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Autore: monochrome    04/07/2011    3 recensioni
Albina Severi, Al per gli amici, stronza megalomane per tutti gli altri, ha poche certezze, certezze che l'aiutano a mantenere quella sicurezza di sè di cui fa sfoggio ogni giorno, quell'arroganza e quel sarcasmo che la contraddistinguono. Ma poi, piano piano, senza rendersene conto, si cresce, le situazioni cambiano, i rapporti cambiano e le certezze cadono una ad una.
***
Dal capitolo 7:
«Diamine Al! Sei così dannatamente fragile! Ti atteggi da dura, ma sei porcellana finissima che può rompersi alla prima caduta. Come potrei farti questo?»
Deglutii.
Non sapevo che dire, non sapevo che diavolo fare. Sapevo che avevo ancora voglia delle sue labbra e nessuna intenzione di rinunciare alla mia indipendenza per nessuno al mondo. Mattia sembrava il ragazzo perfetto per me, perfetto per darmi affetto e ricevere il mio, senza obblighi o etichette di sorta. Perché avrei dovuto rinunciarvi? Perché avrei dovuto lasciarlo andar via? Cosa mi tratteneva? Forse la consapevolezza che non sarebbe mai stato solo e unicamente mio?
Aderii nuovamente col mio corpo al suo, alzandomi in punta di piedi per sfiorare col mio respiro le sue labbra gonfie.
«Sono io che voglio farlo»
Fu lui a far combaciare le nostre labbra, gentilmente.
Mi vidi costretta a tirargli i capelli per fargli aprire quella dannatissima bocca!
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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All my Certainties

Fragolosi bipolarismi in atto




I primi dieci passi per allontanarmi dalla macchina non erano andati male. Ero riuscita a camminare anche dignitosamente, forse, senza la parvenza di avere un palo conficcato nel didietro. Beh, facevo un passo ogni dieci secondi, giusto per essere certa di beccare la piastrella più in piano possibile in quella dannata discesa (perché diamine non ero nata nella pianura padana, bensì nelle colline toscane, ancora dovevo capirlo!) e per assicurarmi di non cadere. Dopotutto passava della gente di lì e anche se conoscevo poche persone, per la legge di Murphy come minimo avrei trovato l’improbabile gruppetto di Luca-Leccata di vacca, Lorenzo e Marco pronti a ridere di una mia stupidissima caduta.
A proposito di caduta… il tacco mi scivolò accidentalmente in un piccola buca, portandomi a cadere rovinosamente a terra e rigorosamente di lato, addosso a un povero omino di passaggio, che non solo non arrestò la mia caduta, ma cadde con me, perché al peggio non c’è mai fine.
Sentii dei commentini sarcastici arrivare dai suoi amici e uno sguardo perforarmi la schiena. Non me ne curai. Mi curai piuttosto di un idiota che, appoggiato alla saracinesca di un negozio in una pessima imitazione di Vegeta, stava ridendo fino alle lacrime. Chi diavolo fosse nemmeno lo so.
Non conoscevo nessun ragazzo dal fisico così asciutto e longilineo. Aveva i capelli scuri, leggermente lunghi e un accenno di barba che avrei trovato sexy, se non fosse stata sulla faccia di uno che mi stava prendendo per il culo.
«Ma che diavolo vuoi?!» sbottai, senza riuscire ad alzarmi dal povero malcapitato che era cascato con me. Non gli avevo nemmeno chiesto scusa.
«Ma che diavolo vuoi tu! Sei tu che mi sei caduta addosso!» mi rispose il tizio su cui ero praticamente seduta.
«Non te, il cretino che sta ridendo!»
«Sì però alzati, cazzo!» la sua voce mi arrivò distrattamente. Ero completamente concentrata ad odiare quel tizio che, anche se aveva smesso di ridere, continuava a guardarmi insistentemente.
«Già che ci sei potresti anche darmi una mano, visto che ti è piaciuto lo spettacolino!» borbottai, leggermente a disagio. Non mi piaceva essere fissata a quel modo. Scivolai a sedere per terra, permettendo a quel tizio intrappolato sotto di me di svignarsela con tranquillità.
Nemmeno lui mi aveva aiutata ad alzarmi e lì, in mezzo alla strada, senza nessun appoggio, io non ci riuscivo davvero.
«Oh, non saprei. Mi piace questo spettacolo.» Era un dannatissimo strafottente. Mi sorrideva, sornione, e giuro che in quel momento non riuscii a capire di che diavolo di spettacolo stesse parlando. Ero seduta a sedere a gambe larghe come sempre, col cappotto nero a proteggermi il sedere dal freddo della strada. Forse non riuscii ad afferrare subito il concetto perché i suoi occhi chiari si incatenarono per qualche istante nei miei, che esprimevano tutto il mio pessimo umore, insieme al broncio che avevo messo su. O forse perché avevo solo tanta voglia di spaccargli quel suo naso perfetto.
In ogni caso, mi venne in aiuto, ridendo un altro po’ del mio atteggiamento.
«La stai mostrando al mondo» mi informò. Molto gentile da parte sua farmelo notare solo dopo aver ammirato l’opera d’arte. Non so dire se fui più veloce a unire le cosce o ad arrossire. So solo che sentii immediatamente la faccia andarmi a fuoco, una sensazione che tra l’altro detesto. Soprattutto se poi quello che ti ha fatta arrossire si mette a ridere ancora più forte.
Mi si avvicinò, tendendomi una mano.
«Su, ti aiuto ad alzarti» continuava a sorridere e sembrava divertito piuttosto che strafottente. Ma io ero incazzata e quindi scacciai la sua mano, senza nemmeno guardarlo.
«Adesso vuoi aiutarmi? No grazie. Piuttosto aspetto l’intervento dello spirito santo!» sbottai, puntando le mani a terra. Tentai di alzarmi da sola, con l’unico risultato che battei una culata pazzesca e per poco non mi slogai una caviglia.
Lo vidi con la coda dell’occhio scrutare il cielo dubbioso.
«Non vedo colombe con rametti di ulivo né strane fiaccole solcare il cielo. Non credo che lo spirito santo arriverà presto», mormorò, riprovando a porgermi una mano. Questa volta non la colpii, la ignorai e basta.
Mi concentrai piuttosto sulle mie decolté, che mi apprestai a togliere, rimanendo a contatto con la pietra con le calze trasparenti che Biondona finta mi aveva prestato.
A quel punto mi alzai molto meglio. Avrei buttato volentieri le scarpe, ma poi pensai che il tacco avrebbe potuto cavare un occhio a qualcuno, e quindi le tenni in mano, appese alle mie dita, così, per sicurezza.
«È meglio prendersi qualche fungo, piuttosto che accettare una mano eh?» Non sembrava risentito. Chissà perché era ancora lì. Magari sperava in qualche altro capitombolo?
Ricominciai a camminare, ora molto più veloce, ignorando il moretto bellamente. E lui, non capii mai perché, mi seguì, mansueto. Teneva le mani infilate nelle tasche del giubbotto. Solo allora notai la sua espressione così dolce.
«Mia madre mi ha detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti» risposi, atona. Non riuscivo ad essere cattiva, se continuava a fissarmi in quel modo. Sono stronza, ma non senza cuore. E nemmeno senza ormoni a dirla tutta. Se non mi avesse riso in faccia forse non l’avrei nemmeno guardato o, molto più probabilmente, sarei stata io a fissarlo, giusto per rifarmi un po’ gli occhi. Ma siccome passava da strafottente a gentile in pochi nano secondi, mostrando una tendenza al bipolarismo, non lo avrei mai ammesso.
«Non ti ho offerto caramelle» osservò, in modo fin troppo innocente.
«Oh, sono sicura che lo avresti fatto.» commentai, reprimendo un sorrisetto di scherno. Anche lui sorrise, pensando forse che stessi scherzando. Oppure lo facevo semplicemente ridere, con la mia aria scorbutica e asociale.
«Matti» disse e basta. Io aggrottai le sopracciglia, non riuscendo davvero a capire. Mi sfuggivano molte cose in presenza di quel ragazzo.
«Scusami?»
«Mi chiamo Mattia, ma puoi chiamarmi Matti.» ripeté. Io annuii. Una reazione naturale di cui mi pentii immediatamente. Matti. Mi piaceva, sembrava quasi un insulto.
«Che soprannome orribile. Se non ti dispiace ti chiamerò…» ci pensai un attimo, fermandomi a studiarlo da capo a piedi. Lui si fermò di fronte a me, sempre con quel sorrisetto cordiale e appena accennato dipinto sulle labbra sottili. «Sorriso da paresi.»
Annuii, convinta della mia scelta. Poi ripresi a camminare, accompagnata dalla sua risata. «E non vuoi dirmi come ti chiami, signorina Cipiglio
Lo guardai di sottecchi. Non si era scomposto nemmeno un po’. Non era divertente stuzzicare chi non si arrabbiava. No, non c’era alcun gusto.
«Prova a indovinare, Sorriso da paresi.» sottolineai quell’appellativo, per vedere se avesse delle razioni. Beh, allargò solo quella sua dannatissima smorfia. Perché ormai non era un sorriso appena accennato per me, era una schifosissima smorfia. Avrei fatto qualsiasi cosa per modificargli l’espressione del volto. Anche rifarla vedere al mondo.
Lui stette in silenzio, a studiarmi un altro po’. Dio, ma perché quella strada non finiva mai? Volevo seminarlo, volevo che se ne andasse. Non sapevo comportarmi. Sono a mio agio con la rabbia, la mia e l’altrui. Sono a mio agio a punzecchiare le persone e ad essere punzecchiata. Mi resi improvvisamente conto di non riuscire a sostenere una conversazione civile con nessuno che non mi conoscesse abbastanza perché io riuscissi a fidarmi. Uno schifo assurdo. Odiavo e amavo me stessa per non essere una persona normale. Poi era Mattia il bipolare!
«Perché diavolo mi stai seguendo, comunque? Non hai nulla di meglio da fare il sabato sera?» borbottai, in preda al disagio più completo.
«Un mio amico mi ha chiesto di lasciarlo solo con la ragazza che gli piace, Martina.»
«Ritenta, sarai più fortunato.»
«Francesca?»
Storsi la bocca, in un chiaro segno di disapprovazione.
«Chiara?»
«Quasi, ma non nel senso che intendi tu.» borbottai. Mi stavo sbilanciando, quasi volessi che indovinasse il mio nome. Ma io non lo volevo, giusto? E poi, se anche lo avesse indovinato, cosa avrebbe comportato? Non lo avrei decisamente più rivisto. No, decisamente non volevo rivederlo. Ma magari, se avessi fatto uno sforzo, il mio carattere sarebbe migliorato?
Chiusi gli occhi, cercando di scacciare quei pensieri.
«Nel senso che non è Sara?» domandò. Gli avevo tolto il sorriso dal volto, missione compiuta. Ora era tutto corrucciato a tentare di cercare un nome che mi si addicesse.
«Non lo indovinerai mai!» esclamai, vittoriosa. E sorrisi, anche, prima di rendermi conto di averlo fatto e metter su un cipiglio più accentuato del precedente.
Mai mostrarsi carini e simpatici con gli estranei, Al, è la prima regola!
Lui fece finta di non averlo visto, anche se lo aveva fatto, ne ero più che certa. Fu una mossa molto saggia. Altrimenti mi sarei imbarazzata talmente tanto che difficilmente avrei spiccicato una parola anche solo vagamente cordiale o diversa da “vaffanculo”.
«Beh, a questo punto hai due alternative» riprese lui. Eravamo arrivati infondo alla discesa e cominciai a cercare il cellulare nella borsa. Da qualche parte dovevo avere anche il numero dei taxi. In rubrica, in borsa… o magari sulla mia scrivania, a casa. Sicuramente non era lì, con me, in quella borsetta striminzita che mi avevano affibbiato quelle oche.
«Dirmi il tuo nome, e non sarebbe una cosa fatta male a mio modesto parere, oppure scegliere fra due possibili nomi in codice»
«Ossia?»
La sua espressione esprimeva solo diabolicità, come se sperasse di costringermi, con degli stupidi soprannomi offensivi, a confessare il mio nome. Non lo avrei fatto. Sarebbe stato come dargli una possibilità di conoscermi e io non volevo. Avevo tutti gli amici che mi servivano.
«Signorina Cipiglio, ma questo già lo conosci, e il bellissimo Fraisier.»
Inarcai un sopracciglio.
«Fraisier?» il mio francese –sempre che di francese si trattasse- si fermava a “oui”, “non”, “voulez vous coucher avec moi, cette soir?” e quest’ultima frase non ero certa che sarei mai riuscita ad usarla. «E che vorrebbe dire?»
Lui sorrise, di nuovo sornione e malizioso. Rabbrividii, immagino per la paura o magari per il freddo. No, decisamente non poteva essere l’effetto di quel sorriso sui miei ormoni. «Significa fragolosa. A proposito, mi piacciono le tue mutandine.»
Mi bloccai col cellulare a mezz’aria. Molto probabilmente, in tutta la mia vita, non arrossii mai più velocemente che allora e la sua risata, che mi inondò le orecchie, non mi aiutò.
«Vaffanculo» soffiai, prima di dargli le spalle e allontanarmi di qualche passo. Mi vennero in mente tanti di quegli insulti che glieli avrei urlati volentieri, se solo non mi fossi vergognata come una ladra e se non avessi sentito urlare il mio nome.
Mi girai verso la fonte di quell’«Al!», scoprendo piacevolmente Marco e Lorenzo a guardarmi, il primo dolce, il secondo incapace di fermare le risate. Non fui mai tanto più felice di vederli e non mi fregava più di essere presa per il culo per quell’orribile color vinaccia, o per il trucco sulla mia faccia o per il fatto che stavo camminando scalza in mezzo alla strada.
Sentii una presenza alle mie spalle e li vidi cambiare espressione.
«Al?» mi sussurrò all’orecchio Sorriso da paresi, che quasi quasi avrei chiamato volentieri Bipolarismo in atto, in un tono curioso e quasi seducente. Sperai che si stesse sforzando, perché altrimenti aveva ragione Lorenzo: avevo bisogno di una sana scopata.
«Alberta per caso?» domandò, innocente, come se non mi avesse umiliata, ma solo presa amichevolmente in giro. Mi dispiaceva che non ci fosse arrivato: non eravamo amici, non lo saremmo mai stati.
«Albina, stupido idiota!» sbottai, allontanandomi da lui e andando incontro a Marco e Lorenzo. Mi ricordai solo allora di avere dei tacchi, facilmente trasformabili in armi, in mano, ma sarei sembrata una povera matta se fossi tornata indietro ad accoltellarlo col mio tacco a spillo.
«Chi era quello?» Ignorai la domanda di Marco, continuando a camminare per la mia strada, seguita a ruota da entrambi i miei amici.
«Fraisier è molto più carino!» mi urlò dietro quel Bipolare in atto. Ignorai anche lui, fino a quando non gli mostrai il dito medio, senza nemmeno degnarmi di guardarlo.
Mi ritrovai a sorridere, non so bene nemmeno perché. Furono gli sguardi indagatori di Marco e Lorenzo a riportarmi alla mia espressione severa e impassibile.
«Portatemi a casa» dissi solo stancamente. Si guardarono per alcuni istanti, prima di seguirmi, ridendo.
«Senti Al ma…» cominciò Marco, trattenendo un sorriso. «Che fine hanno fatto le tue scarpe?»
Gliele tirai e lui le afferrò al volo, a pochi centimetri dalla sua faccia.
Risi, sotto il suo sguardo di rimprovero. «Scusa»
Lori mi guardò come suo solito, col suo sguardo da ninfomane represso e la malizia sulle labbra.
«Nonostante il coloraccio, approvo la maglietta Al. Ma dove hai lasciato i pantaloni?»
Rimpiansi di non avere più le scarpe da tirargli.

   
 
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