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tiamo
per chiudere. –mi disse la libraia, comparendo dal bancone.
Le lanciai uno sguardo confuso e annuii. Misi Romeo
e Giulietta nel vano che aveva lasciato nella libreria, e
presi Orgoglio e Pregiudizio. Vidi
il
prezzo sul retro della copertina e mi diressi al bancone. Ci poggiai
sopra il
libro e cercai quindici dollari nella borsa. Li trovai quasi per
miracolo e li
misi sul bancone, di fianco al libro. L’anziana libraia mi
guardò con uno
sguardo bonario, sorridendomi affettuosamente. Ricambiai il sorriso e
attesi
che registrasse il mio acquisto. Poi mi mise il libro nuovo di zecca
nella
busta e me la porse. La ringraziai con un sorriso e uscii dalla
libreria.
L’aria era rigida, più di quanto mi
aspettassi. Le strade
erano affollate di persone e automobili e i nuvoloni grigi promettevano
pioggia. Mi strinsi la sciarpa color cachi al collo e svoltai
l’angolo.
Attraversai velocemente le strisce pedonali e corsi vicino alla mia
Mustang
rosso ruggine. Infilai, con la mano tremante dal freddo la chiave nella
serratura e lo sportello si aprì con uno scatto. Mi sedetti
veloce sul sedile
lacerato e sbattei la portiera. Misi la testa sul manubrio, facendo
attenzione
a non fare troppo pressione, rischiando di fischiare il clacson davanti
a
tutti.
Avevo fatto tutto: comprare il libro,
lavare l’auto, prenotare
una manicure
per Gwen e prendere cibo d’asporto. Tutto in regola. Avevo
svolto il nuovo il
mio compito a dovere. Come sempre, dopotutto.
Misi
la chiave e il motore si accese sbuffando. Io feci lo stesso. Premetti
l’acceleratore e misi la seconda. Ruotai il manubrio e mi
infilai nella strada.
Il telefono mi vibrò in tasca: Vichy.
-Dimmi. –dissi, controllando che
non ci fossero vigili nei dintorni. La voce di Vichy arrivò
all’improvviso.
-Stasera vieni a dormire da me. Ci
facciamo la manicure, la pedicure e poi ci rilassiamo con i Bon Jovi.
–mi
disse, sprizzando eccitazione. Wow. Non vedevo l’ora. E poi
avevo sempre odiato
i Bon Jovi. Alzai gli occhi al cielo e svoltai a sinistra.
–Non
lo so, Vic. –dissi, frenando d’improvviso e
evitando un tamponamento per un
pelo. Lei rise con la sua risatina squillante e mi disse: -Guarda che
non te
l’ho chiesto.– e chiuse la chiamata. Sbruffai
rumorosamente e imprecai
sottovoce. Viaggiai per quasi mezz’ora, con la musica a tutto
volume e i
finestrini sbarrati, nonostante il display sul cruscotto diceva
chiaramente che
fuori c’erano meno di due gradi. Arrivai a casa che erano
quasi le sette. Vivevo
con mia cugina nella villa dei miei. Mia madre era sparita quando avevo
dieci
anni, andandosene con un figo pazzesco che a quel tempo aveva soltanto
il
doppio della mia età. Non sapevo dove fossero, ma io
immaginavo che si fossero
sposati a Las Vegas e che ora lui facesse il meccanico e lei
l’alcolizzata: era
quella l’immagine che avevo davanti. E mio padre era rimasto
con me, con una
ragazzina di dieci anni a cui nessuno avrebbe potuto spiegare che sua
madre era
fuggita con un ventenne. E anche se mi diceva frottole del tipo: la
mamma è partita
per lavoro, lui sapeva meglio di chiunque altro che io sapevo tutto.
E quando era morto anche
lui, avevo sofferto più di quanto se n’era andata
mia madre. Forse perché lei
non mi aveva mai dimostrato l’affetto che mi aveva dimostrato
lui. Mio padre mi
ha cresciuta. Certo, crescere con un uomo in casa non è il
massimo: nessuno con
cui parlare di questioni di cuore, calzini sparsi per tutto il salotto,
gonne o
minigonne inesistenti, converse come unico modello di scarpe. Ma mi
piaceva la
mia vita con lui: parlavamo di football, di stelle. Mio padre amava le
stelle.
Diceva che per lui erano qualcosa di misterioso, di ignoto: nessuno sa
cosa ci
sia oltre il sistema solare. E lui voleva scoprirlo. Ma quando sei un
semplice
uomo non puoi decidere niente, puoi soltanto attenerti al copione. E
mio padre
era morto perché la sua parte nello spettacolo della vita
era finita.
E
come dicevo, mia cugina si è trasferita a casa mia. Vivevo
bene con lei, e
pranzavamo quasi ogni giorno con il suo ragazzo, Matt. Ma mi mancava
mio padre.
Sentivo un vuoto dentro, come quando c’è una parte
che ti manca e che non potrà
tornare indietro: la tua vita resta uguale, ma qualcosa dentro cambia.
Non
senti più quel calore, quell’amore; non sai
più cosa significhi davvero amore
quando la persona che più ami al mondo ti viene sottratta da
un momento
all’altro. E voler bene non è sinonimo di amare.
Amare è quando per una persona
daresti la vita, quando non puoi vivere senza di lei. Ed era
così che mi
sentivo. E non riuscivo ancora a capire come facessi a reggermi ancora
in
piedi. Forse questo era il mio copione. Forse il destino aveva in serbo
per me
qualcosa di diverso, magari qualcosa di grande.
E da quel giorno non ho più
amato. Non ho più trovato un motivo per farlo. E questo
è tremendo.
-
Gwen, oggi vado a dormire
da Vichy. –dissi, trascrivendo gli ultimi appunti di
biologia. Gwen uscì dal
bagno asciugandosi i capelli con un asciugamano. Entrò in
cucina e mise del
latte a bollire. –Mi lasci tutta sola?
–scherzò. E se qualcuno mi rapisse?
–continuò, sedendosi sull’isola, accanto
ai miei libri.
-Potresti
uscire con Matt. –le dissi, come se fosse un’idea
che mi era appena entrata in
testa. In realtà ci stavo pensando da un po’. -Non
sarebbe una cattiva idea, ma il suo turno finisce alle dieci e domani
devo
alzarmi presto. Non mi piacciono questi fianchi e questi cuscinetti. Da
domani
comincio a fare jogging. –mi disse, con uno sguardo deciso, e
io le sorrisi.
Gwen che faceva jogging. Mi sarei divertita a vederla fallire; non
aveva mai
percorso più di dieci metri a piedi e non faceva altro che
mangiare. Nonostante
tutto era magra come una sottiletta, e non riuscivo a spiegarmelo in
modo
razionale. E anche il fatto che si vedesse grassa. -Ci sarà
da divertirsi.
–dissi, chiudendo il libro. Mi sorrise e annuì.
Salii veloce in camera e
prepararmi lo zaino, e ci misi dentro un po’ di tutto: libri,
creme, smalti,
I-pod. Come se dovessi partire per la Florida. Mi misi lo zaino in
spalla e
scesi veloce le scale. Gwen era già in poltrona, con una
tazza fumante di latte
bianco in mano e la scena che preferivo di Titanic
sul televisore al plasma.
-Di
nuovo Titanic? –le chiesi, prendendo le chiavi.
-Lo
sai che non smetterei mai di guardarlo. –disse, girandosi
verso di me. –Mi
raccomando, divertiti da Vichy, ok? –mi disse, con un filo di
tensione nella
voce.
-Certo. – Ci
proverò.
Aprii la
porta d’ingresso e uscii sul vialetto. Pestai per qualche
secondo la sterpaglia
e le pietruzze che c’erano in giardino e corsi in macchina.
Si gelava fuori.
Il telefono
squillò e feci una fatica enorme per trovarlo nella borsa:
risposi al sesto
squillo. –Dimmi Vic. –dissi, con il palmare tra
l’orecchio e la spalla. Feci
retromarcia e uscii dal giardino.
-Stai
arrivando? –mi chiese. C’era un leggero tremolio
nella sua voce. -Si, perché?
–le chiesi, preoccupata. Mi infilai nella stradina che
portava al centro della
città e misi la terza.
-Non
so. Non ricordo molto bene. È successo un’oretta
fa. –mi disse e sentivo che la
sua voce era piuttosto confusa. Si era ubriacata in qualche pub? Dovevo
chiederle dove fosse.
-Dove
sei? –
-Ora
sono a casa. Ma... io... ecco, prima sono andata in un pub...
–ecco, lo sapevo.
Aveva bevuto troppo ed ora non poteva entrare in casa altrimenti sua
madre non
l’avrebbe più fatta uscire.
-... e ho
incontrato un ragazzo... –cosa? L’avevano
molestata? Ingranai la quarta e
accelerai un po’.
-Vic,
non essere vaga! Cos’è successo, qualcuno ti ha
picchiata? –le chiesi, con la
voce e le labbra che tremavano.
-No,
no niente di tutto questo. Io sto bene. Ma, ecco, questo ragazzo mi
ha... mi ha
chiesto di te... –disse e si bloccò per un
istante. –O cavolo, mi fa male la
testa, e non ricordo più nemmeno il suo volto, è
come se mentre parlassimo mi
avesse bendata. -
Forse era stata
drogata. Cosa era successo? E chi era questo ragazzo che chiedeva di
me?
-Vic,
sto arrivando. Non ti muovere, sto arrivando. –le dissi,
voltando l’angolo e
dirigendomi in periferia.
-No! No, ti prego Sam! È già da un
po’
che non lo vedo in giro, ma ho paura che ti faccia del male, Sam. Torna
a casa
ti prego. Non ti chiedo molto, dai. Dormirai da me un altro giorno.-
Cosa? Mi stava dando buca? Anzi, mi stava
chiedendo di darle buca. E per cosa? Per un maniaco-pedofilo che forse
era solo
frutto di una serata passata a bere. Sbuffai, accostai e spensi il
motore. –Sam,
ti prego ascoltami. Torna a casa. Domani ne parliamo con più
calma, ok? –mi
chiese, con la voce un po’ più tranquilla.
Sospirai e le dissi: -D’accordo,
sarà per la prossima volta. Ora va a dormire. Ci vediamo
domani. –dissi, e
chiusi la chiamata. Dovevo sapere cos’era successo quella
sera, e il giorno
dopo sarebbe stata la prima cosa che avrei chiesto a Vichy. Girai la
testa per
alleggerire la tensione dei muscoli e incrociai la scritta luminosa
CAFE. Un
cappuccino caldo e un krapfen alla crema non avrebbero fatto male a
nessuno.
Entrai dentro e subito un’ondata d’aria
piacevolmente calda m’investì. Andai al
bancone e mi sedetti, aspettando che il barman mi dedicasse un
po’ attenzione.
-Non è sicuro che una ragazzina come te
stia per strada a quest’ora. –disse una voce alle
mie spalle. Mi voltai
sospettosa e quasi mi spaventai. Un uomo sulla trentina era di fronte a
me,
sullo sgabello accanto: strano che non lo avessi notato. Aveva
un’ispida barba
corta e i capelli arruffati e castani. Mi guardai l’orologio
con fare teatrale
e annuii. –Sono solo le nove di sera. -dissi, con una punta
di acidità nella
voce.
Sorrise
divertito e guardò la mia borsa.
–Si, lo
so. Ma a quest’ora e in questo quartiere le strade non sono
sicure. –continuò,
bevendo un sorso di caffè. Annuii e mi voltai. Poteva essere
un maniaco o
chissà cosa. Meglio non dargli corda. -Non preoccuparti, non
voglio farti del male.
–disse, fissandomi insistentemente. Cominciavo a sentirmi a
disagio.
-Signorina, vuole che
l’aiuti? –mi chiese il barman, lanciando
un’occhiataccia al ragazzo che
continuava a fissarmi. Doveva avere una quarantina d’anni e
aveva l’aspetto
bonario. Era calvo e aveva una rosa tatuata sotto l’orecchio
sinistro.
–Si,
grazie. –dissi, lanciandogli uno sguardo
eloquente. –Vorrei un bicchiere di acqua frizzante.
–continuai. La voglia di
cappuccino e krapfen era completamente svanita. Il barman mi
portò veloce un
bicchiere trasparente con dell’acqua dentro, la bevvi tutta
d’un sorso e
lasciai cinque dollari sul bancone. Un po’ esagerati, ma non
avevo voglia di
aspettare che il barman mi facesse la ricevuta e mi desse il resto. Non
volevo
rimanere in quel posto un minuto di più.
Non appena fuori, ripresi a respirare. Svoltai
l’angolo e aumentai l’andatura. Faceva freddo e
avevo paura. Di cosa non lo
sapevo, ma temevo che l’uomo nel bar potesse inseguirmi e...
e... sarei dovuta
tornare a casa. Forse era lui l’uomo che diceva Vichy, il
tizio che chiedeva di
me. Ma non lo conoscevo; quella sera lo vidi per la prima volta.
Attraversai la
strada e feci qualche altro passo. D’un tratto una mano mi
afferrò il braccio,
cingendolo in una stretta lancinante. Cercai di urlare, ma qualcuno mi
tappò la
bocca. - Non preoccuparti, non voglio farti del male. –disse.
Era l’uomo del
bar. Cominciai a respirare affannosamente, mentre l’uomo mi
sbatteva contro il
muro, con l’avambraccio che pressava sul mio collo. Cosa
sarebbe successo? Mi
avrebbe aggredito o cercava solo soldi? Mi sentivo svenire, ma non
potevo
mollare proprio allora. Dovevo combattere. Cercai di liberarmi dalla
stretta
tagliente dell’uomo, ma il risultato fu scadente. Tentai di
tirargli una
ginocchiata in mezzo alle gambe, ma il mio ginocchio era attaccato alla
sua
coscia e non riuscivo a muoverlo. Avevo paura; avevo tanta paura.
E poi successe tutto troppo
velocemente. La pressione sul mio collo diminuì, riuscii a
divincolarmi dalla
stretta ai polsi e mi allontanai dal muro. Un ragazzo alto, slanciato e
che non
riuscivo a vedere in volto a causa della mancanza di luce, aveva preso
il mio
aggressore e lo aveva sbattuto contro il muro. Gli aveva tirato un
gancio
destro così violento che temevo gli avrebbe rotto la
mascella, e poi un diretto
così pulito da conferirgli il colpo di grazia.
L’uomo era a terra, con del
sangue che gli usciva dalla bocca. Avevo una serie di immagini confuse
in testa
che non riuscivo a distinguere, come un film a diapositive che si
succedevano
una dopo l’altra e di cui non capivo il senso. Un brivido di
freddo mi percorse
la schiena calda.
-L’hai ucciso? –urlai, portandomi le
mani alla bocca. Il cuore mi batteva forte; ma non sapevo se fosse per
il
grande spavento o altro. Quel ragazzo mi aveva salvata. Lui mi
guardò. Non riuscivo
a vedere i suoi occhi, ma li immaginai neri, come la notte che ci
circondava.
Respirava affannosamente; lo capivo dalle spalle che si alzavano e si
abbassavano, ed era teso. Avrei voluto chiedergli tante cose. Come si
chiamava?
Mi aveva salvata, ero in debito con lui.
-Grazie.
–mormorai, guardando l’uomo a terra senza sensi.
Lui continuò a fissarmi per
non so quanto, forse un minuto, forse cinque, e poi corse via, nel
buio.
–Aspetta! –urlai. Ma era troppo tardi. Era
già sparito.