Ea non sum
La notte stava per
finire, lasciando il posto ad un’alba che cominciava a colorare il paesaggio di
una tenue luminosità. Un umano a cavallo avrebbe apprezzato quella vista,
sentendo sensazioni di calma e piacevole quiete entrargli nell’animo in punta
di piedi, quasi per timore di fare troppo male, se giunte all’improvviso. Un
vampiro a cavallo, invece, aveva ben altre preoccupazioni. Correre contro il
tempo per giungere in un rifugio, impenetrabile dalla malvagia luce, e trascorrervi il giorno in attesa delle fidate
tenebre. Luce, il sorriso con cui un carnefice tranquillizza la vittima
designata prima di affondare una lama mortale in organi vitali, per i vampiri
un’eterna nemica contro cui scontrarsi ogni giorno dell’eternità: una tortura
di fuoco, che brucia lentamente anche corpi non più vivi, ma dotati di
resistenza sovrannaturale, una resistenza inutile contro quella che gli umani
definirebbero semplicemente piacevole.
Ashton Blackmore
cavalcava veloce per raggiungere il rifugio che aveva ritrovato nei giorni di
ricognizione precedenti: nonostante fosse un vampiro secolare, abbastanza forte
da non temere eccessivamente la luce del sole, aveva bisogno di riposare, come
la sua ragazzina umana non aveva
fatto a meno di notare.
Eloise.
Io
non sono Clarisse Granville.
Spronò il cavallo, alla
ricerca di quel luogo isolato in cui attendere confortevolmente le tenebre,
fedeli amiche, le uniche che vincevano la luce solare, nemica di una vita oltre
la morte, ultimo traguardo di ogni persona
e inizio per chi invece lascerà per sempre la propria umanità.
Ad attenderlo vi era
una piccola radura, sconosciuta ai più per via della quasi impossibilità di
raggiungerla. Lasciato il cavallo legato ad un albero, il redivivo corse
attraverso i fitti boschi per raggiungere il punto in cui questi si diradavano
in un piccolo spiazzale, solcato di erba verde, illuminata dai riflessi del
sole appena sorto. Uno scatto fulmineo, e il vampiro fu al sicuro nella apertura
che si era formata tempo addietro nelle pareti di roccia di una piccola collina
ai cui piedi vi era la radura, che spiccava nell’insieme degli alti arbusti
secolari del bosco. L’ambiente non era confortevole, ma almeno gli permetteva
di non essere raggiunto dall’infido calore della luce del sole.
Ashton
pensava all’unica, altra volta in cui era stato lì. Conosceva quel posto da sedici
anni, quando vi si era recato in cerca di qualcuno che aveva bisogno di un
posto tranquillo, qualcuno che lui non aveva potuto fare a meno di raggiungere.
Non aveva mai più avuto il coraggio di ritornarci, non dalla morte di quella compagnia.
Come
sempre, Clarisse lo sentì prima ancora che si avvicinasse, lentamente, a lei: avvertiva
il piacevole profumo di rose che accompagnava la presenza di Ashton.
Blackmore
di Blackmore: un nome, una storia, un odore che avrebbe potuto riconoscere
ovunque. Come se ne avesse avuto bisogno; come se non avesse potuto richiamare
a sé i membri di quell’antica famiglia semplicemente con un ordine.
Non lui. Non era lei a chiamarlo, sapeva di non
poterlo fare e comunque non aveva provato mai. Era lui che le stava intorno,
aiutandola a scoprire le sue capacità e a limare il suo talento personale con
l’esperienza, l’unico vero motivo di vittoria in ogni situazione. Lui che la
aiutava ad esercitare quel potere per il quale avrebbe potuto richiamare a sé
un’intera schiera di creature dal sangue nero, comandandole come burattini in
attesa di qualcuno che tira i fili. Un burattinaio potente, che sarebbe potuto
diventare implacabile, assetato di quel potere che poteva conquistare
facilmente. Ma tutto sommato, un potere così grande non sarebbe mai stato messo
nelle mani di qualcuno che non avesse saputo usarlo. E Clarisse aveva
intenzione di sapere.
«
Ashton, sei arrivato! » lo salutò con un sorriso nella voce.
«
Buonasera Clarisse » la sua voce profonda risuonò nel rifugio che la donna
aveva trovato per potersi esercitare.
Non
parlò più Ashton, ma rimase ad osservarla mentre si metteva alla prova. Aveva
portato con sé una rosa, interrata in un vaso semplice, comune, che non dava
nell’occhio. Quello che colpiva del fiore era sicuramente la sua
irraggiungibile perfezione: era una rosa rossa a diffondere il suo profumo nel rifugio, grossa, e
così splendida che ogni altro fiore non sarebbe riuscito a reggere il
confronto. Il suo profumo si mescolava con quello del vampiro ultracentenario
che non smetteva di guardarla, al punto che Clarisse pensò che potesse essere
quasi nauseante per chiunque altro entrare nel suo rifugio. Per lei, invece,
quella fragranza sapeva di calma, di pace. Era quello che le serviva.
Clarisse
si sedette a terra, trascurando le più comuni norme di educazione che le erano
state impartite. Il silenzio era così profondo – non un respiro né un sussurro
provenivano dal vampiro al suo fianco – che avrebbe potuto giurare di essere
sola se non avesse continuato a sentire quel ben noto profumo di rose, più inumano
di quello del fiore che aveva scelto come cavia. Prese tra le mani il vaso e lo
poggiò sulle sue gambe incrociate. Chiuse gli occhi.
Quella
era la parte più difficile. Pensare a come evocare le nebbie di cui aveva
bisogno, come imporsi su di loro. Aveva bisogno di concentrazione, certo, ma
sapeva che non sarebbe bastata. Doveva sentire il suo potere farsi strada
dentro di lei, concentrarsi in ogni punto del suo corpo come fluido vitale.
Determinazione. Doveva sentire di potercela fare.
Fissò
la rosa per un istante interminabile. Non successe niente. Nessun cambiamento,
neanche il più piccolo. Niente.
Ma Clarisse era una
donna forte, che non si sarebbe mai lasciata abbattere da un primo tentativo
fallito. Tentò, ancora e ancora. Avrebbe tentato fino a quando non sarebbe
riuscita nel suo intento. Clarisse non si arrendeva.
Ashton si sorprese a
pensare a quanto gli mancava quella determinazione che amava scorgere negli
occhi di Clarisse ogni volta che lei si impegnava in qualcosa.
Seduto per terra, nello
stesso posto che sedici anni prima aveva accolto la donna, gli era impossibile
non rivolgere la sua mente verso di lei. Non quando le parole di Eloise
l’avevano riportata a lui con forza, immergendola nei suoi pensieri. Io non sono Clarisse Granville. No, certo
che non lo era. E Ashton questo l’aveva sempre saputo, fin da quando lei
l’aveva chiamato a sé la notte di Ognissanti. Mai aveva visto Eloise come una
copia di quella donna a cui si era affezionato, sedici anni prima; mai avrebbe
potuto confonderle.
Con
Clarisse ancora nei suoi pensieri, vivendo i ricordi di quel periodo della sua
lunga vita, Ashton lasciò che ancora una volta la scia di profumo di rosa lo
trasportasse nel tempo, verso memorie mai sepolte nella sua infallibile mente
sovrumana.
Ci
sarebbe riuscita. Avrebbe continuato a provare fino a quando non avesse
raggiunto il risultato sperato.
Eppure
provare e riprovare la stancava. Senza la gratificazione di un almeno flebile
risultato, ogni sforzo le costava il doppio. Sconfortata, si lasciò andare,
sedendosi sulla fredda pietra e prendendosi la testa fra le mani.
Ashton
si mosse così veloce che lei non potette percepirlo, terminando il suo celere
movimento in un umano battito di ciglia. Si inginocchiò davanti a lei, le prese
il volto tra le mani, con dolcezza, prima di passare le mani sulla sua schiena
e abbracciarla. Le comunicava incoraggiamento, forza, determinazione. Puoi
farcela, Clarisse. Ecco cosa le braccia
del vampiro le dicevano, pur senza parole, superflue in quella situazione così
intimamente intensa: erano sussurri nati per riempire il cuore, i sussurri di
amici che stanno insieme, alla luce di stelle testimoni dei più innocenti affetti.
Non erano mai stati così vicini.
Clarisse
apprezzò quel gesto, ritrovando la fermezza d’animo necessaria per un altro
tentativo. Lui intuì dal battito regolare del cuore dell’umana e dal suo
respiro lento che era pronta a riprovare. Si allontanò per lasciarle spazio e
si fermò fuori dalla sua visuale, così che nessun movimento la distraesse. Divenne
una statua, di una bellezza sconvolgente, troppo intensa per avere qualcosa di
umano; una statua immobile in quei lineamenti che non sarebbero mai mutati,
immobile in una vita eterna. Immobile in una spelonca nata ai piedi di
un’altura, inserita in uno scenario di cui quel vampiro costituiva una figura
presente da secoli. Immobile nella sua bellezza. Ashton era
bello anche in vita.
Clarisse
riprese tra le mani il vaso contenente la rosa. Ad occhi chiusi, lasciò che i
suoi pensieri vagassero seguendo l’istinto che aveva portato il suo potere a
manifestarsi, la prima volta. Nella sua mente andavano formandosi coltri di
nebbia che avevano il sapore della pura cattiveria, della crudeltà. I
sentimenti del Presidio.
Clarisse
lasciò che le nebbie avvolgessero la sua figura e che dalle sue mani si
trasferissero al fiore. Fu solo quando sentì la consapevolezza della morte
vagare nella sua mente che riaprì gli occhi. Guardò la rosa, ormai sfiorita,
priva di quella vita che l’aveva resa la più bella del giardino dei Granville.
I petali rossi avevano perso il loro colore, divenuti di un’anonima tonalità
cromatica. La donna avvicinò il fiore al naso: neanche il più pallido odore riusciva
a percepire, nessun ricordo dell’intensa vita che scorreva nelle radici
interrate nel vaso e che conferiva quel profumo al suo fiore preferito.
C’era riuscita. Aveva chiamato a sé le creature del
Presidio, anche se alcune tra le meno innocue, vista l’opera che doveva
svolgere. Le aveva comandate. Sottomesse. Poteva controllare il suo potere.
Ashton le si avvicinò
con un sorriso incantevole a rischiarargli il volto. Le porse la mano per
aiutarla ad alzarsi da terra e mise in quel gesto tanto affetto, tanto
sentimento, che Clarisse, in piedi, si poggiò sul suo petto, abbracciandolo
dolcemente, in un’espressione di muta gratitudine. Ashton le carezzò i capelli,
prima di suggerirle pacatamente di riposare per riprendersi dallo sforzo
compiuto.
Ashton Blackmore era un
vampiro. E i vampiri non dimenticano.
Anche se avesse voluto,
non avrebbe mai potuto privarsi di quei ricordi, sprazzi di felicità in
un’esistenza segnata dalla consapevolezza di dover frenare l’affetto verso gli
umani, destinati ad una morte che i vampiri come lui non incontrano mai
naturalmente. Il corso delle cose per lui si estendeva all’infinito, un
infinito difficile da concepire per chi non lo viveva. Così come era difficile
capire per un essere umano, portato a pensare che un vampiro considera gli
umani con semplice indifferenza vista l’evidente superiorità conferitagli
dall’immortalità, che ogni individuo incontrato nella sua eterna esistenza era
diverso da ciascun altro, che Ashton non avrebbe mai dimenticato nessun uomo
conosciuto, né li avrebbe confusi. Come poteva? Per lui ogni conoscenza andava
a inserirsi nella trama della sua infinita vita, ogni conoscenza rappresentava
un tassello di se stesso. Anche se
ciò era forse incomprensibile per un semplice umano.
O una semplice umana.
Eloise.
Quella ragazzina umana non era Clarisse
Granville; lui lo aveva sempre saputo.