Buongiorno
gente, il nono capitolo de “L'ultima estate” è già pronto. Ho
deciso di pubblicarlo oggi poiché prossimamente sarò alquanto
impegnata e vi avrei fatto aspettare troppo l'aggiornamento!
Nonostante le poche
recensioni che ricevo per capitolo ammetto che mi piace sempre
scrivere questa storia strana e densa. E se continuo a postare è
merito di quelle anime che con le loro parole mi spronano ad andare
avanti ogni volta, perciò rinnovo i miei ringraziamenti. Spero prima
o poi di poter sapere qualcosa sulla fanfiction anche da chi l'ha
messa tra le seguite o preferite e non s'è mai fatto sentire...sono
proprio curiosa! Insomma, da autrice è sempre bello ricevere le
opinioni dei lettori, ci vivo delle vostre parole e se non ci
sono...bè mi demoralizzo subito.
Il capitolo che vi apprestate a
leggere è un susseguirsi di scene prevalentemente passate (a parte
le prime due e l'ultima): vedremo riapparire in scena la Ino del
passato e il Kakashi del presente, oltre che il Sasuke del passato e
un po' di sano team 7.
Allora Buona Lettura gente, spero possa essere di vostro
gradimento!
Senza
che me ne accorgessi erano passate due settimane dal mio arrivo a
Konoha.
Le mie straordinariamente lunghe – e obbligate –
vacanze estive stavano scivolando via rapide come granelli di
sabbia sulle dita ma dense come olio.
Quell'anno eravamo
giunti in tanti a Konoha. Eravamo quasi tutti tornati in
patria, come tanti soldati sopravvissuti al fronte. Nelle menti lo
schok delle nostre guerre quotidiane e il vuoto delle cose non
vissute.
Capitolo nove. Come soldati che tornano dal
fronte
Non
avendo nulla da fare e volendo per forza inventarmi un passatempo ero
andata al piano di sopra, in camera di Naruto, e avendola trovata
vuota ero entrata come una spia e avevo cominciato a guardarmi un po'
in giro fino a che la mia attenzione non si era posata su di un album
appoggiato al comodino.
Era meglio se mi facevo i fatti miei
perchè mi ritrovai davanti ad un album fotografico di vecchia data,
un po' sgualcito ma intatto in ogni sua foto.
Prima ancora
di aprire la prima pagina dell'album seppi a cosa andavo incontro,
era così facile intuirlo. Dovevo solo scoprire chi ci sarebbe stato
in prima pagina...io o Sasuke? O tutti e tre?
Provai una strana
sensazione pensando a quanto le mani di Naruto fossero passate su
quell'album e quanto i suoi occhi si fossero posati sulle sue
foto. Era davvero così nostalgico? Teneva l'album sul comodino
affianco al letto come un individuo qualsiasi tiene la sveglia.
Io,
a Los Angeles, avevo rovesciato la foto che ritraeva il trio e
ora rivolgeva verso di me solo la cornice in legno.
La prima foto
era dedicata a Sasuke, quando la vidi ricordai subito il momento e il
luogo in cui era stata scattata e mi abbandonai ai ricordi come una
vecchia alla fine della sua vita.
In quella immagine Sasuke aveva
diciassette anni, era il ragazzo che Naruto ed io avremmo perso di lì
a poco; non sorrideva all'obiettivo né lo guardava, sembrava invece
fissare un punto al di là dell'improvvisato fotografo – Kakashi -:
quel punto ero io; ricordai che cercavo di farlo sorridere
puntandogli un dito contro. Che razza di furba. Era sera, eravamo
appena tornati da una gita appena fuori Konoha in un luogo incantato
bagnato da un fiume, e avevamo tanto riso – sì, anche Sasuke,
seppur in maniera assai minore – avevamo tanto parlato – sì,
anche Sasuke, con molti più monosillabi – e avevamo fatto tanti
stupidi progetti – no, Sasuke no, Sasuke aveva ascoltato... anzi,
aveva detto qualcosa in merito ad una sua fuga, non lo eravamo stati
ad ascoltare.
Uchiha Sasuke era nel pieno della sua bellezza, in
quello scatto. Con quella sua superba espressione e le labbra appena
socchiuse, gli occhi nerissimi che incrociavano i miei, le spalle
leggermente piegate in avanti, le mani in tasca dei jeans scuri, la
camicia semi aperta, quell'aria da latin lover mancato. Perchè
Sasuke non muoveva un dito per essere così dannatamente
affascinante. Aveva mosso un dito solo per prendermi bruscamente,
per rapirmi dal cuore di Naruto con determinazion quando meno me lo
aspettavo, quando ormai avevo quasi deciso di fare io la prima
fottutissima mossa.
Voltai velocemente pagina, ricominciando a
respirare.
e mi vidi.
Ero una dodicienne imbronciata che
squadrava l'obiettivo.
Ebbi l'impressione di volermi dare
fuoco.
Povero Naruto, che si ritrovava di fronte una tal furia.
Mi
invase un enorme sconforto.
Non ero né solare né bella in tale
foto, anzi. E potevo immaginare anche con chi ce l'avessi: con
Naruto, ovviamente, chissà cosa non mi aveva fatto.
Probabilmente i suoi complimenti a raffica o la sua mancanza di tatto
verso un mio scatto precedente non particolarmente riuscito.
A
dir la verità mi mancava più questo suo lato infantile e imbranato
che mi mandava infantilmente su tutte le furie.
Nella pellicola
dopo era stata messa una foto di Kakashi con il classico libro in
mano, leggeva in continuazione. Non degnava di uno sguardo colui che
io ricordavo essere il biondo fotografo dalla mano inferma.
Sorrisi.
Alla foto dopo c'eravamo noi tre, ne avevo una copia
pure io. Era nella cornice sul comodino a Los Angeles. Eravamo
vestiti coi grembiuli di scuola. Piccoli e così diversi l'uno
dall'altro, già con le peculiarità di adesso: chi sorrideva a
trentadue denti, chi corrucciava la bocca, chi sorrideva raggiante e
con le guance arrossate.
La suoneria del cellulare mi fece
sobbalzare. Neanche ricordavo di averne uno, figuriamoci di averlo
messo in tasca dei jeans.
Il nome di Gaara comparve nello schermo
illuminato a intermittenza: per poco non presi un colpo. Sabaku No
Gaara che chiamava qualcuno col telefonino, per giunta dall'altra
parte del mondo? Riuscì a farmi quasi sorridere di gusto.
-
Ehi... - sussurrai decidendo che non potevo non rispondere alla
chiamata.
- ...Sakura? - mi domandò una voce bassissima e
lontanissima. Si prendeva male.
- No, guarda... - risposi
ridendoci sopra. Sinceramente.
Questa non me l'aspettavo proprio.
- Tutto bene? -
Fu diretto, d'altronde non erano
proprio da lui i giri di parole.
Mi aveva obbligato anche lui ad
accettare da Tsunade quelle lunghe ferie promettendomi di fare anche
alcuni dei miei turni assieme a chi mi avrebbe sostituito in parte,
un certo Sai, uno strano chirurgo che vagava di ospedale in ospedale
sempre con un quaderno degli appunti in mano, nella quale disegnava
cuori, valvole, arterie e anche i ritratti di chiunque incontrasse,
specialmente dei pazienti. Lo avevo conosciuto due giorni prima di
partire e a parte l'aria apparentemente minacciosa mi aveva fatto una
impressione abbastanza buona.
Mi ricordai solo dopo un po' di
secondi di rispondere a Gaara. Io e il mio assentarmi
mentalmente...ero insopportabile.
- Abbastanza, dai – risposi né
troppo euforica né troppo dismessa. Mentii in parte ma non davvero
sapevo cosa avrei potuto dirgli: da una parte a Konoha assaporavo una
assurda pace, dall'altra il mare dei ricordi e delle sensazioni a
volte mi travolgeva.
- Qua tutto procede perfettamente –
Gaara
stava lavorando il doppio anche per me, oltre che per un suo bisogno
[lui necessitava delle ore di lavoro che lo ponevano di fronte
alla ragione stancandolo perchè chissà quali fantasmi lo
rincorrevano o lo avevano rincorso in passato].
- Grazie – dissi
perciò impulsivamente, abbassando la voce – davvero -
- Lo sai
che non mi piace sentirmelo dire – fu l'aspettata risposta.
Annuii,
figurandomi l'espressione contrariata del mio rosso collega di
lavoro, del mio compagno di serate insonni davanti ad una tazza di
camomilla.
Mi venne improvvisamente da chiedergli di suo fratello,
se alla fine avesse deciso di farsi operare. Esitai. D'altronde non
c'era quella relazione aperta, tra noi due, ma era tutto un
sottinteso.
- Cinque giorno fa ho operato Kankuro -
Mi aveva
letto nel pensiero, ecco al dimostrazione dei nostri sottintesi.
Per
poco non mi venne da piangere.
Mi bruciarono gli occhi mentre
cercavo le parole più o meno giuste da dirgli e mi venne un semplice
d
- Bene così – detto a voce roca.
Il respiro appena
percettibile di Gaara giunse al mio orecchio provocandomi una strana
sensazione di familiarità.
- Ora ha cominciato la
riabilitazione, starà dentro ancora per almeno tre settimane –
aggiunse stupendomi sempre più.
Mi stropicciai gli occhi che
stupidi stavano per lacrimare.
Volevo dirgli che ero orgogliosa di
lui, come una mamma chioccia di un film tipicamente americano,
neanche lo conoscessi da una vita eppure mi sembrava sul serio di
essergli stata affianco da anni e anni.
Accidenti, non sapevo se
in qualche modo gioirne, del piccolo pezzo di me che evidentemente
avevo lasciato a Los Angeles.
In fondo, più persone lasciavo che
accedessero a me e a più dolore sarei andata incontro: avevo dunque
fallito. Fallito. Non ero stata quel pezzo di ghiaccio insolubile che
mi ero proposta di essere: che obiettivo impossibile mi ero mai
prefissata?
- Saluta da parte mia quel generale di Tsunade e pure
Jiraya, ok? - gli ordinai invece.
- Sarà fatto – obbedì e me
lo figuravo socchiudere gli occhi e interiorizzare l'ordine.
Sicuramente
sarebbe andato vicino a Tsunade e telegraficamente gli avrebbe
riportato il mio cordiale saluto.
Gaara: aveva fatto passi
avanti.
In quel momento non pensai che forse ero stata anche
io coi miei silenzi e con i sottintesi incoraggiamenti a insistere
con suo fratello affinchè questi prendesse spontaneamente la
decisione di operarsi a dargli una mossa, a fargli risolvere il
problema. Almeno in parte.
In quel momento ascoltai la voce di
Gaara che mi salutava e in ultimo mi raccomandava di dormire
e non bere camomille. Nel mio egoismo riuscii a ringraziarlo anche di
questo.
- Grazie, Gaara–
- A presto, Sakura -
Hinata
ed io eravamo andate assieme in centro, avevamo visto vetrine
imbandite di vestiti estivi e ne avevo addirittura provato qualcuno.
Ora, seduta di fronte a lei in uno dei tanti piccoli bar del
caratteristico centro di Konoha, mi sentivo piacevolmente
esausta.
Era stata lei a propormi di andare con lei a “fare
shopping” quel pomeriggio sul tardi. Avevo accettato quasi
immediatamente, non avevo potuto dire di no a quegli occhioni chiari
che m'imploravano.
Probabilmente mi volevano parlare.
- Ho
ripensato alla tua domanda – esordì Hinata dopo un silenzio che
m'era sembrato interminabile e accarezzò con le mani il bicchiere
dell'acqua tonica.
- Ah sì? - dissi io senza enfasi e senza
pensarci.
Si riferiva alla mia schietta domanda su Neji. Mi aveva
risposto che gli piaceva, però poi aveva subito negato.
Non
capivo.
- Tu non sai molto di Neji –
Hinata puntò lo
sguardo nel mio, aveva qualcosa di nuovo, pareva arrabbiata.
- So
che è un ragazzo educato e per bene....vive a New York...ti aiuterà
nel dirigere l'azienda e... - mi fermai, sapevo così poche cose in
effetti. Nemmeno quando vivevo a Konoha mi ero informata troppo sulla
famiglia di Hinata, lei era sempre così riservata.
- Vivete tutti
a New York, ora vero? - domandai.
- Sì, Neji abita con noi. Devi
sapere che ho deciso di dare a lui pieni poteri in merito alla
direzione del nostro marchio -
Ricordai che gli Hyuuga avevano
dato la firma ad una marca di tessuti pregiati e che da decenni
concorrevano con le maggiori firme Medio Oriente. Il tutto era
partito dal bisnonno di Hinata il quale era un semplice pastore e
artigiano, amava le sue capre come i suoi figli. Sua moglie aveva un
laboratorio dove tesseva, assieme a diverse alte donne del paese. In
breve cominciarono a produrre in eccedenza, dovettero ingrandire il
laboratorio che divenne un capannone e con gli anni un'azienda.
Vennero assunti operai, fondate altri laboratori fuori Konoha, fuori
isola, nel mondo. Piano piano ma con successo. La materia prima
arrivava dai migliori terreni di pascolo del mondo, con astuzia e
rigore gli Hyuuga erano diventati ricchi.
Pensai che detta così
la cosa era riduttiva, non dava sfogo a ciò che quella famiglia era
riuscita a fare veramente, ma non riuscivo nemmeno io ad immaginare
la portata di quell'industria di tessuti partita dal nulla.
-
Cosa? - arrivai in ritardo. Capii diversi istanti dopo cosa mi avesse
detto Hinata.
- Non me la sento di fare tutto da sola, lo aiuterò
ma sarà lui il responsabile – disse pacata e per nulla delusa.
Anzi, sollevata.
- Una volta mi dicesti che non avresti mai
lasciato che tuo padre mettesse Neji a capo dell'industria – mi
ricordai e le ricordai.
- Sono cambiate molte cose, Sakura -
Gli
occhi di Hinata brillarono.
- E' stata la convivenza con lui
a cambiare le cose?
-
Lei annuì e arrossì abbassando il capo.
Chissà cosa stava
pensando, chissà cosa aveva passato, chissà quali storie
intrecciavano la sua vita.
Mi piaceva ancora ascoltare gli altri,
potevo catapultarmi in altre esistenze, dimenticare la mia, così
inutile.
- All'inizio non ci rivolgevamo parola, sai, lui girava
alla larga da me e mia sorella. Quest'ultima però cominciò ad
andargli vicina, un giorno, se ne era innamorata – Hinata sorrise –
allora dovetti vigilare su di lei, stetti accanto a lei e a loro. Fu
una situazione strana, continuavo a dire a mia sorella di togliersi
dalla testa nostro cugino anche se da un lato il mio cuore voleva che
a lei toccasse sposarlo. Non amavo Neji e lui non amava me. Ci
guardavamo appena, e di nascosto. Un giorno dovevo chiamarlo a cena,
salii in camera sua e aprii la porta non sentendo rumori all'interno.
Lo trovai in piedi al centro della stanza, tutto solo. Era la prima
volta che eravamo soli. Lo vidi triste, gli occhi rossi. Non so cosa
mi prese, avanzai e gli andai dinnanzi. Alzò la testa, Neji e fissò
i propri occhi chiari nei miei, così identici -
Sembrava una
storia da film.
Mi emozionai come una bambina
- Poi? -
-
Senza dire una parola mi prese per un polso e mi fece piombare su di
lui -
Immaginai. Non capii. Ma non si parlavano? Cos'era
successo?
Sentii il mio cuore battere forte, com'ero sciocca ad
emozionarmi ancora per le storie altrui...
- Così...subito? Ma...
-
Hinata mi guardò
comprensiva, pensai che stesse pensando che era ovvio che io non
capivo. Perchè io non ero lì, non avevo vissuto la presenza
costante di Neji sulla pelle.
- Credo che in quel momento avesse
bisogno di me. Parlammo a lungo, quella sera prima di cena. Mi disse
tante di quelle cose che io...io ora non ricordo. Fu straordinario.
Mio padre quando ci vide arrivare giù a cena vicini, silenziosi e
accaldati fece un sorriso strano, non mi piacque eppure non mi diede
il fastidio che invece doveva darmi. Fortunatamente Hanabi non c'era,
avevo paura del suo sguardo indagatore. I giorni dopo Neji fece come
se non fosse successo niente, ma piano cominciammo a parlarci, sai.
Scoprii che non aveva un buon rapporto con il padre, un padre
imperatore come il mio. Scoprii che non era il ragazzo freddo che
sembrava. Scoprii che eravamo più simili di quanto sembrava. Eppure
così opposti. Lui coraggioso, superbo, astuto. Io fragile, senza
autostima, incapace di dire le mie ragioni a mio padre. Ci aiutammo
molto, in quel periodo che passammo assieme tra Università e casa -
- Assurdo come possano cambiare le cose – sussurrai, ma non
riuscivo a formulare immagini concrete su Hinata e Neji. Non avevo
abbastanza dati.
- Da quella volta io...io sto bene con Neji. Lui
è gentile con me. E... sai Sakura, è come se fosse tutto sospeso.
Viviamo assieme da sette anni, ormai. Stessa casa, stesso lavoro.
Litighiamo, mangiamo, viviamo assieme. Ed è tutto sospeso...
-
Sospeso
-
Conoscevo bene, quel termine, erano anni che io esistevo
sospesa. Sospesa tra il non sapere e il sapere di Sasuke Uchiha. Tra
il volerlo e il non poterlo avere.
- Ti sei affezionata a lui -
-
Ssì -
- Però non sai dirmi se lo ami. E' questo che volevi
dirmi, vero? -
Hinata annuì energicamente ma non alzò la
testa.
Capii, almeno in parte.
Ero convinta che l'affetto
avesse mille sfumature. E che non tutte le sfumature potessero essere
chiamate amore.
Probabilmente il suo vero amore era sempre e
ancora Naruto, ma nella vita entravano gli imprevisti, nuove persone
a cui poter regalare amore, da cui ricevere qualcosa. Nuovi affetti,
con la a minuscola. Ma pur sempre affetti.
03 Giugno 1996 – terzo anno di liceo – ore 13.20
Ino
salutò Sakura con la promessa – ordine - di chiamarla quello
stesso pomeriggio per organizzare una serata fuori e si avviò verso
casa a piedi.
Era una giornata già estiva e il sole capriccioso
picchiava forte sull'altrettanto capricciosa Ino che prontamente tirò
fuori dalla tasca davanti del leggero zaino i tanto amati Rayban.
Li
indossò con un sospiro compiaciuto: si adorava con gli occhiali da
sole.
Sbottonò un poco la camicetta a quadretti azzurra e bianca
e si sentì pronta ad affrontare quel breve tratto di strada che la
separava dalla fresca casa. Faceva quel rito di sistemarsi ogni fine
scuola, quasi avesse dovuto andare incontro al principe azzurro. Ma
in effetti lei sperava davvero di incontrare qualcuno,
soprattutto ora
che stava giungendo l'estate.
Ad ogni modo quel giorno uscì dal
cortile della scuola senza pensare al principe azzurro, non presagiva
nessun arrivo, nessun cavallo bianco per lei, quel giorno. Il giorno
prima aveva anche chiesto a Sasuke se per caso suo fratello fosse
tornato ma questi aveva alzato le spalle.
E, anche se fosse stato,
lei era pronta. O almeno, credeva di esserlo.
- Yamanaka Ino -
Le
parve di udire la propria voce tra la folla, si girò di scatto ma
niente, solamente il suo amico Chocji che la salutava con la paffuta
mano sferzante l'aria tiepida. Affianco a questi se ne stava
Shikamaru Nara, con le spalle un po' curve ed una mano a coprirsi dal
sole – quale
seccatura
– mentre bofonchiava chissà cosa all'amico, probabilmente –
ipotizzò con stizza Ino - di non salutare “miss Yamanaka che non
c'era per nessuno”. Ino ricambiò il salito di Chiocj con un
sorriso spontaneo mentre fece la linguaccia a quel rompiscatole
di
Shikamaru, sempre a prenderla in giro, sempre a detestarla. Dopo di
che, con una sferzata della sua coda alta, si girò e puntò oltre
l'uscita della scuola, verso il marciapiede che l'avrebbe condotta
sana e salva
a casa.
- Yamanaka -
Credette di avere le allucinazioni ma
stavolta non si girò continuando a guardare dritta davanti a sé a
testa alta, squadrando tutto e tutti dall'alto in basso. Cominciò ad
odiare quel sole picchiante sulla testa e a sentire fastidiosi
brontolii di pancia.
Passando accanto ad un gruppo di studenti in
attesa della corriera provocò le più disparate solite reazioni: dai
sospiri maschili, ai fischi di apprezzamento, ai grugnii femminili.
Nonostante tutte le ragazze del liceo portassero obbligatoriamente la
divisa scolastica, come portava a lei la gonna corta con le calze
bianche non la portava a nessuno, per disinvoltura ed eleganza.
-
Yamanaka Ino -
Alla terza volta che udì il suo nome alzò un
sopracciglio fissando malamente un ragazzino timido e impaurito di
prima liceo che le aveva appena tagliato la strada mettendolo in
fuga.
“Le disequazioni mi hanno dato alla testa, lo sapevo io”
disse tra sé facendo una smorfia al ripensare al compito appena
svolto: un vero
schifo,
a detta di lei che aveva aperto il libro il pomeriggio prima su
ordine di Sakura.
“Un tre in arriv...”
Si sentì bloccata
da un tocco freddo sul braccio: si spinse inutilmente in avanti
mentre le sfuggiva di bocca una parolaccia.
- Che cazzo... -
Si
tolse bruscamente dalla misteriosa presa e si voltò a osservare chi
era quello screanzato
che la voleva molestare;
ma
la sua rabbiosa espressione cozzò contro un volto noto.
Un occhio
ero e uno azzurro, sopracciglia appena delineate, volto etereo,
labbra sottili...
- Ino Yamanaka -
- Itachi Uchiha -
La sua
voce si mischiò a quella radiofonica del ragazzo da poco arrivato da
Los Angeles.
Quel
giorno non lo aspettava il principe azzurro. O no?
Rimase
per un attimo scioccata, si sistemò meccanicamente un ciuffo ribelle
di capelli dietro l'orecchio e schioccò la lingua contro il palato
con soddisfazione nell'osservare dal basso all'alto l'uomo che aveva
dinnanzi.
Poi un sorriso le illuminò il viso già maturo.
- Ti
ho spaventata? -
Ino scosse la testa facendo oscillare
energicamente la coda di qua e di là al che Itachi curvò appena le
labbra: si era
ricordato di quel particolare.
Gli era mancato.
Il viaggio di ritorno dall'università era stato
lungo e pure turbolento, gli avevano rimandato il volo di cinque ore,
ma la luce emanata dalla ragazza lo invase levandogli via ogni
fatica.
Non lo avrebbe mai detto. O
forse sì?
-
No no, anzi! -
rispose Ino con voce squillante ormai tornata in pieno possesso delle
sue facoltà.
Sprizzava gioia da tutti i pori e non si vergognava
affatto di ciò.
Stava parlando il ragazzo di otto anni più
grande di lei per il quale aveva un'adorazione dai tempi delle
elementari e che lei ogni estate aspettava con sempre più grande
trepidazione.
Se alle medie e nei primissimi anni di liceo era
stata un'attesa di un qualcosa ancora irraggiungibile, ora
l'obiettivo era più vicino: lei era cresciuta. Ino al compimento dei
suoi sedici anni si era detta di cominciare a osare
con il maggiore degli Uchiha. Non ce la faceva più ad aspettare e
l'estate più importante era giunta, dopo un'attesa snervante e
lunghissima.
Era un anno che non si vedevano; Itachi infatti non
era tornato a casa nemmeno per Natale quell'anno. Lei ne era rimasta
delusa e lungo si era sfogata con Sakura nei bui pomeriggi
d'inverno.
- Ti vedo bene – asserì Itachi che immediatamente
dopo all'aver pronunciato una frase simile si morse l'interno delle
labbra domandandosi cosa
diavolo gli fosse preso.
Non
aveva preso in considerazione che il rivedere quella
ragazzina
lo potesse in qualche modo mettere
in difficoltà.
Eppure per lui niente rappresentava una difficoltà.
Dall'estate
precedente se la ricordava ancora poco più che bambina. Fece un
veloce calcolo mentale di quanti anni dovesse avere ora la Yamanaka e
arrivò alla conclusione che ne dovesse avere sedici. E allora come
era possibile che fosse
così cambiata?
La
osservò attentamente; apparentemente era il tipino biondino di
sempre, con gli occhi di cielo e il naso superbo ma era come se tutto
di
lei si fosse diventato più evidente,
più maturo.
Ino
si accorse dello sguardo inconsciamente compiaciuto
del
ragazzo e gioì silenziosamente complimentandosi con se stessa. Una
volta non la osservava così, una volta...era
quasi paterno; ma
la ragazza notò con un tremito che paterno lo era ancora.
- Posso
dire altrettanto... – soffiò sporgendosi in avanti col busto, più
vicina all'uomo - ...anche se quelle occhiaie... hai bisogno di
riposarti, si vede – concluse e resistette alla voglia di tracciare
con mano quelle mezze lune appena accennate sotto i
suoi
occhi.
- Sì, ho solo appoggiato la valigia prima a casa ma ora
vado a dormire –
Itachi si passò una mano tra i lisci capelli
neri e li portò indietro rendendo visibile la fronte leggermente
sudata. Aveva caldo e sudava come
un dannato,
probabilmente non solo per l'afa incombente.
La ragazza provò uno
strano moto di compassione
che la portò a invitarlo ad andare a riposarsi, ad
allontanarsi subito da lei.
Si
chiese cosa diavolo le fosse preso. Perdere un'occasione così.
-
Vado –
Ino anuì, spostandosi sulla sinistra del marciapiede
per lasciar passare Itachi che aveva proprio tutta l'aria di
volersene andare. Per sempre. Le aveva sempre dato quell'impressione,
sarà stato anche perchè l'aveva sempre visto partire.
- Ci si
vede? - gli domandò, scrutandolo in volto.
Non ci furono
cambiamenti d'espressione, solo un battito di ciglia scure.
-
Salutami Inoichi – fu invece la risposta. Dopo di che Itachi si
incamminò dal lato opposto a quello in cui doveva andare a lei,
verso quell'enorme villa fuori dal centro, fuori dal caos.
Per lei
era un eccitante mistero, quel villone.
Da piccola credeva vi
abitassero i fantasmi, ora non vedeva l'ora di poterci andare sola
con lui.
Per
conto suo Itachi si domandò se per caso non avesse fatto un cazzata
ad andare incontro ad Ino con tanta determinazione, la stanchezza gli
aveva giocato brutti scherzi.
Non aveva avuto una ragione precisa
per intercettare la Yamanaka, se non una specie di annua tradizione,
se non una impulsività che mica gli era propria.
Non aveva
nessuna voglia, però, di darle delle possibilità. Non poteva mica
essersi dimenticata di lui, in tutti quei mesi, dunque doveva ancora
essere l'oggetto della sua assurda cotta
infantile che si era trasformata in adolescenziale.
Probabilmente,
se aveva sbagliato qualcosa nel suo rapportarsi con lei, aveva
sbagliato molti anni prima, quando era un bambino delle elementari e
lei se ne andava all'asilo tutta orgogliosa rifiutandosi di dare la
mano a sua madre. Fu in una di quelle volte che passando in bici
aveva salutato la signora Yamanaka che Ino doveva essere rimasta
folgotrata.
A Itachi questo sapeva tanto di uno strano scherzo del
destino.
Non volle preoccuparsi oltre.
E probabilmente questo
si sarebbe rivelato il suo sbaglio più grande.
3
giugno 1998 – ore 11.30
Sasuke
Uchiha accompagnò la sua ragazza fino alla porta di casa, si chiese
se per caso avesse veramente deciso di salutarlo solo
alle undici e trenta di sera,
vedendola infilare la chiave nella serratura e aprire la porta.
Era
uno dei fortunati
appuntamenti esclusivamente lui e lei, senza quel rompi scatole del
loro amico Naruto di torno.
Avevano passato una serata al cinema,
poi un giro in centro, in riva al mare ed eccoli davanti a casa
dell'Haruno.
- Allora ciao Sas'ke – disse la ragazza girandosi a
mostrargli un dolce sorriso.
Sasuke la guardò accigliato, lei
credette di aver fatto o detto qualcosa di sbagliato.
Era
letteralmente terrorizzata di perdere quel ragazzo - che aveva
desiderato con anima e corpo – con una cazzata.
-
Che c'è? - gli domandò passandosi una mano sulla nuca, titubante.
-
Sai com'è, credevo fossi più perspicace -
Sakura fu
profondamente colpita dalle parole del suo ragazzo, fece saettare
occhi furiosi nel semi buio.
- Cos'hai detto? - sibilò,
puntandogli un dito contro.
Sasuke a vederla irrigidirsi provò
una punta di disagio e mise le mani in tasca, per fare finta di
niente.
- Uh niente di che, semplicemente che credevo foss... -
non finì la frase, il volto di Sakura era pericolosamente vicino al
suo, la fronte corrucciata.
- Ho un fidanzato sempre molto gentile
con me, wao che fortunata – ironizzò melodrammatica Sakura,
impuntandogli il dito sulla spalla.
Sasuke sbuffò.
- E io ho
una ragazza che non ha il minimo senso dell'ironia -
Sasuke tolse
velocemente le mani dalle tasche e prese il volto della ragazza,
avvicinando il proprio.
I nasi si sfiorarono.
Sakura non riuscì
a fare l'imbronciata, le labbra lesi piegarono automaticamente
allinsù mentre le braccia scattavano in alto, pronte per attorniare
il collo del ragazzo.
- Che bella coppia – mormorò Sakura prima
che altre parole inutili le morissero in bocca, a causa delle
prepotenti labbra di lui appoggiate sulle proprie.
Un bacio
morbido, uno dei loro baci che sapevano tanto di qualcosa di più,
molto di più.
Sasuke le mise le mani alla vita, la spinse dentro
casa e richiuse con un calcio la porta alle loro spalle.
Regnava
un silenzio assurdo, alternato solo dal respiro già affannato di
lei.
- Sas'ke... -
Sasuke si staccò dalla ragazza un istante,
con gran rammarico. L'aveva sentita esitare.
Sentiva di
desiderarla più di sempre.
Dannata
noiosa ragazzina.
-
...c'è mia madre, in casa – bisbigliò Sakura, affondando la testa
nel petto di lui.
Stava cercando di calmarsi, baciare Sasuke era
sempre pericoloso
sotto certi punti di vista.
In quei mesi di relazione aveva
sperimentato di dover avere un gran auto controllo per riuscire a
fermarsi al
momento più opportuno. O meno opportuno?
Si
doveva fermare perchè sarebbe successo. L'avrebbero
fatto.
Sentiva
che lui lo voleva, ogni volta.
Ma lei no. Lei sì.
Lei non
voleva semplicemente farlo già.
Stavano assieme da sette mesi!
- E allora? -
Immaginava,
Sakura, una risposta del genere.
Premette più a fondo la testa
sulla maglietta del ragazzo, lo strinse a sé, le piaceva un mondo
toccare quel corpo, sentirlo caldo
e vicino.
Consistente.
Suo.
-
Ho capito – disse Sasuke dopo qualche minuto, prendendola per le
spalle e allontanandola da sé.
- Scusami – sussurrò
lei.
Sasuke inghiottì uno strano groppo amaro che gli era salito
alla gola, contò fino a cinque e fu di nuovo in pieno possesso delle
sue facoltà fisiche
e mentali.
Aveva
immaginato che per quella sera le cose sarebbero andate così, eppure
testardo com'era aveva fatto una prova.
Dopo anni di insensata
attesa si era messo con Sakura.
Dopo anni di attesa lui la
desiderava.
Si era accorto di desiderarla terribilmente
al
loro primo bacio, una piovosa serata di sette mesi prima.
Ed era
così dura trattenersi e non pensarci, non sembrare uno stupido
ragazzino con gli ormoni a mille.
Ma era causa sua.
Era
colpa di Sakura.
Era così maledettamente ed ingenuamente
pericolosa.
E
lui odiava essere in balia di una donna – si diceva in
continuazione – eppure lo era.
- Se cambi idea...chiamami –
disse calmo e le diede le spalle.
- Sas'ke! - lo apostrofò lei
bisbigliando sommessamente nell'atmosfera buia e calda.
Doveva
essere arrossita.
Sasuke aprì la porta e uscì, di nuovo le mani
in tasca; cercava il pacchetto di sigarette, era tutta il giornata
che non fumava – a
lei non piaceva –
e una sigaretta serale non gliela toglieva niente e nessuno.
Sakura
lo vide allontanarsi, una traccia di fumo nell'aria.
Ci mancò
poco che non corresse da lui e lo richiamasse indietro.
15
Luglio 2011
-
Avanti, Sakura, dimmi tutto -
Osservai con stupore l'uomo che
avevo di fronte, poi osservai il bicchiere di vino ancora mezzo
pieno.
Lo bevvi quasi tutto d'un fiato, sentendo il sapore
dolciastro brucarmi la gola.
Come era che eravamo finiti a parlare
di me?
Avevamo appena finito di cenare, Hatake mi aveva invitato
fuori a cena ed io, dopo varie esitazioni, avevo accettato. La morte
nel cuore.
La serata si era rivelata piacevole.
Fino a quel
punto.
- Uhm? -
Kakashi sospirò, si sistemò meglio sulla
sedia, la schiena appoggiata allo schienale, le braccia stese sul
tavolo che ci separava.
Io mi guardai attorno: rimaneva poca
gente, in quel pacifico ristorante, uno dei migliori e più antichi
di Konoha.
- So che hai tante cose da dirmi, non mentire che
saresti solo ridicola -
Lo fissai corrucciata, strinsi forte tra
le mani il calice vuoto.
- Qui?
-
sussurrai, mi mancò la voce.
Perchè capii che sì, il mio
professore
aveva ragione.
Realizzai che avevo tante, troppe cose da dirgli.
E
ne fui spaventata e rincuorata allo stesso tempo.
- Se ti va
meglio usciamo, che ne dici del pontile? - propose Hatake cercando di
venirmi incontro.
Pensai fugacemente alla sua fidanzata, spesso
sola a causa mia.
Mi sentii cattiva per l'ennesima volta.
- Va
bene – acconsentii e mi alzai, precedendolo fuori.
Gli lasciai
il conto da pagare.
Era il minimo che potevo fare per vendicarmi
della sua insistenza.
continua