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Autore: Legar    09/07/2011    3 recensioni
Ashton si sorprese a pensare a quanto gli mancava quella determinazione che amava scorgere negli occhi di Clarisse ogni volta che lei si impegnava in qualcosa.
Seduto per terra, nello stesso posto che sedici anni prima aveva accolto la donna, gli era impossibile non rivolgere la sua mente verso di lei. Non quando le parole di Eloise l’avevano riportata a lui con forza, immergendola nei suoi pensieri. Io non sono Clarisse Granville. No, certo che non lo era. E Ashton questo l’aveva sempre saputo, fin da quando lei l’aveva chiamato a sé la notte di Ognissanti. Mai aveva visto Eloise come una copia di quella donna a cui si era affezionato, sedici anni prima; mai avrebbe potuto confonderle.
[Ottava classificata a parimerito al contest "Rosa rosae" indetto da Mirya]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Ashton Blackmore, Clarisse Granville
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ea non sum

La notte stava per finire, lasciando il posto ad un’alba che cominciava a colorare il paesaggio di una tenue luminosità. Un umano a cavallo avrebbe apprezzato quella vista, sentendo sensazioni di calma e piacevole quiete entrargli nell’animo in punta di piedi, quasi per timore di fare troppo male, se giunte all’improvviso. Un vampiro a cavallo, invece, aveva ben altre preoccupazioni. Correre contro il tempo per giungere in un rifugio, impenetrabile dalla malvagia luce, e trascorrervi il giorno in attesa delle fidate tenebre. Luce, il sorriso con cui un carnefice tranquillizza la vittima designata prima di affondare una lama mortale in organi vitali, per i vampiri un’eterna nemica contro cui scontrarsi ogni giorno dell’eternità: una tortura di fuoco, che brucia lentamente anche corpi non più vivi, ma dotati di resistenza sovrannaturale, una resistenza inutile contro quella che gli umani definirebbero semplicemente piacevole.

Ashton Blackmore cavalcava veloce per raggiungere il rifugio che aveva ritrovato nei giorni di ricognizione precedenti: nonostante fosse un vampiro secolare, abbastanza forte da non temere eccessivamente la luce del sole, aveva bisogno di riposare, come la sua ragazzina umana non aveva fatto a meno di notare.

Eloise.

Io non sono Clarisse Granville.

Spronò il cavallo, alla ricerca di quel luogo isolato in cui attendere confortevolmente le tenebre, fedeli amiche, le uniche che vincevano la luce solare, nemica di una vita oltre la morte, ultimo traguardo di ogni persona e inizio per chi invece lascerà per sempre la propria umanità.

Ad attenderlo vi era una piccola radura, sconosciuta ai più per via della quasi impossibilità di raggiungerla. Lasciato il cavallo legato ad un albero, il redivivo corse attraverso i fitti boschi per raggiungere il punto in cui questi si diradavano in un piccolo spiazzale, solcato di erba verde, illuminata dai riflessi del sole appena sorto. Uno scatto fulmineo, e il vampiro fu al sicuro nella apertura che si era formata tempo addietro nelle pareti di roccia di una piccola collina ai cui piedi vi era la radura, che spiccava nell’insieme degli alti arbusti secolari del bosco. L’ambiente non era confortevole, ma almeno gli permetteva di non essere raggiunto dall’infido calore della luce del sole.

Ashton pensava all’unica, altra volta in cui era stato lì. Conosceva quel posto da sedici anni, quando vi si era recato in cerca di qualcuno che aveva bisogno di un posto tranquillo, qualcuno che lui non aveva potuto fare a meno di raggiungere. Non aveva mai più avuto il coraggio di ritornarci, non dalla morte di quella compagnia.

Come sempre, Clarisse lo sentì prima ancora che si avvicinasse, lentamente, a lei: avvertiva il piacevole profumo di rose che accompagnava la presenza di Ashton.

Blackmore di Blackmore: un nome, una storia, un odore che avrebbe potuto riconoscere ovunque. Come se ne avesse avuto bisogno; come se non avesse potuto richiamare a sé i membri di quell’antica famiglia semplicemente con un ordine.

Non lui. Non era lei a chiamarlo, sapeva di non poterlo fare e comunque non aveva provato mai. Era lui che le stava intorno, aiutandola a scoprire le sue capacità e a limare il suo talento personale con l’esperienza, l’unico vero motivo di vittoria in ogni situazione. Lui che la aiutava ad esercitare quel potere per il quale avrebbe potuto richiamare a sé un’intera schiera di creature dal sangue nero, comandandole come burattini in attesa di qualcuno che tira i fili. Un burattinaio potente, che sarebbe potuto diventare implacabile, assetato di quel potere che poteva conquistare facilmente. Ma tutto sommato, un potere così grande non sarebbe mai stato messo nelle mani di qualcuno che non avesse saputo usarlo. E Clarisse aveva intenzione di sapere.

« Ashton, sei arrivato! » lo salutò con un sorriso nella voce.

« Buonasera Clarisse » la sua voce profonda risuonò nel rifugio che la donna aveva trovato per potersi esercitare.

Non parlò più Ashton, ma rimase ad osservarla mentre si metteva alla prova. Aveva portato con sé una rosa, interrata in un vaso semplice, comune, che non dava nell’occhio. Quello che colpiva del fiore era sicuramente la sua irraggiungibile perfezione: era una rosa rossa a diffondere il suo profumo nel rifugio, grossa, e così splendida che ogni altro fiore non sarebbe riuscito a reggere il confronto. Il suo profumo si mescolava con quello del vampiro ultracentenario che non smetteva di guardarla, al punto che Clarisse pensò che potesse essere quasi nauseante per chiunque altro entrare nel suo rifugio. Per lei, invece, quella fragranza sapeva di calma, di pace. Era quello che le serviva.

Clarisse si sedette a terra, trascurando le più comuni norme di educazione che le erano state impartite. Il silenzio era così profondo – non un respiro né un sussurro provenivano dal vampiro al suo fianco – che avrebbe potuto giurare di essere sola se non avesse continuato a sentire quel ben noto profumo di rose, più inumano di quello del fiore che aveva scelto come cavia. Prese tra le mani il vaso e lo poggiò sulle sue gambe incrociate. Chiuse gli occhi.

Quella era la parte più difficile. Pensare a come evocare le nebbie di cui aveva bisogno, come imporsi su di loro. Aveva bisogno di concentrazione, certo, ma sapeva che non sarebbe bastata. Doveva sentire il suo potere farsi strada dentro di lei, concentrarsi in ogni punto del suo corpo come fluido vitale. Determinazione. Doveva sentire di potercela fare.

Fissò la rosa per un istante interminabile. Non successe niente. Nessun cambiamento, neanche il più piccolo. Niente.

Ma Clarisse era una donna forte, che non si sarebbe mai lasciata abbattere da un primo tentativo fallito. Tentò, ancora e ancora. Avrebbe tentato fino a quando non sarebbe riuscita nel suo intento. Clarisse non si arrendeva.

Ashton si sorprese a pensare a quanto gli mancava quella determinazione che amava scorgere negli occhi di Clarisse ogni volta che lei si impegnava in qualcosa.

Seduto per terra, nello stesso posto che sedici anni prima aveva accolto la donna, gli era impossibile non rivolgere la sua mente verso di lei. Non quando le parole di Eloise l’avevano riportata a lui con forza, immergendola nei suoi pensieri. Io non sono Clarisse Granville. No, certo che non lo era. E Ashton questo l’aveva sempre saputo, fin da quando lei l’aveva chiamato a sé la notte di Ognissanti. Mai aveva visto Eloise come una copia di quella donna a cui si era affezionato, sedici anni prima; mai avrebbe potuto confonderle.

Con Clarisse ancora nei suoi pensieri, vivendo i ricordi di quel periodo della sua lunga vita, Ashton lasciò che ancora una volta la scia di profumo di rosa lo trasportasse nel tempo, verso memorie mai sepolte nella sua infallibile mente sovrumana.

Ci sarebbe riuscita. Avrebbe continuato a provare fino a quando non avesse raggiunto il risultato sperato.

Eppure provare e riprovare la stancava. Senza la gratificazione di un almeno flebile risultato, ogni sforzo le costava il doppio. Sconfortata, si lasciò andare, sedendosi sulla fredda pietra e prendendosi la testa fra le mani.

Ashton si mosse così veloce che lei non potette percepirlo, terminando il suo celere movimento in un umano battito di ciglia. Si inginocchiò davanti a lei, le prese il volto tra le mani, con dolcezza, prima di passare le mani sulla sua schiena e abbracciarla. Le comunicava incoraggiamento, forza, determinazione. Puoi farcela, Clarisse. Ecco cosa le braccia del vampiro le dicevano, pur senza parole, superflue in quella situazione così intimamente intensa: erano sussurri nati per riempire il cuore, i sussurri di amici che stanno insieme, alla luce di stelle testimoni dei più innocenti affetti. Non erano mai stati così vicini.

Clarisse apprezzò quel gesto, ritrovando la fermezza d’animo necessaria per un altro tentativo. Lui intuì dal battito regolare del cuore dell’umana e dal suo respiro lento che era pronta a riprovare. Si allontanò per lasciarle spazio e si fermò fuori dalla sua visuale, così che nessun movimento la distraesse. Divenne una statua, di una bellezza sconvolgente, troppo intensa per avere qualcosa di umano; una statua immobile in quei lineamenti che non sarebbero mai mutati, immobile in una vita eterna. Immobile in una spelonca nata ai piedi di un’altura, inserita in uno scenario di cui quel vampiro costituiva una figura presente da secoli. Immobile nella sua bellezza. Ashton era bello anche in vita.

Clarisse riprese tra le mani il vaso contenente la rosa. Ad occhi chiusi, lasciò che i suoi pensieri vagassero seguendo l’istinto che aveva portato il suo potere a manifestarsi, la prima volta. Nella sua mente andavano formandosi coltri di nebbia che avevano il sapore della pura cattiveria, della crudeltà. I sentimenti del Presidio.

Clarisse lasciò che le nebbie avvolgessero la sua figura e che dalle sue mani si trasferissero al fiore. Fu solo quando sentì la consapevolezza della morte vagare nella sua mente che riaprì gli occhi. Guardò la rosa, ormai sfiorita, priva di quella vita che l’aveva resa la più bella del giardino dei Granville. I petali rossi avevano perso il loro colore, divenuti di un’anonima tonalità cromatica. La donna avvicinò il fiore al naso: neanche il più pallido odore riusciva a percepire, nessun ricordo dell’intensa vita che scorreva nelle radici interrate nel vaso e che conferiva quel profumo al suo fiore preferito.

C’era riuscita. Aveva chiamato a sé le creature del Presidio, anche se alcune tra le meno innocue, vista l’opera che doveva svolgere. Le aveva comandate. Sottomesse. Poteva controllare il suo potere.

Ashton le si avvicinò con un sorriso incantevole a rischiarargli il volto. Le porse la mano per aiutarla ad alzarsi da terra e mise in quel gesto tanto affetto, tanto sentimento, che Clarisse, in piedi, si poggiò sul suo petto, abbracciandolo dolcemente, in un’espressione di muta gratitudine. Ashton le carezzò i capelli, prima di suggerirle pacatamente di riposare per riprendersi dallo sforzo compiuto.

Ashton Blackmore era un vampiro. E i vampiri non dimenticano.

Anche se avesse voluto, non avrebbe mai potuto privarsi di quei ricordi, sprazzi di felicità in un’esistenza segnata dalla consapevolezza di dover frenare l’affetto verso gli umani, destinati ad una morte che i vampiri come lui non incontrano mai naturalmente. Il corso delle cose per lui si estendeva all’infinito, un infinito difficile da concepire per chi non lo viveva. Così come era difficile capire per un essere umano, portato a pensare che un vampiro considera gli umani con semplice indifferenza vista l’evidente superiorità conferitagli dall’immortalità, che ogni individuo incontrato nella sua eterna esistenza era diverso da ciascun altro, che Ashton non avrebbe mai dimenticato nessun uomo conosciuto, né li avrebbe confusi. Come poteva? Per lui ogni conoscenza andava a inserirsi nella trama della sua infinita vita, ogni conoscenza rappresentava un tassello di se stesso. Anche se ciò era forse incomprensibile per un semplice umano.

O una semplice umana.

Eloise.

Quella ragazzina umana non era Clarisse Granville; lui lo aveva sempre saputo.

   
 
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