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Autore: xNewYorker__    15/07/2011    2 recensioni
«Tra tutte le persone di questo mondo, perché a lui?» Chiese Booth, dando un peso assurdo a tutte quelle lacrime riversate sulla camicia. «Conosco i rischi del mio lavoro, ma non pensavo arrivassero a tanto.» Brennan lo guardò. «Pensi che l'abbiano guardato in faccia? Svegliati, Booth!»
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Parker
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Broken Bones'
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Era passata una settimana, e ogni giorno che passava sembrava odiarsi sempre di più. Lui, che era così sicuro di sé, così sicuro di poter salvare tutti. Avrebbe cambiato il mondo, quello, quand’era piccolo, era il suo sogno.
Del valoroso agente senza macchia e senza paura era rimasto un uomo martoriato e oppresso dal suo stesso dolore, che stava sul divano a fissare un televisore spento col telecomando tra le mani, un telecomando senza batteria. Televisore spento e telecomando senza batteria. Cavolo, quale analogia. Booth si sentiva così senza Parker. Paragone stupido, forse, ma quello che gli venne in mente all’istante fu “sono come questo telecomando”. Aveva perso una parte di sé.
E così stava solo in una stanza vuota come la sua vita senza il figlio. Tutto gli pareva essere una metafora della sua vita e dei suoi sentimenti. Odiava questa cosa, la odiava profondamente, avrebbe voluto svegliarsi, abbracciare il bambino e dirgli che non avrebbe permesso che gli accadesse qualcosa di male. Rivedeva sempre la stessa scena scorrergli davanti agli occhi, e lui, impotente come un fantasma ritornato alla vita terrena, invisibile, non poteva far altro che assistere in silenzio. Scosse la testa e si alzò pesantemente, facendo un verso simile a quello d’un anziano sofferente quando si alza.
Si dava al pessimismo, quel giorno, e poi come biasimarlo? Pensava che Bones non sarebbe arrivata quel giorno. Magari s’era stancata di lui come aveva fatto Hannah: la verità è che aveva voluto scappare, non aveva nessun convegno. Beh, non disse proprio questo: fu solo l’impressione che Seeley ebbe quando lei disse “ci vediamo tra tre mesi”.
Anche Bones avrebbe fatto così? Chissà. L’unica cosa che sapeva è che era da solo, e che sarebbe rimasto solo anche in compagnia di altra gente, di tanta gente.
Decise che andare al lavoro sarebbe stata la cosa migliore. Doveva trovare “quei bastardi che hanno ucciso il suo piccolo”. Li avrebbe trovati. Anche in una vita, ma li avrebbe trovati, e li avrebbe uccisi. Oh, non ne avrebbe risparmiato nemmeno uno. Sapeva che erano in tre. Uno ha sparato, si, ma gli altri gli coprivano le spalle. Li avrebbe scovati e uccisi come si fa con i topi di fogna, perché questo erano. Miravano a lui, e questo lo sapeva, ma non avrebbe mai dimenticato quello che avevano fatto. Avrebbe preferito morire lui al posto del suo bambino.
Andò a cambiarsi velocemente, per non dare l’impressione di uno che s’è lasciato andare, che s’è lasciato trascinare. Solo Bones avrebbe dovuto sapere che aveva pianto, e che s’era abbandonato a tal punto da non fare esercizio fisico e non guardare neanche la TV per distrarsi.
 
Arrivato al Jeffersonian lo fissavano tutti in modo diverso. Se ne rese conto, provando ad evitare gli sguardi indiscreti. Quelli che chiamava sguardi indiscreti erano proprio quelli dei suoi amici, di quelli che per lui c’erano sempre stati, quelli che gli volevano bene davvero, ma in quel minuto non gli importava, e questo lo sapevano anche loro stessi, e lo comprendevano nel migliore dei modi. La loro non era un’amicizia futile e occasionale.
Si diresse al laboratorio, dove esaminavano le ossa dell’ultima vittima individuata. Avrebbe voluto trovare la sua collega, ma all’interno della stanza c’erano solo Clark e Colin, intenti ad esaminare qualcosa. Fisher tossicchiò, con la solita espressione malinconica e depressa. Iniziò a gesticolare, con le mani nei guanti, alternando uno sguardo spento tra Booth e il pavimento del laboratorio. «Ehm…agente Booth.» Disse. «Condoglianze. Che l’anima di suo figlio possa riposare in pace tra le accoglienti nuvole malinconiche ma pacifiche del Paradiso.» Come al solito il discorso non aveva poi così tanto senso, o almeno non lo aveva il tono adoperato per farlo. Booth annuì. «Mi dispiace.» Aggiunse Edison, con il suo tono comunque freddo, ultimamente sempre più simile a quello della Brennan. Booth annuì per la seconda volta, e si diresse fuori. Si imbatté in Angela, che come al solito andava in giro quasi correndo, col camice blu indosso, diretta probabilmente verso la postazione di lavoro di Hodgins. Si fermò e guardò l’agente. Lo sguardo era il suo solito: comprensivo e anche un po’ umido. Iniziarono a scendere delle lacrime, piano piano, quasi invisibili, e gli si lanciò tra le braccia. «Mi dispiace, Booth. Non sarebbe dovuto succedere.» Lui sospirò. «Lo so.» Ricambiò l’abbraccio per un istante, e quando si staccarono la donna fece un malinconico e velato sorriso, e gli diede una pacca sulla spalla sinistra, annuendo, per poi dirigersi, come da manuale, alla meta.
Qualche passo avanti fece capolino anche Sweets, che aveva parlato con Brennan circa cinque secondi prima. Lo guardò per un istante. «Condoglianze.» Si limitò a dire. In quelle occasioni neanche uno psicologo sapeva come fare per migliorare lo stato d’animo di una persona. Booth annuì ancora, come aveva fatto prima con Fisher ed Edison, e proseguì. Superato Sweets di qualche passo si fermò, senza voltarsi, al centro del corridoio. «Hai visto Bones?» - «Cinque minuti fa, ora non so più dove sia.» E lui ripartì. Affrettò il passo: doveva trovare la dottoressa, aveva qualcosa da dirle. Fantastico: non era da nessuna parte.
Passò mezz’ora buona a cercarla, e aveva incontrato tutti gli amici, tranne lei. Anche Cam gli era appena passata davanti, gli aveva fatto le condoglianze, l’aveva abbracciato appena e s’era anche commossa, ma Bones non si trovava. La cosa che gli importava in quell’attimo era quella.
Decise di andare da Caroline. Se non trovava Bones doveva almeno assicurarsi di aver affidato il caso del figlio, in qualche modo. Un giudice gli avrebbe fatto comodo.
 
Aprì la porta ed entrò, senza fare complimenti e senza chiedere il permesso. «Devi affidarmi il caso.» Disse, appoggiando nervosamente i palmi delle mani sulla scrivania. «Di cosa stai parlando, Booth?» Chiese lei, fingendo di non sapere, o forse non sapeva. «Mio figlio.» Spiegò, secco. «Che…?» - «E’ morto una settimana fa.» Diamine, non voleva dirlo. Soprattutto…non così, non a lei. Avrebbe dovuto scoprirlo come hanno fatto gli altri. Caroline si alzò. «Mi dispiace.» Per un attimo aveva abbandonato il tono da cane da guardia, e gli occhi erano più comprensivi di come avevano mai osato essere nei confronti di qualcuno. Lui guardò a terra. «Anche a me.» Disse. «Affidami il caso, ti supplico.» Abbandonò la presa di posizione. «Non posso, sei coinvolto. E’ come la Brennan con il caso di suo padre, te lo ricordi? O quello di suo fratello. Va contro il codice.» - «Fregatene del codice!» Corrugò la fronte. «Non posso, lo sai.» - «Affidami il caso!» Esclamò, sbottando. «Non posso! Ho detto che non posso! Credi che non lo farei per te? Eh? Credi che non lo farei se potessi? Farei di tutto, ma non ne ho la facoltà, mi dispiace!» - «Le cose sono due: o mi affidate il caso, o mi dimetto.» Caroline sospirò. «Ti toccherà dimetterti, caro.» No, non poteva accettare anche questo. Gli avrebbero dato il caso, o si sarebbe fatto giustizia da solo. Batté entrambi i pugni sulla scrivania. «Bene! Come vuoi!» Uscì, sbattendo la porta. Gli assassini non l’avrebbero passata liscia: Seeley Joseph Booth ci sarebbe andato pesante.
   
 
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