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Autore: monochrome    08/07/2011    3 recensioni
Albina Severi, Al per gli amici, stronza megalomane per tutti gli altri, ha poche certezze, certezze che l'aiutano a mantenere quella sicurezza di sè di cui fa sfoggio ogni giorno, quell'arroganza e quel sarcasmo che la contraddistinguono. Ma poi, piano piano, senza rendersene conto, si cresce, le situazioni cambiano, i rapporti cambiano e le certezze cadono una ad una.
***
Dal capitolo 7:
«Diamine Al! Sei così dannatamente fragile! Ti atteggi da dura, ma sei porcellana finissima che può rompersi alla prima caduta. Come potrei farti questo?»
Deglutii.
Non sapevo che dire, non sapevo che diavolo fare. Sapevo che avevo ancora voglia delle sue labbra e nessuna intenzione di rinunciare alla mia indipendenza per nessuno al mondo. Mattia sembrava il ragazzo perfetto per me, perfetto per darmi affetto e ricevere il mio, senza obblighi o etichette di sorta. Perché avrei dovuto rinunciarvi? Perché avrei dovuto lasciarlo andar via? Cosa mi tratteneva? Forse la consapevolezza che non sarebbe mai stato solo e unicamente mio?
Aderii nuovamente col mio corpo al suo, alzandomi in punta di piedi per sfiorare col mio respiro le sue labbra gonfie.
«Sono io che voglio farlo»
Fu lui a far combaciare le nostre labbra, gentilmente.
Mi vidi costretta a tirargli i capelli per fargli aprire quella dannatissima bocca!
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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All my Certainties

Zero Assoluto




Ne ero certa, stavo scrivendo cose senza alcun senso. Copiavo febbrilmente ogni singola sbavatura di gesso che quel feticista della matematica del mio professore stava scrivendo alla lavagna, senza capirci un accidente. Cosa diavolo erano le variabili aleatorie continue standardizzate? Una z e il disegno di una collina? Forse ero incapace di mio, ma avrei scommesso che senza il continuo richiamare la mia attenzione di quella palla del mio compagno di banco, magari avrei afferrato almeno a cosa diavolo servissero quelle bestemmie matematiche.
Stavo disegnando l’ennesima collina sul piano cartesiano, quando Matteo cominciò a blaterare qualcosa di musica, qualcosa su un concerto, dei biglietti che supposi dovesse avere e tali Zero Assoluto. Ironico che “zero assoluto” fosse il mio grado di conoscenza del gruppo, ma soprattutto di quello che avevo capito della spiegazione del prof.
«Ahah» mormorai, distrattamente. «Divertiti.»
Continuai comunque a copiare, in un disperato tentativo di raccogliere più informazioni possibili sull’argomento per poi farmelo rispiegare dalla mia fidatissima professoressa di ripetizioni. Quella donna era una santa. Avevo già ordinato il marmo per scolpirle io stessa una statua commemorativa.
Il prof alla lavagna accennò a certe tavole di Sheppard e a cosa servissero non lo capii mai. In quel momento, infatti, Matteo la piaccica cominciò a insistere perché andassi al concerto con lui, punzecchiandomi il fianco. Se non fossimo stati in un luogo pubblico gli avrei spaccato quello stupido ditino indice, ma siccome eravamo a lezione –e a lezione di matematica soprattutto!- dovetti accontentarmi di mandarlo a fanculo. Nel mentre intercettai anche lo sguardo di Mel, che da due file avanti, si stava sbracciando per sussurrarmi ammiccante un «Dottor Stranamore».
Risposi con un’alzata di spalle e un’espressione che esprimeva tutta la mia incapacità di comprendere. Doveva andare dal ginecologo, per caso?
Intanto il prof era passato alla risoluzione degli esercizi. Poggiai sconsolata la testa sul mio quaderno aperto. L’ultima cosa semisensata che avevo scritto era il titolo, le variabili aleatorie continue.

Come ogni mercoledì pomeriggio, da un mese a quella parte, mi ritrovai di fronte a quel portone in vetro. Mi strinsi nel cappotto lungo, nascondendo il naso nella sciarpona di lana che mi ero arrotolata intorno al collo, mentre con la destra suonavo distrattamente il campanello del terzo piano.
La voce metallica della mia prof di ripetizione mi invitò a salire, non appena sentii il portone aprirsi in un clack.
Nell’aspettare l’ascensore mi tolsi sciarpa e cappotto, così da essere completamente libera una volta varcata la soglia dell’abitazione. Non c’erano corridoi di ingresso, quindi mi ritrovai direttamente nel salotto di casa.
«Mettiti pure comoda Albina!» mi gridò Marianna dalla cucina e la sua voce mi giunse piuttosto ovattata. «Vuoi un po’ di the? È al gelsomino.»
Buttai la mia roba sul divano, non sapendo che altro fare. Odiavo il the, al limone, alla pesca, verde, giallo o nero che fosse. Preferivo di gran lunga un buon caffè espresso, un breve momento di intenso godimento. Il the richiedeva tempo e calma per essere bevuto. Serviva una pazienza che non avevo per goderselo a pieno. Io tendevo a trangugiare qualsiasi cosa mi capitasse a tiro.
«No grazie!» risposi, alzando la voce.
Non sapevo se sedermi o rimanere lì in piedi come un’imbecille. Non avevo mai osservato bene la casa, non me ne era mai fregato nulla, in tutta onestà. E poi, di fronte alla grande incognita della matematica e degli esami imminenti, l’arredamento perdeva fascino anche per un disegnatore di interni.
Siccome, però, Marianna non dava segno di volersi allontanare dai fornelli e desistere nella preparazione della sua bevanda, mi misi ad osservare qua e là, lasciando vagare lo sguardo dalle stampe di Gaugin, al televisore di fronte al divano, alla libreria stracolma di classici, alle foto disposte ordinatamente sulla mensola accanto a me.
Presunsi che fossero tutte abbastanza vecchiotte: Marianna e suo marito dovevano avere almeno quindici anni di meno. Avevano molte meno rughe in quella foto in riva al mare.
C’erano anche tante foto di un bambino, da quando aveva appena un anno, fino ad arrivare ai cinque-sei. Aveva i capelli scuri e lisci della madre e gli occhi chiari del padre, un colore a metà strada fra l’azzurro cristallino e il verde acqua. Mi accorsi che solo in poche foto sorrideva davvero. In tutte le altre esibiva un mezzo sorriso, a metà fra lo strafottente e il cordiale. Non avrei saputo descriverlo altrimenti. Mi resi anche conto, e non senza pentirmene, che se fossi stata una bambina di tre anni, mi sarei innamorata di quel bambino. Diavolo, me ne sarei innamorata anche quel giorno, a diciotto anni compiuti!
«Eccomi!»
Sobbalzai, per poi girarmi di scatto, sotto il sorriso materno di Marianna. Le rughe sottili che le rigavano il volto lo rendevano ancora più simpatico.
Esibiva un vassoio, con la sua tazza di the e una tazzina più piccola che, dall’odore, supposi essere di caffè appena fatto.
«Ho pensato di fartene una tazza.»
Le sorrisi, grata. Niente di meglio di un caffè per cominciare una spiegazione di quei geroglifici che qualcuno si ostinava a chiamare linguaggio matematico!
La spiegazione fu lunga, gli esercizi pure e devo dire che non ero ancora sicura di aver afferrato l’argomento alla perfezione. Decisamente, ancora non avevo capito a cosa diavolo servissero quelle dannate variabili, né tantomeno la funzione di ripartizione. Una cosa però l’avevo capita: potevo depennare fin da subito matematica dalle opzioni universitarie. Nemmeno sotto la minaccia di cinque kalashnikov mi sarei lasciata convincere ad imbarcarmi in cinque anni di numeri e strani simboli. Per quanto ne sapevo, nella definizione di limite poteva esserci scritto evviva il tonno in scatola.
Fu il suono di una chiave nella serratura della porta in ingresso a risvegliarci entrambe da quella catalessi da matematica. Era passata circa un’ora e mezza ed entrambe avevamo bisogno di una pausa. Io, almeno, avevo bisogno di un altro caffè.
«Deve essere mio figlio. Tu non lo hai mai incontrato, vero Albina?» mi domandò Marianna, cordiale.
Scossi la testa. Mi chiesi che tipo fosse il figlio di una professoressa di matematica, ma liquidai la domanda con un’alzata di spalle. Decisamente non m’importava granché.
Alzarsi e comunicare faccia a faccia non era nello stile della professoressa. Secondo lei era molto più veloce urlare da una stanza all’altra, nonostante il rischio da telefono senza fili: nessuno capiva mai una parola.
«Matti! Siamo nello studio!»
Non so perché, ma non avvertii il pericolo. Avevo incontrato un Mattia solo quattro giorni prima, ma diedi per scontato che fossero persone diverse. Quante probabilità avrebbero potuto esserci che il figlio di Marianna fosse proprio quel Mattia-Sorriso-da-paresi? Senza contare che quella donna era una santa, infinitamente paziente e carina, mentre quel troglodita era uno strafottente. Ero stranamente convinta che uno in quel modo non potesse venir fuori da una professoressa di matematica.
Ripensai al sorriso insolente del bambino nella foto solo un attimo prima che una testa castano scuro facesse capolino dalla porta e non ebbi il tempo di impanicarmi. Non incontrai subito i suoi occhi chiari. Lui non mi guardava, guardava la madre e le diceva qualcosa e lei gli diceva qualcos’altro. Non so che cosa, ero troppo impegnata a valutare da quale parte fuggire.
La porta? Fuori discussione. Non ero abbastanza bassa e anonima per sgattaiolargli fra le gambe senza che se ne accorgesse. Lorenzo ci sarebbe riuscito, forse. Ma per come era fatto, probabilmente lo avrebbe preso a cazzotti direttamente. La finestra? Eravamo al terzo piano, ma magari, se fossi riuscita ad appendermi ai rami di quel pino…
Rimaneva l’opzione nascondersi, e stavo per buttarmi sotto la scrivania, quando, con un pessimo tempismo, Mattia alzò lo sguardo su di me.
Sicuramente non avevo indossato il mio sguardo da dura. Lui, però, aveva indossato quello di un leone che ha adocchiato una gazzella e già se la pregusta.
Mi sentii rimpicciolire sotto il suo sguardo, nonostante riuscissi a reggerlo senza problemi. Non volevo essere umiliata di nuovo, non da lui. Perché diavolo non stavo tirando fuori gli artigli? Se lo stava chiedendo anche lui? Oppure pensava solo a come divertirsi con il suo nuovo giocattolino?
Cazzo, no! Io non ero il giocattolino di nessuno! Ero io a giocare con le persone, non il contrario! Lo fulminai, stizzita. Mai più mi sarei mostrata debole e sorpresa ai suoi occhi. Non avrebbe più avuto questo vantaggio su di me, non lo avrei permesso.
«Allora Mattia? Vorresti prepararci un the e un caffè?» borbottò la madre, insofferente. Ecco cosa gli aveva chiesto non appena era arrivato.
Lui rispose con uno sbuffo, sparendo oltre la porta che aveva lasciato socchiusa. Un’ottima via di fuga, se proprio volete saperlo.
«Scusa Marianna, ma devo proprio andarmene.» suonai ansiosa e trafelata persino a me stessa. Non me lo sarei mai perdonata.
«Sicura? Mi sembra tu abbia ancora delle incertezze…»
Buttai matite, penne, quaderni e quant’altro nella cartella, senza curarmi del fatto che, inavvertitamente avevo strappato una pagina al libro degli esercizi.
«Cos’è la vita, se non si rischia un po’?»
Sparai quella stronzata perché sapevo che queste frasi le piacevano e mi avrebbe lasciata andare più facilmente. Mi issai la tracolla sulla spalla, dirigendomi verso la porta. Mi voltai a guardarla, con la mano sulla maniglia e un piede nel salotto, pronta a darmi alla fuga, in preda a quell’istinto irrazionale di andarmene da quella casa il prima possibile.
«Ci vediamo…» Mercoledì, avrei dovuto dirlo. Perché era così difficile? Mio Dio! E lei non poteva darmi la certezza che Sorriso da paresi non si fosse trovato in casa il mercoledì dopo? «Sì, insomma, ti chiamo se non capisco qualcosa!»
E sia benedetto chiunque abbia inventato il telefono!

Camera mia era un campo di battaglia, una discarica, un... ero troppo stanca e agitata anche solo per pensare a un paragone più calzante. Avevo svuotato l'armadio, in preda al panico, frugando nelle tasche anche di vestiti che non mettevo da almeno un anno. Avevo rovesciato il contenuto delle mie borse sul letto, che si rivelarono inevitabilmente vuote. Avevo lanciato libri ovunque, ricontrollato i mobili, avevo cercato in ogni anfratto, ma non avevo trovato quello che stavo cercando.
Ero quindi passata al resto della casa, sotto lo sguardo vigile di mia madre che si augurava non riservassi al divano lo stesso trattamento della mia stanza.
Non trovai nulla. Mi veniva da piangere. Dove diavolo avrei potuto lasciare il mio cellulare?
Non riuscivo nemmeno a pensare a dove lo avessi visto l'ultima volta. In camera mia? A scuola? A casa di Ivan?
Non appena mi venne in mente, mi lanciai sul telefono di casa, scrivendo sulla tastiera quel numero che oramai sapevo a memoria, dopo anni di chiamate.
Mi stavo mangiando le unghie -o meglio, le pellicine-, un vizio che avevo perso da anni, ma che riaffiorava nei periodi di crisi.
Rispose al secondo squillo, per grazia divina.
«Al?» rispose, quasi sorpreso.
«Non trovo il telefono!» sbraitai, prima che potesse dire qualcosa. «Io-non-lo-trovo! Non ho la minima idea di dove possa essere!»
La razionalità non era mai stato il mio forte, davvero. In preda al panico poi, era ridicolo anche solo pensarci. Non che fossi una drogata di cellulare: detestavo messaggiare con le persone, a meno che non avessi cose fondamentali da dire; era difficile che rispondessi al telefono alla prima chiamata, anche perché di solito lo appoggiavo e abbandonavo al suo destino. Come in quel momento.
Avrei voluto dire a Mel dell'incontro-fuga con Sorriso da paresi, volevo che analizzasse la mia reazione, che mi dicesse perché diavolo mi ero comportata in quel modo. La mia teoria era che era un arrogante idiota con un sedere da infarto e che, decisamente, era quest'ultima sua caratteristica a mandarmi in panne il cervello, ma avevo bisogno che qualcuno me lo confermasse. Quel qualcuno doveva essere Mel: se mi fossi messa a parlare di culi con Marco o Lorenzo o Ivan, le reazioni sarebbero state imprevedibili come le apparizioni della Madonna.
«Che vuol dire che non trovi il telefono?»
Non so perché, ma non mi sembrava abbastanza allarmato. Era una catastrofe! Avrebbe dovuto urlare, avrei dovuto sentirlo sbutolare casa sua dalle fondamenta, pur di riuscire a trovarmi il mio dannato cellulare. E invece lui mi chiedeva “Che vuol dire che non trovi il telefono?”!
«Vuol dire che non lo trovo, idiota!» sbottai. La rabbia era incredibilmente più facile della paura. La rabbia era familiare. Oh sì, mi sarei arrabbiata ancora un po' con Ivan, se non avesse alzato il culo e non avesse cominciato a cercarmi il cellulare.
«E io che posso farci?»
«Cercalo! Magari è lì da qualche parte!» soffiai. Era così ovvio, perché diavolo non ci arrivava? Lo sentii sospirare, dall'altra parte della cornetta.
«Al, quel dannato cellulare non può essere qui con me.» Si dimostrò paziente, come se fossi ammattita tutt'a un tratto e lui fosse il poliziotto incaricato di farmi abbassare la pistola. Una cosa terribile. E umiliante. Soprattutto umiliante. Ero stanca di sentirmi umiliata. «Per prima cosa, non sono a casa, bensì a casa di Cristina e, scusa se te lo dico, il tuo cellulare non è nemmeno nella top ten dei miei pensieri in questo momento. Secondo, dall'ultima volta che sei stata a casa mia, o a casa di Cristina, ti ho chiamata almeno quattro volte.»
Improvvisamente non seppi cosa dire. Mi sentii offesa e messa da parte.
La me razionale capì la situazione: Ivan era con Cristina, la sua ragazza, la ragazza che amava e decisamente non sarebbe corso in mio soccorso, perché era con la sua ragazza ed era giusto che fosse così. Io ero la sua migliore amica. Non si rinuncia a stare con la propria ragazza, con la casa libera, se la tua migliore amica ti chiama in preda a una crisi isterica perché non trova il cellulare che probabilmente ha lasciato nella tasca del giubbotto.
Ma un'altra parte di me si sentì ferita e non riuscì a reprimere un pizzicore agli occhi. L'altra parte di me, realizzò finalmente che, nonostante per me Ivan e tutti gli altri fossero al primo posto, per lui non era la stessa cosa. Mi dissi che magari, una volta trovato un ragazzo, l'avrei pensata allo stesso modo, ma mi augurai il contrario.
«E quante volte ti ho risposto, di quelle quattro?» Avevo aspettato un po' a rispondere. Avevo paura che la voce mi avrebbe tremato. Alle mie orecchie suonai sull'orlo del pianto. Ma io non stavo piangendo, vero? Non ancora.
Probabilmente Iv non colse quella sfumatura della mia voce. Sentii piuttosto quella di Cristina dire qualcosa di indistinto e mi augurai di non cogliere nemmeno una parola di senso compiuto. Non avrei gradito.
«Tutte e quattro Al!» Stava sorridendo. Voleva rincuorarmi? Oppure stava sorridendo a lei? Non volevo sapere nemmeno questo.
Attaccai il telefono, senza salutare. Non era nel mio stile e non ne avrei avuto la forza. Improvvisamente il problema del telefono scomparso non mi parve così drammatico.

   
 
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