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Autore: Lucysmile    28/06/2011    1 recensioni
Sam è una ragazza semplice, che si confonde nella marea di adolescenti della sua città. Presto scoprirà però di essere una ragazza speciale, nata dall'unione di un angelo e un'umana. Sam è quindi una Nephilim, una mezzosangue, e proprio per questa sua "colpa", gli angeli la stanno cercando per ucciderla. Questo compito viene affidato a Chris, un angelo spietato e senza sentimenti, che però grazie alla determinazione di Sam riuscirà a cambiare e non solo. Fedele amico di Sam è Alex, un angelo caduto a causa del suo amore per un'umana e che ora vuole riscattarsi aiutandola. La giovane affronterà tante avventure e verrà a sapere di essere più speciale di quanto credesse, incontrando anche l'amore della sua vita.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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S

tiamo per chiudere. –mi disse la libraia, comparendo dal bancone. Le lanciai uno sguardo confuso e annuii. Misi Romeo e Giulietta nel vano che aveva lasciato nella libreria, e presi Orgoglio e Pregiudizio. Vidi il prezzo sul retro della copertina e mi diressi al bancone. Ci poggiai sopra il libro e cercai quindici dollari nella borsa. Li trovai quasi per miracolo e li misi sul bancone, di fianco al libro. L’anziana libraia mi guardò con uno sguardo bonario, sorridendomi affettuosamente. Ricambiai il sorriso e attesi che registrasse il mio acquisto. Poi mi mise il libro nuovo di zecca nella busta e me la porse. La ringraziai con un sorriso e uscii dalla libreria.                                                 L’aria era rigida, più di quanto mi aspettassi. Le strade erano affollate di persone e automobili e i nuvoloni grigi promettevano pioggia. Mi strinsi la sciarpa color cachi al collo e svoltai l’angolo. Attraversai velocemente le strisce pedonali e corsi vicino alla mia Mustang rosso ruggine. Infilai, con la mano tremante dal freddo la chiave nella serratura e lo sportello si aprì con uno scatto. Mi sedetti veloce sul sedile lacerato e sbattei la portiera. Misi la testa sul manubrio, facendo attenzione a non fare troppo pressione, rischiando di fischiare il clacson davanti a tutti.                                    Avevo fatto tutto: comprare il libro, lavare l’auto, prenotare  una manicure per Gwen e prendere cibo d’asporto. Tutto in regola. Avevo svolto il nuovo il mio compito a dovere. Come sempre, dopotutto.                                                                          Misi la chiave e il motore si accese sbuffando. Io feci lo stesso. Premetti l’acceleratore e misi la seconda. Ruotai il manubrio e mi infilai nella strada.    Il telefono mi vibrò in tasca: Vichy.               -Dimmi. –dissi, controllando che non ci fossero vigili nei dintorni. La voce di Vichy arrivò all’improvviso.                                 -Stasera vieni a dormire da me. Ci facciamo la manicure, la pedicure e poi ci rilassiamo con i Bon Jovi. –mi disse, sprizzando eccitazione. Wow. Non vedevo l’ora. E poi avevo sempre odiato i Bon Jovi. Alzai gli occhi al cielo e svoltai a sinistra.                      –Non lo so, Vic. –dissi, frenando d’improvviso e evitando un tamponamento per un pelo. Lei rise con la sua risatina squillante e mi disse: -Guarda che non te l’ho chiesto.– e chiuse la chiamata. Sbruffai rumorosamente e imprecai sottovoce. Viaggiai per quasi mezz’ora, con la musica a tutto volume e i finestrini sbarrati, nonostante il display sul cruscotto diceva chiaramente che fuori c’erano meno di due gradi. Arrivai a casa che erano quasi le sette. Vivevo con mia cugina nella villa dei miei. Mia madre era sparita quando avevo dieci anni, andandosene con un figo pazzesco che a quel tempo aveva soltanto il doppio della mia età. Non sapevo dove fossero, ma io immaginavo che si fossero sposati a Las Vegas e che ora lui facesse il meccanico e lei l’alcolizzata: era quella l’immagine che avevo davanti. E mio padre era rimasto con me, con una ragazzina di dieci anni a cui nessuno avrebbe potuto spiegare che sua madre era fuggita con un ventenne. E anche se mi diceva frottole del tipo: la mamma è partita per lavoro, lui sapeva meglio di chiunque altro che io sapevo tutto.                       E quando era morto anche lui, avevo sofferto più di quanto se n’era andata mia madre. Forse perché lei non mi aveva mai dimostrato l’affetto che mi aveva dimostrato lui. Mio padre mi ha cresciuta. Certo, crescere con un uomo in casa non è il massimo: nessuno con cui parlare di questioni di cuore, calzini sparsi per tutto il salotto, gonne o minigonne inesistenti, converse come unico modello di scarpe. Ma mi piaceva la mia vita con lui: parlavamo di football, di stelle. Mio padre amava le stelle. Diceva che per lui erano qualcosa di misterioso, di ignoto: nessuno sa cosa ci sia oltre il sistema solare. E lui voleva scoprirlo. Ma quando sei un semplice uomo non puoi decidere niente, puoi soltanto attenerti al copione. E mio padre era morto perché la sua parte nello spettacolo della vita era finita.                                                      E come dicevo, mia cugina si è trasferita a casa mia. Vivevo bene con lei, e pranzavamo quasi ogni giorno con il suo ragazzo, Matt. Ma mi mancava mio padre. Sentivo un vuoto dentro, come quando c’è una parte che ti manca e che non potrà tornare indietro: la tua vita resta uguale, ma qualcosa dentro cambia. Non senti più quel calore, quell’amore; non sai più cosa significhi davvero amore quando la persona che più ami al mondo ti viene sottratta da un momento all’altro. E voler bene non è sinonimo di amare. Amare è quando per una persona daresti la vita, quando non puoi vivere senza di lei. Ed era così che mi sentivo. E non riuscivo ancora a capire come facessi a reggermi ancora in piedi. Forse questo era il mio copione. Forse il destino aveva in serbo per me qualcosa di diverso, magari qualcosa di grande.                    E da quel giorno non ho più amato. Non ho più trovato un motivo per farlo. E questo è tremendo.

 

- Gwen, oggi vado a dormire da Vichy. –dissi, trascrivendo gli ultimi appunti di biologia. Gwen uscì dal bagno asciugandosi i capelli con un asciugamano. Entrò in cucina e mise del latte a bollire. –Mi lasci tutta sola? –scherzò. E se qualcuno mi rapisse? –continuò, sedendosi sull’isola, accanto ai miei libri.                             -Potresti uscire con Matt. –le dissi, come se fosse un’idea che mi era appena entrata in testa. In realtà ci stavo pensando da un po’. -Non sarebbe una cattiva idea, ma il suo turno finisce alle dieci e domani devo alzarmi presto. Non mi piacciono questi fianchi e questi cuscinetti. Da domani comincio a fare jogging. –mi disse, con uno sguardo deciso, e io le sorrisi. Gwen che faceva jogging. Mi sarei divertita a vederla fallire; non aveva mai percorso più di dieci metri a piedi e non faceva altro che mangiare. Nonostante tutto era magra come una sottiletta, e non riuscivo a spiegarmelo in modo razionale. E anche il fatto che si vedesse grassa. -Ci sarà da divertirsi. –dissi, chiudendo il libro. Mi sorrise e annuì. Salii veloce in camera e prepararmi lo zaino, e ci misi dentro un po’ di tutto: libri, creme, smalti, I-pod. Come se dovessi partire per la Florida. Mi misi lo zaino in spalla e scesi veloce le scale. Gwen era già in poltrona, con una tazza fumante di latte bianco in mano e la scena che preferivo di Titanic sul televisore al plasma.                                                                                 -Di nuovo Titanic? –le chiesi, prendendo le chiavi.                      -Lo sai che non smetterei mai di guardarlo. –disse, girandosi verso di me. –Mi raccomando, divertiti da Vichy, ok? –mi disse, con un filo di tensione nella voce.                                                      -Certo. – Ci proverò.                                                                   Aprii la porta d’ingresso e uscii sul vialetto. Pestai per qualche secondo la sterpaglia e le pietruzze che c’erano in giardino e corsi in macchina. Si gelava fuori.                                                      Il telefono squillò e feci una fatica enorme per trovarlo nella borsa: risposi al sesto squillo. –Dimmi Vic. –dissi, con il palmare tra l’orecchio e la spalla. Feci retromarcia e uscii dal giardino.            -Stai arrivando? –mi chiese. C’era un leggero tremolio nella sua voce. -Si, perché? –le chiesi, preoccupata. Mi infilai nella stradina che portava al centro della città e misi la terza.                      -Non so. Non ricordo molto bene. È successo un’oretta fa. –mi disse e sentivo che la sua voce era piuttosto confusa. Si era ubriacata in qualche pub? Dovevo chiederle dove fosse.                      -Dove sei? –                                                                     -Ora sono a casa. Ma... io... ecco, prima sono andata in un pub... –ecco, lo sapevo. Aveva bevuto troppo ed ora non poteva entrare in casa altrimenti sua madre non l’avrebbe più fatta uscire.      -... e ho incontrato un ragazzo... –cosa? L’avevano molestata? Ingranai la quarta e accelerai un po’.                                  -Vic, non essere vaga! Cos’è successo, qualcuno ti ha picchiata? –le chiesi, con la voce e le labbra che tremavano.                   -No, no niente di tutto questo. Io sto bene. Ma, ecco, questo ragazzo mi ha... mi ha chiesto di te... –disse e si bloccò per un istante. –O cavolo, mi fa male la testa, e non ricordo più nemmeno il suo volto, è come se mentre parlassimo mi avesse bendata. -       Forse era stata drogata. Cosa era successo? E chi era questo ragazzo che chiedeva di me?                                                    -Vic, sto arrivando. Non ti muovere, sto arrivando. –le dissi, voltando l’angolo e dirigendomi in periferia.                                 -No! No, ti prego Sam! È già da un po’ che non lo vedo in giro, ma ho paura che ti faccia del male, Sam. Torna a casa ti prego. Non ti chiedo molto, dai. Dormirai da me un altro giorno.-       Cosa? Mi stava dando buca? Anzi, mi stava chiedendo di darle buca. E per cosa? Per un maniaco-pedofilo che forse era solo frutto di una serata passata a bere. Sbuffai, accostai e spensi il motore. –Sam, ti prego ascoltami. Torna a casa. Domani ne parliamo con più calma, ok? –mi chiese, con la voce un po’ più tranquilla. Sospirai e le dissi: -D’accordo, sarà per la prossima volta. Ora va a dormire. Ci vediamo domani. –dissi, e chiusi la chiamata. Dovevo sapere cos’era successo quella sera, e il giorno dopo sarebbe stata la prima cosa che avrei chiesto a Vichy. Girai la testa per alleggerire la tensione dei muscoli e incrociai la scritta luminosa CAFE. Un cappuccino caldo e un krapfen alla crema non avrebbero fatto male a nessuno. Entrai dentro e subito un’ondata d’aria piacevolmente calda m’investì. Andai al bancone e mi sedetti, aspettando che il barman mi dedicasse un po’ attenzione.     -Non è sicuro che una ragazzina come te stia per strada a quest’ora. –disse una voce alle mie spalle. Mi voltai sospettosa e quasi mi spaventai. Un uomo sulla trentina era di fronte a me, sullo sgabello accanto: strano che non lo avessi notato. Aveva un’ispida barba corta e i capelli arruffati e castani. Mi guardai l’orologio con fare teatrale e annuii. –Sono solo le nove di sera. -dissi, con una punta di acidità nella voce.                                      Sorrise divertito e guardò la mia borsa.  –Si, lo so. Ma a quest’ora e in questo quartiere le strade non sono sicure. –continuò, bevendo un sorso di caffè. Annuii e mi voltai. Poteva essere un maniaco o chissà cosa. Meglio non dargli corda. -Non preoccuparti, non voglio farti del male. –disse, fissandomi insistentemente. Cominciavo a sentirmi a disagio.                          -Signorina, vuole che l’aiuti? –mi chiese il barman, lanciando un’occhiataccia al ragazzo che continuava a fissarmi. Doveva avere una quarantina d’anni e aveva l’aspetto bonario. Era calvo e aveva una rosa tatuata sotto l’orecchio sinistro.                               –Si, grazie. –dissi, lanciandogli uno sguardo eloquente. –Vorrei un bicchiere di acqua frizzante. –continuai. La voglia di cappuccino e krapfen era completamente svanita. Il barman mi portò veloce un bicchiere trasparente con dell’acqua dentro, la bevvi tutta d’un sorso e lasciai cinque dollari sul bancone. Un po’ esagerati, ma non avevo voglia di aspettare che il barman mi facesse la ricevuta e mi desse il resto. Non volevo rimanere in quel posto un minuto di più.                                                 Non appena fuori, ripresi a respirare. Svoltai l’angolo e aumentai l’andatura. Faceva freddo e avevo paura. Di cosa non lo sapevo, ma temevo che l’uomo nel bar potesse inseguirmi e... e... sarei dovuta tornare a casa. Forse era lui l’uomo che diceva Vichy, il tizio che chiedeva di me. Ma non lo conoscevo; quella sera lo vidi per la prima volta. Attraversai la strada e feci qualche altro passo. D’un tratto una mano mi afferrò il braccio, cingendolo in una stretta lancinante. Cercai di urlare, ma qualcuno mi tappò la bocca. - Non preoccuparti, non voglio farti del male. –disse. Era l’uomo del bar. Cominciai a respirare affannosamente, mentre l’uomo mi sbatteva contro il muro, con l’avambraccio che pressava sul mio collo. Cosa sarebbe successo? Mi avrebbe aggredito o cercava solo soldi? Mi sentivo svenire, ma non potevo mollare proprio allora. Dovevo combattere. Cercai di liberarmi dalla stretta tagliente dell’uomo, ma il risultato fu scadente. Tentai di tirargli una ginocchiata in mezzo alle gambe, ma il mio ginocchio era attaccato alla sua coscia e non riuscivo a muoverlo. Avevo paura; avevo tanta paura.                                                            E poi successe tutto troppo velocemente. La pressione sul mio collo diminuì, riuscii a divincolarmi dalla stretta ai polsi e mi allontanai dal muro. Un ragazzo alto, slanciato e che non riuscivo a vedere in volto a causa della mancanza di luce, aveva preso il mio aggressore e lo aveva sbattuto contro il muro. Gli aveva tirato un gancio destro così violento che temevo gli avrebbe rotto la mascella, e poi un diretto così pulito da conferirgli il colpo di grazia. L’uomo era a terra, con del sangue che gli usciva dalla bocca. Avevo una serie di immagini confuse in testa che non riuscivo a distinguere, come un film a diapositive che si succedevano una dopo l’altra e di cui non capivo il senso. Un brivido di freddo mi percorse la schiena calda.                                                          -L’hai ucciso? –urlai, portandomi le mani alla bocca. Il cuore mi batteva forte; ma non sapevo se fosse per il grande spavento o altro. Quel ragazzo mi aveva salvata. Lui mi guardò. Non riuscivo a vedere i suoi occhi, ma li immaginai neri, come la notte che ci circondava. Respirava affannosamente; lo capivo dalle spalle che si alzavano e si abbassavano, ed era teso. Avrei voluto chiedergli tante cose. Come si chiamava? Mi aveva salvata, ero in debito con lui.                                                                           -Grazie. –mormorai, guardando l’uomo a terra senza sensi. Lui continuò a fissarmi per non so quanto, forse un minuto, forse cinque, e poi corse via, nel buio. –Aspetta! –urlai. Ma era troppo tardi. Era già sparito.

 

 

 

 

 

 

  
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