vista – mi sento male» confessò Nate con disgusto sul volto «La prima volta che è stata colpa mia sarei voluto morire. L’avevo messo in conto quando solo partito: sapevo che non ero in gita, che mi sarei macchiato le mani come tutti gli altri, laggiù… ma avere il sangue altrui sulle proprie mani, sentire il suo odore metallico e sapere che è solo colpa tua è un’altra cosa e non si può mettere preventivamente in conto, nessuno può»

Callen lo guardò; i suoi occhi mostravano una rassegnata paura, paura di se stesso, di ciò che era diventato. Doveva fare qualcosa.

«Nate, ascoltami: non è cambiato nulla, tu sei la stessa persona di prima dell’Afghanistan, la stessa persona che aiuta gli altri a far chiarezza con se stessi e che ha aiutato me quando non avevo un me stesso con cui confrontarmi. Hai dovuto sparare: è la guerra. Il senso di colpa ed il tormento passeranno: devi solo darti tempo» e per quanto una simile frase suonasse superficiale prima nella sua testa, Callen si rese conto di non trovare altre parole di conforto se non quella stupida speranza.

Lo psicologo lo guardò mentre un sorriso distrutto si faceva strada sul suo viso improvvisamente pallido.

«Tu non capisci, G: sono già passati! È questo il punto: tu…tu non hai idea del modo in cui…»

Aveva cominciato a tremare, stringendosi le spalle con le mani e chiudendo gli occhi, a capo chino. Callen pensò che somigliasse ad un pulcino bagnato e senza più mamma chioccia a proteggerlo, solo in un mondo enorme e crudele.

«Comincia daccapo, Nate» lo pregò, prendendolo per le spalle «Aiutami a capire» ed entrambi potevano rendersi conto che stavano giocando a ruoli invertiti.

Lo psicologo si sciolse da quella presa e si schiarì la voce: credeva che quando mai sarebbe giunto a quel fatidico momento, provando disgusto per se stesso, ogni fibra del suo corpo si sarebbe rifiutata di parlare; invece, in quel momento sembrava quasi averne voglia. Quanto poteva essere assurda la natura umana?

«È cominciato tutto circa tre mesi fa – forse più – quando Hetty mi ha inviato ad Asadabad, al confine con il Pakistan, dove insieme ad un gruppo di marines dovevo fermare una piccola cellula terroristica in ascesa – i figli del Sangue. Mi misi subito a lavoro. Feci ricerche, incontrai informatori e persino esponenti della piccola criminalità locale – sai sono… ero bravo a passare inosservato. Quando ebbi raccolto tutto il materiale lo passai ai soldati: avevo scoperto che la cellula si nascondeva in un complesso di case che credevamo vuote perché inagibili. Sondai il territorio e presi tutte le dovute precauzioni prima di dare il consenso per l’irruzione, ma tutt’ora non so in che modo i capi della cellula sapessero del nostro arrivo…»

«È stato lì che… sì, insomma, che ti hanno sparato?» lo interruppe Callen, quasi pentendosene.

Nate lo guardò per un istante stupito: aveva parlato con Hetty? Eppure nei suoi occhi c’era una strana consapevolezza, come se sapesse da tempo quel particolate ed avesse fatto fatica a tenerselo per se così a lungo. Sorrise: G, a dispetto delle apparenze, sarebbe potuto diventare uno psicologo davvero bravo. Aveva quel sesto senso e soprattutto quella sensibilità che unita all’intuito stavano alla base di un buon lavoro in quel campo.

«No, quelle… quelle risalgono a poco dopo. Nella prima irruzione, fortunatamente, ci furono solo due feriti lievi fra i marines e altrettanti fra i terroristi. Il problema fu che della cellula catturammo solo pochi membri – quelli più giovani ed inesperti o gli ultimi arrivati, che poco o niente sapevano delle future mosse dei capi. Stavo uscendo dal covo quando dietro a dei barili, vicino alla porta, scorsi un ragazzino con due grandi occhi neri e spaventati. Mi guardò per qualche istante, come incantato, poi prese un coltello e se lo puntò alla gola; se non fossi stato rapido ad agire sarebbe morto così, davanti a me, ucciso dalle idiozie con cui riempiono la testa del ragazzini laggiù. Lo portai alla basa con la scusa che poteva fornirci informazioni, ma le prime due settimane trascorsero in un terrorizzato silenzio da parte sua e domande a vuoto da parte mia»

«In arabo?» lo interruppe di nuovo G con un mezzo sorriso.

Chi si fosse chiesto quanta importanza potesse avere a questo punto una simile domanda, certamente non aveva compreso quanto fosse alta la tensione di quel triste racconto e come quelle semplici parole avessero dato la possibilità a Nate di riprendere fiato e smorzare la pressione che man mano cresceva sempre più.

«Sì, G: in arabo. Lo so parlare bene, sai!» si difese con tono serio e falsamente indispettito «Fu chiedendogli per l’ennesima volta, in arabo, il suo nome che un giorno mi rispose “Tarìq” con tono lieve, quasi un sussurro. Seppi, in seguito, che aveva da poco compiuto 16 anni e che da qualche mese era entrato in quel gruppo di terroristi per ordine del padre. Sciogliendosi, notai che Tarìq era un ragazzo socievole e divertente, stranamente propenso al sorriso, considerata la sua condizione. Cominciò subito a fidarsi di me, tanto che in poco tempo eravamo inseparabili: mi chiamava “Rasha”, che per lui significava “fratello maggiore”. Conosceva perfettamente la città e ben presto si offrì di aiutarmi nelle missioni di ricognizione, fino a che non riuscimmo a trovare il nuovo nascondiglio della cellula. Quando lo riferimmo ai soldati, Tarìq insistette perché mandassimo lui: diceva che si sarebbero fidati di un loro fratello e che ben presto avrebbe scoperto i loro futuri programmi, così da facilitarci l’arresto. Tra i marines, ardita proposta del ragazzo fu vista come fattibile benché rischiosa: ero l’unico ad aver bollato quella follia come tale e nonostante godessi di rispetto e fossi puntualmente interpellato prima di simili decisioni, stavolta gli altri – compreso Tarìq – vedevano la mia ostilità come uno scrupolo inutile e anzi controproducente. Io…io non so a cosa stessi pensando quando, alla fine, cedetti alle insistenti richieste ed autorizzai la cosa: Tarìq mi rassicurò, dicendomi che non avrebbe fatto cosa azzardate – come se quello non fosse un azzardo – e che si sarebbe fatto sentire con regolarità. Da quel giorno non lo vidi più. Si metteva in contatto con noi ogni giorno ad un ora precisa, lasciando dei biglietti in un luogo stabilito e le cose parvero andare bene per i primi dieci giorni. All’improvviso il silenzio. Attendemmo un giorno, due, tre, poi fu il panico: che qualcosa non andasse era evidente, tuttavia c’era la possibilità che fosse solo una prova e che facendo irruzione avremmo compromesso tutto e questo ci paralizzava. Al quinto giorno di silenzio autorizzai l’irruzione. Mai avrei immaginato quello che trovammo. Nel covo non c’era nessuno; solo, al centro della stanza, Tarìq era riverso in una pozza di sangue, agonizzante. Il suo corpo aveva subito torture di ogni sorta e quando lo presi tra le braccia riuscì solo a sussurrare uno spento “scusa, Rasha”, prima di morire. Tuttora non so quali siano stati i sentimenti che mi presero in quel momento, ma credo che chiamarli morte non sia sbagliato. Stordito com’ero non mi accorsi che eravamo tutti vittima di un’imboscata e quando mi resi conto dei proiettili che volavano ovunque era troppo tardi: due di essi mi presero alla spalla e al fianco e persi conoscenza, rischiando seriamente di morire. Lottai fra la vita e la morte per due settimane. Quando mi svegliai, mandai subito un breve messaggio ad Hetty per informarla della nuova situazione e mi decisi ad agire in prima persona: la morte di Tarìq era colpa mia, io lo avevo mandato lì dentro e stava a me trovare i suoi assassini. Forzai la guarigione ed in breve fui di nuovo in piedi. Di tutto quello che feci, però, in quei giorni di ricerca, ho solo ricordi confusi: quello che non dimenticherò mai è ciò che ho provato. Trovarli era diventato un’ossessione, l’unica cosa che mi tenesse in piedi, come se alla fine di quella caccia Tarìq sarebbe tornato. Non dormivo, non mangiavo – alle volte sono svenuto per inedia; non mi sono mai fermato, neanche per un istante, finché non li ho trovati, a miglia di distanza da Asadabad e da Kabul, al sicuro – o almeno così credevano…»        

Il respiro di Nate si era fatto pesante ed irregolare, il racconto aveva acquisito una foga simile a quella descritta, come se parlandone lo psicologo stesse rivivendo quei momenti, ripercorrendo passo dopo passo ogni azione istintiva, ogni momento di ossessiva ricerca fino alla svolta finale.

«Avvertii la squadra di marines più vicina al covo senza alcun motivo pratico: entrai da solo. Furono sorpresi di vedermi: mi credevano morto il giorno dell’imboscata, con Tarìq. Invece ero lì, anche per lui. Non hai idea di come ho lottato, dello sguardo con cui ho sparato: non provavo nulla, nulla se non un gran senso di pace, di gioia… era la vendetta che avevo cercato per tutto quel tempo ed ora si stava compiendo davanti ai miei occhi soddisfatti. Furono i marines che avevo avvertito a fermare quella…quella carneficina e a farmi rinsavire. Ne avevo uccisi cinque e feriti tanti altri; i soldati che mi presero in custodia le ore successive, dissero poi che avevo uno sguardo vuoto e freddo mentre arrestavano i superstiti, come se non fossi lì con loro. Qualche giorno dopo, quando mi fui ripreso, rividi i membri della cellula arrestati: mi guardarono come si guarda una macchina di morte, con lo stesso terrore e la stessa rassegnazione negli occhi. Non passa notte, G, che io non mi trovi di nuovo di fronte a quegli sguardi o faccia irruzione nel covo uccidendo tutti, il sangue che sgorga a fiotti dai cadaveri portando via con se la loro vita e voci che mi ripetono che sono un assassino, che tutte le scuse del mondo non bastano a giustificare il diritto di giudicare che mi sono arrogato e che di certo non spetta a nessuno di noi»

Nate sembrava invecchiato di anni dopo quel racconto, come se il peso di quell’esperienza stesse schiacciando il suo corpo e la sua anima. G lo fissava senza sapere cosa fare, bloccato da tanto tormento.

«Ho chiesto ad Hetty di tornare a lavorare qui, lontano dal campo, per provare a riprendermi, a dimenticare… ma pare non faccia alcuna differenza il posto in cui mi trovo, se rivedo quei volti in chiunque mi stia accanto…» sospirò «Vorrei solo dimenticare, G…»

A quella richiesta Callen parve scuotersi dallo stato di torpore emotivo in cui la confessione dello psicologo lo aveva gettato e quasi con violenza prese l’amico per le spalle.

«È la cosa più stupida che potessi dire, Nate! Dimenticare? Sul serio? E poi? Una volta che avrai dimenticato tutto, cosa farai? Certo, magari starai meglio, ma sarai stupidamente esposto agli stessi errori che credi di aver già compiuto! Ogni esperienza che facciamo ci insegna qualcosa e per quanto possa far male, dobbiamo farne tesoro se vogliamo andare avanti. Hai perso il controllo, hai ceduto a sentimenti irrazionali che ti hanno guidato ad azioni discutibili. Bene. Ora hai intenzione di estraniarti e non provarne più per tutto il testo della tua vita? Ti rendi conto da solo che è un proposito stupido oltre che impossibile, vero?»

«E trovarsi di nuovo in una simile situazione, invece, sarebbe più saggio? Prima di tutto questo sapevo quanto i sentimenti potessero condizionare le azioni di un uomo – praticamente ogni cosa che facciamo dipende da essi – e per questa cosa li ammiravo – e non fare quella faccia, Callen, hai capito che intendo. Ora ne ho paura! E… e la cosa più assurda è che, nonostante tutto, continuo a sbagliare! Oggi, quando quel ragazzo ti ha preso in ostaggio, ho convinto Sam ad agire come dicevo facendo leva sua fiducia in me, senza dargli alcuna garanzia, con il rischio di perdere tutto»

«Ma è così con tutto, Nate! Per ogni sentimento che proviamo, ogni volta che ci mettiamo in gioco, c’è un’alta dose di rischio! Eppure… è proprio questo che rende tanto belli i legami che ognuno stabilisce con l’altro. Non… non dovrei essere io a spiegarti certe cose…» sorrise G imbarazzato.

Lo psicologo aveva di nuovo gli occhi lucidi, ma stavolta il sorriso che allargava le sue labbra era sincero ed il dolore che provava sembrava essersi alleviato – anche solo di un po’. Con un gesto inconsueto, strinse a sé Callen ringraziandolo, e questo, sorpreso, ricambiò il suo gesto, per poi lasciarlo di fronte al mare, più sereno ed in pace con se stesso di come lo aveva trovato.

Nate respirò a pieni polmoni l’aria salmastra traendone un dimenticato senso di tranquillità; poi prese il cellulare scorrendo la rubrica fino al numero di Deeks per scrivergli un messaggio.

Un’ultima lacrima scese ad illuminare il sorriso che faticava a svanire dalle sue labbra.

“Kensi ha ragione: tornare è come impattare inevitabilmente contro il suolo, senza possibilità di evitare lo schianto… Ma io sono stato fortunato: ho degli ottimi paracadute”

 

 

 

 

 

 

 

~~~~~~~~~~~~~~

 

Ebbene?? Quanto fa pena, caro lettore? Per me molto: io ed i finali non andiamo molto d’accordo – vorrei sempre metterti tutta me stessa, trasmettere qualcosa in più, ma alla fine esce sempre qualcosa di vagamente e superficialmente moraleggiante ._____.

Ad ogni modo, devo ringraziarvi tutti per la vostra attenzione. In particolare: Taila, Bellis, Tinta87, Misato85, e fange69 per aver recensito; Charlie_Winchester, Maia in Wonderland, Rose e Sharel per aver seguito.

Forse pubblicherò altro, quindi a presto (UwU)

Un bacio.

 

Alchimista  ~ 

 

   
 
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