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Autore: Emi Nunmul    15/07/2011    2 recensioni
«Taka-chan»
Eravamo seduti sull’erba tagliata a regola d’arte e lo spettacolo era già iniziato da un paio di minuti. In risposta le presi una mano.
«Sei felice?»
Attesi, prima di rispondere, nonostante non avessi dubbi su cosa dirle.
Quella era felicità.
«Sì, Rei-chan»

Capitolo 4: AVVISO
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Ruki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ovviamente i personaggi descritti non m'appartengono, e il tutto è frutto della mia testolina che si fa bei filmini mentali.





2.  Guren

Era febbraio. Era giunto l’ultimo febbraio che avrei passato alle scuole superiori. Era anche l’ultimo febbraio di Reila, in quella scuola. Ma non c’importava. Ci lasciavamo dietro solo l’adolescenza, così. Nulla di più, nulla di meno. Perché eravamo certi del nostro futuro.
Di me e di lei.

Procedeva tutto nella serenità. Nella felicità. Avevo ripreso anche a studiare come si deve. Ero entrato in una nuova band e ricoprivo la parte del vocalist. Penso di non aver mai conosciuto persone più pazze del chitarrista e del bassista con cui l’avevo fondata, questa band. Ma erano comunque persone splendide.

Addirittura con i miei sembrava filare tutto liscio. E poi amavano Reila. Erano contenti che avessi una ragazza come lei, diligente e matura. Per la prima volta parevano soddisfatti e non mi considerarono un fallito.
Così aveva preso a frequentare regolarmente casa mia, ed io la sua, da quando il padre era definitivamente sparito. Il fratello più grande aveva iniziato a lavorare da un anno, e la nonna di Reila aiutava la madre con la sua pensione, quindi erano decisamente più sereni tutti quanti.
Stavo iniziando ad essere felice e non la vedevo semplicemente in determinati momenti, la felicità.


Non so bene come fosse successo, quella notte. So solo che i miei erano fuori casa, come spesso accadeva, ed io e lei eravamo soli, dopo la festa di un nostro compagno di classe.
Facemmo l’amore. Dormimmo insieme. Tutto normale, come sempre. Tutto parte della nostra tranquillità, tant’è che non riuscivo a spiegarmi perché continuasse ad evitarmi, una settimana dopo. Appena entrati in classe mi salutava appena, alle chiamate rispondeva una volta sì e tre no.
Non era mai successo. E perché questo cambiamento, così all’improvviso?
Passai notti insonni a capire quale fosse il motivo della sua devastante freddezza. Era stata colpa mia? Avevo fatto qualcosa di sbagliato? In fondo non ero una persona facile, ma a lei sembrava essere andato bene tutto di me.
Magari aveva avuto problemi in famiglia. Ma me ne aveva sempre parlato.
Dovevo prendere in mano la situazione e rivoltarla.
Ma ci pensò lei prima di me, quel sabato notte.
“Domattina alle 10 di fronte scuola. Ho bisogno di parlarti”.
Mi sentii in un certo senso sollevato, ma anche angosciato, per qualche motivo.

Non tardai di un secondo, quella mattina. La vidi arrivare ai cancelli blu della scuola con una lunga gonna bianca, un giubbotto azzurro, sciarpa e cappello. Io ero uscito praticamente solo con una maglietta.
«Come stai?» le chiesi, avvicinandomi un po’ di più a lei che teneva il viso abbassato.
«Bene. Tu?»
«Che ti prende?»
Passai subito al sodo, saltando i convenevoli.
Sospirò, iniziando a guardarsi in giro, quella luce negli occhi spenta, per un motivo a me sconosciuto.
«Non so quando, né come... però...»
«Cosa?»
«Te lo dico solo perché è giusto che lo faccia. Comprenderò qualsiasi decisione tu prenda...»
«Rei, dimmi qual è il problema...»
Prese a fissare un punto sul marciapiede. Non avevo mai provato tanta agitazione come in quel momento. Quando la vidi aprire bocca sentii il mio cuore perdere un battito.
«Qui» la vidi indicarsi il ventre «Sta crescendo una nuova vita. Ed è anche tua, ovviamente»
Non so bene cosa mi balenò in testa in quel momento, ma iniziai a ridere. A ridere come un pazzo isterico, pochi istanti dopo a piangere, come uno stupido.
«Taka...»
La vidi che iniziò ad avvicinarmisi evidentemente preoccupata, poi continuò a parlare «Io voglio tenerlo»
Probabilmente fui così veloce nell’aver valutato tutti i pro e i contro che presi la mia scelta in meno di mezzo secondo.
La strinsi. La strinsi forte. Non so come avremmo fatto, ma nonostante fossimo ancora così giovani, mi parve l’avvenimento più bello di tutta la mia vita.


E passarono ancora due mesi. Era fine aprile. Era tornata la tranquillità di sempre. Avevamo trovato l’appoggio dei nostri genitori, nonostante non me l’aspettassi per nulla. I giorni erano passati normalmente, fra scuola, casa e le visite che doveva fare lei regolarmente.
«Taaaaka-san!»
Ero seduto su un banco della classe a parlare con degli amici, quando un altro ragazzo mi chiamò.
«Dimmi, Jun»
«La professoressa d’inglese ha ottenuto di farti fare dei corsi pomeridiani per recuperare in matematica senza che quell’arpia ti bocci a priori»
«Scherzi?!»
Saltai giù dal banco. Dovevo sicuramente avere gli occhi scintillanti. A momenti non piangevo per la felicità. Era risaputo che la nostra insegnante di matematica non nutrisse molta simpatia nei miei confronti, e nonostante in quella materia tentassi d’impegnarmi più di altre, continuavo ad ottenere insufficienze.
Fortunatamente la nostra professoressa di inglese era ormai diventata per me una sorta di “mamma”, di confidente, più che altro. Una splendida donna che non si smentiva mai.

Così, quel pomeriggio rimasi a scuola due ore in più per quel dannato corso. In teoria avrei dovuto pranzare con Reila, in qualche locale della città, ma dovemmo spostare l’appuntamento al tardo pomeriggio, quando sarei uscito da quel carcere.
Non vedevo l’ora.

 “Come potete vedere vi è una cerchia di persone sul luogo dell’accaduto. Un pazzo alla guida di una moto stava attraversando la strada a tutta velocità prendendo in pieno un mezzo pesante ed un pedone”.
Mi chiedevo cosa avessero in testa certi elementi mentre seguivo il TG nel locale dove stavo aspettando Reila.

Aspettai un quarto d’ora. Mezz’ora. Un’ora.
La chiamai più volte. Sentii rispondere solo all’ottavo tentativo.
«Takanori?»
Riconobbi la voce della madre, diversa dal solito.
«Takanori, siamo in ospedale»


Tornai a casa tardi, quella notte. Avevo gli occhi che mi bruciavano per via del pianto, e sentivo che le lacrime stavano già ricominciando a salire non appena avevo chiuso la porta alle mie spalle. Nell’immenso salone di quella casa filtrava solo la debole luce della luna dal finestrone. Tutto ciò che m’avvolgeva era il buio. Il buio e il silenzio. Non sentivo neanche i miei singhiozzi, o veri e propri vagiti. Ginocchia a terra, testa fra le mani, gocce che scorrevano giù dalle guance come un fiume in piena, pensavo che avevo rischiato di perderla ed era la cosa che mi faceva più terrore. Invece, ciò che mi dilaniava l’anima, era sapere che il nostro piccolino non c’era più.

Note:

Bene. Datemi della psicopatica, lanciatemi addosso quello che volete, non vi dirò nulla contro 8DDD  Per il resto non ho nulla da dire.

Voglio ringraziare la mia NipotaH e __Sunshine per aver recensito il capitolo precedente. ^w^ Mi gratifica molto, l'ho già detto u_ù
Kisu
Michan
   
 
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