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Autore: monochrome    15/07/2011    4 recensioni
Albina Severi, Al per gli amici, stronza megalomane per tutti gli altri, ha poche certezze, certezze che l'aiutano a mantenere quella sicurezza di sè di cui fa sfoggio ogni giorno, quell'arroganza e quel sarcasmo che la contraddistinguono. Ma poi, piano piano, senza rendersene conto, si cresce, le situazioni cambiano, i rapporti cambiano e le certezze cadono una ad una.
***
Dal capitolo 7:
«Diamine Al! Sei così dannatamente fragile! Ti atteggi da dura, ma sei porcellana finissima che può rompersi alla prima caduta. Come potrei farti questo?»
Deglutii.
Non sapevo che dire, non sapevo che diavolo fare. Sapevo che avevo ancora voglia delle sue labbra e nessuna intenzione di rinunciare alla mia indipendenza per nessuno al mondo. Mattia sembrava il ragazzo perfetto per me, perfetto per darmi affetto e ricevere il mio, senza obblighi o etichette di sorta. Perché avrei dovuto rinunciarvi? Perché avrei dovuto lasciarlo andar via? Cosa mi tratteneva? Forse la consapevolezza che non sarebbe mai stato solo e unicamente mio?
Aderii nuovamente col mio corpo al suo, alzandomi in punta di piedi per sfiorare col mio respiro le sue labbra gonfie.
«Sono io che voglio farlo»
Fu lui a far combaciare le nostre labbra, gentilmente.
Mi vidi costretta a tirargli i capelli per fargli aprire quella dannatissima bocca!
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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All my Certainties

Corri, maratoneta, corri!




«Quindi è il figlio di Marianna, eh?» commentò Mel, dopo il mio resoconto del giorno precedente.
Non dissi nulla. Ce ne stavamo una accanto all’altra di fronte alla macchinetta del caffè della scuola. Avevamo scoperto con somma gioia l’assenza del professore della prima ora e, dal momento che sembravamo scoperti, avevamo convenuto che un caffè caldo non avrebbe fatto poi così schifo.
Quindi continuai a sorseggiare il mio mocaccino, mentre aspettavamo che quell’affare sputasse fuori il the di Mel.
«Ho solo una domanda per te» cominciò, ma non le lasciai il tempo di continuare.
«Poi mi darai un consiglio serio?»
Lo chiesi, perché sapevo che quella domanda sarebbe stata estremamente stupida.
«Quanto è figo per averti fatta scappare?» La guardai male. Non ero andata via (non scappata, decisamente non ero scappata, perdio!) perché era “figo” –che poi, detto fra noi, era un concetto troppo relativo-, ero andata via perché mi ero appena resa conto di non aver collezionato tutti i Pokemon sul Pokedex e dovevo assolutamente rimediare.
«Insomma, è figo alla Robert Downey Junior o alla Jonathan Rhys Meyers?»
Alzai gli occhi al cielo, di fronte al suo sorrisetto malizioso. Intanto la macchinetta aveva cominciato a traballare con suoni piuttosto inquietanti, segno che aveva deciso di dissetare quella maniaca della mia amica.
«Direi piuttosto… affascinante alla Jake Gyllenhaal. O magari alla Ashton Kutcher…» Soppesai le mie parole per qualche secondo, sotto lo sguardo di rimprovero di Mel. «No, Jake e Ashton sono decisamente su un piano superiore.»
Annuii convinta, prima che mi arrivasse un pugno sul braccio destro.
«Tu hai fra le mani un Jake Gyllenhaal e scappi?!» per poco non urlò. Ringraziai il cielo che le bidelle del nostro piano fossero delle balenottere azzurre il cui unico scopo della mattinata era mangiare. Chiunque altro si sarebbe alzato e ci avrebbe intimato di rientrare in classe all’istante.
«Ti ho già detto che sono andata via. Non sono scappata!» soffiai, indignata. Era una precisazione importante.
Lei sbuffò, ignorando le mie parole. «Lascerei Alessio per un Jake Gyllenhaal!» borbottò. Il suo umore non migliorò, nel prelevare la bevanda dalla macchinetta. Al posto del the al limone tanto pregustato era uscita acqua bollente, limpida limpida.
«E questo che diavolo dovrebbe essere?!» sbottò. Mel non aveva il mio temperamento aggressivo, ma se si arrabbiava faceva quasi più paura di me. Non eravamo amiche a caso.
«Il tuo the.» risposi, piatta, a quella domanda retorica. «Bevilo o si raffredda»
Non penso gradì il mio sarcasmo. So che nascosi una risata nel mio bicchiere e che corsi verso l’aula prima che decidesse di rovesciarmelo in testa.
«Quanto sei simpatica!» borbottò, prima di aprire la porta della classe.
A proposito: chi l’aveva chiusa? E, soprattutto, quando?
Seguii quello scricciolo di Mel oltre la soglia, lanciando uno sguardo dispiaciuto alla cattedra.
«Carino da parte vostra raggiungerci in classe» ci accolse una voce a me tragicamente familiare. La mia espressione dispiaciuta si tramutò dapprima in incredulità, successivamente in raccapriccio. Infine, mi assestai sul mio broncio abituale.
«Scusi prof» sentii Mel, che intanto stava andando a sedersi, a differenza mia, che ero rimasta in piedi come un’ebete a fissare quegli occhi acquamarina che mi guardavano con estremo divertimento, nonostante il viso di Mattia fosse rimasto imperturbabile. «Albina è stata colta da un calo di zuccheri»
Mostrai il bicchiere, impacciata, per avvalorare il nostro alibi. Ancora però non mi ero decisa a smuovermi da quella stupida porta.
«Hai intenzione di sederti?» mi chiese, calmo. Eppure lo vedevo, stava ridendo di me. Eccome se stava ridendo. Si divertiva a torturarmi. Da quando in qua, poi, era un professore? Dio, non poteva avere più di ventidue anni, dati per grazia divina poi!
Avevo intenzione di sedermi? Non so. Dopotutto i Pokemon avevano raggiunto il del tutto rispettabile numero di 649 e non ero sicura che quelli leggendari fossero inclusi…
Mi trascinai alla mia sedia, incenerendolo per quel suo dannato sguardo. Se non fosse stato un dannato professore, il “the” di Mel sarebbe finito direttamente su quella sua faccia da scopo-solo-io.
«Benissimo» cominciò e non so perché provai un irrefrenabile desiderio di sbatterlo al muro «Ora che Severi e Rossi ci hanno raggiunti… non penso abbiate voglia di fare matematica.»
Sentii qualche oca della mia classe ridacchiare e lui rispose loro con quella sorta di sorriso a metà che mi aveva sbattuto in faccia il sabato prima. Non si curò del mio sguardo di rimprovero. Non si curò proprio di me.
«Beh, non va neppure a me. Però ho trovato proprio ieri sera la ricetta della mia torta preferita.»
Si era alzato, aveva frugato nella sua borsa, mostrandoci poco educatamente (e decisamente poco rispettoso verso le mie coronarie, che rischiarono di esplodere) il suo adorabile didietro fasciato da quei dannati jeans stretti. Perché diamine non si era messo qualcosa di largo? Un po’ di decenza per l’amor di Dio!
Aveva tirato fuori un libro che aveva tutta l’aria di essere un ricettario di torte.
«A chi di voi piacciono le fragole?» domandò, entusiasta, lanciandomi, anche se per pochi secondi, uno sguardo molto eloquente. Era una sfida? Io sentivo solo odore di guai, mentre tutte le altre ragazze alzarono la mano, facendo a gara a chi riusciva a toccare il soffitto. Quella puttanella di Margherita si era addirittura alzata in piedi.
«Facciamo così, vi scrivo ingredienti e procedimento passo passo. Vi posso assicurare che la Fraisier è una torta deliziosa!»
Avevo detto odore di guai? Avvampai in meno di un nano secondo.
Melania si girò a guardarmi, allarmata. Alla fine aveva capito anche lei. Mi fece il labiale di «Jake Gyllenhaal?!», ma sapevo che, se avesse potuto, l’avrebbe urlato. Adesso mi avrebbe creduto, se le avessi detto che era uno stalker incallito e che me lo ritrovavo ovunque? E dire che a scuola non lo avevo mai nemmeno visto, prima di averlo incontrato quel malaugurato sabato pomeriggio!
E mentre col suo ghignetto vittorioso Mattia scriveva alla lavagna un sacco di stronzate tipo crema al burro, 500g di fragole e cazzi vari, io combattevo con me stessa per non guardargli il culo e non lanciarmi dalla finestra.
Sprofondai un po’ sulla sedia, lasciando scivolare un ciuffo di capelli a coprirmi parzialmente il volto, che doveva tendere al violaceo, piuttosto che al rosso.
Sentii un movimento di sedia accanto a me, ma non me ne curai. Ero troppo impegnata a cercare un modo di salvare la faccia.
«Ma che cavolo sta blaterando questo idiota?» mi borbottò Matteo in un orecchio.
«Va al diavolo Matteo!» sbottai, senza nemmeno guardarlo, con la mia pazienza che aveva raggiunto i minimi storici.
«Oh, non mi dirai che è interessante!»
Era la prima volta che lo sentivo rispondere a tono. Avrebbe attirato la mia curiosità, se non fossi stata distratta da ben altra persona.
Mattia si era girato per dire chissà che cosa, ci aveva guardato e aveva perso il suo ghignetto strafottente.
«Tu biondino.» disse, piatto. Non lo guardava male, non proprio almeno, non se non riuscivi a cogliere quella scintilla di non so che cosa nel suo sguardo.
Matteo si auto indicò come per chiedersi “Che diamine vorrà questo pazzo da me?”.
«Sì, proprio tu. Ti dispiace spostarti in quel banco vicino alla finestra laggiù in fondo?»
«Ehm… perché?» Capii la voglia di Matteo di controbattere: quel posto era rimasto strategicamente vuoto dato il pressoché inevitabile contatto con le tende della finestra che, negli anni, da un originale color bianco erano passate a un marroncino piuttosto inquietante e che certamente non odoravano di rose.
«Beh, Severi era andata a farsi una passeggiatina. Va punita, non credi?»
Era la mia impressione o suonava giusto un tantino… acido? Avrei riconosciuto quel tono ovunque. Era o non era la mia specialità?
«Perché non ci manda lei, là in fondo!» replicò Matteo il biondiccio. Rabbrividii al solo pensiero. Mattia però non sembrava molto incline ad assecondare il suo suggerimento.
«Perché se ci mandassi Albina, poi lei potrebbe parlare col brufoloso là in fondo, mentre se ci mando te rimarrà isolata per il resto dell’ora. Comprendi?»
Il brufoloso là in fondo, alias Alessandro Della Ratta, borbottò qualcosa di indistinto sull’acne giovanile, ma nessuno gli badò. Le ragazze non badarono nemmeno a Matteo, che continuava a mormorare improperi al giovane professore, mentre si apprestava a sedersi nel posto maledetto: il caro prof si era messo a scrivere il procedimento per il pan di spagna e decisamente nessuna di loro poteva perdersi quest’importante nozione!
La campanella, mezz’ora dopo, salvò me e le poche persone che avevano conservato un briciolo di sanità mentale da altri discorsi sul marzapane, sulle decorazioni e sui tempi di compattamento della torta.
Melania mi si avvicinò di soppiatto, mentre Mattia raccoglieva le sue carabattole per lasciare il posto alla prof di inglese.
«Non-ci-credo!» mormorò, esterrefatta «Non mi avevi detto che era un professore!»
Come se lo avessi saputo!
«Lo sai come sono fatta, nasconderti le cose mi eccita oltre misura!» sbottai, offesa, incrociando le braccia sotto il seno. Lanciai un’ultima occhiataccia torva al diretto interessato che, chissà poi per quale motivo, mi stava guardando con un piccolo broncio di indecisione.
Adorabile mi sussurrò una vocina smielosa nella testa.
Tentai di ignorarla, altrimenti avrei vomitato.
«Severi?»
Mi irrigidii nel sentire il mio cognome. Pronunciato da quelle labbra non promettevano niente di buono.
«Sì, professore?» marcai l’ultima parola con un tono mieloso che nascondeva silenziose minacce di morte. Mi girai a guardarlo.
Era sulla porta, aveva abbandonato la borsa per terra e in mano gli erano comparsi non so quanti libri di matematica.
«Mi aiuteresti a portare la mia roba in quarta D?» domandò. Lascio a voi immaginare con che faccia da finto tonto lo chiese.
Inspirai a pieni polmoni per non rispondergli male. No, non volevo andarci. Non volevo rimanere sola con lui, dannazione!
«E, di grazia, perché io? Un giovane aitante come lei non dovrebbe risparmiarsi l’esercizio fisico o presto neppure un’ottima giacca riuscirà a nasconderle la pancia.»
Mi resi conto di averlo detto solo grazie allo sguardo scandalizzato che mi rivolsero in molti –diciamo pure tutti-. Lui però non si scompose. Avrei giurato che stesse per scoppiare a ridere di fronte a tutta la classe.
«Stare in piedi per un’ora a spiegare è un esercizio più che sufficiente, non trovi?»
Alzai gli occhi al cielo. Avevo fatto trenta, tanto valeva fare trentuno, no?
«Su, vieni.»
Mi alzai scocciata, senza trattenere uno sbuffo. No, non mi piaceva quella situazione. Sicuramente non mi piacque trovare la borsa di Mattia leggerissima e completamente vuota. Col cazzo che aveva bisogno del mio aiuto! Avevo bruciato tre calorie per cosa? Per seguire un imbecille fuori dalla porta?
Sogghignò, sfacciato, di fronte alla mia espressione scettica.
Poi si incamminò verso chissà quale luogo arcano. Ricordavo che la quarta D fosse dalla parte opposta…
«Dove stai andando?» borbottai, seguendolo senza alcuna voglia. Sbatacchiavo la sua schifo di borsa a destra e a manca. Non mi sarebbe dispiaciuto distruggergliela.
Non mi rispose. Cominciò solo a guardare tutte le porte delle aule, fino a trovarne una vuota, entrarvi e chiudermi la porta alle spalle.
Lo guardai interrogativa poggiare i suoi libri –che, lasciatemelo dire, non avevano decisamente un aspetto liceale- sulla cattedra, per poi voltarsi verso di me.
«Cos’è? Vuoi approfittarti di una povera studentessa indifesa?»
«Non riusciresti a sembrare indifesa nemmeno con le trecce e un vestitino da bambola rosa» mi rispose lui, sorridendo appena.
Tentai di immaginarmi in quelle vesti e la visione che ebbi fu piuttosto inquietante. Mi sarebbe mancata una mannaia insanguinata et voilà! La perfetta assassina di un film horror di serie Z.
Si frugò nelle tasche dei jeans, prima di porgermi qualcosa di piccolo e nero, con uno schermo touch screen e pochi tasti. Un cellulare. Il mio cellulare!
Mi fiondai a rubarglielo dalle mani, improvvisamente felice di averlo rivisto. Quell’uomo, un professore o il figlio di Marianna che fosse, io lo amavo! Dovevo mandare non so quanti messaggi per informare tutti che sì, il piccolo Sigismondo, il telefono errabondo, era tornato a casa.
Mi si erano illuminati gli occhi e lui lo notò, perché si mise a ridere, divertito dal mio repentino cambio d’umore.
«Ehi!» Mi ripresi all’improvviso da quell’euforia. «Perché diavolo ce l’avevi tu?!»
«Lo hai dimenticato ieri a casa mia» spiegò lui, calmo. Per una volta si era tolto quel ghignetto dalla faccia. Riuscivo quasi ad apprezzarlo. Forse. «Sai, durante la tua fuga
No, non ci riuscivo proprio a trovarlo piacevole. Si era rimesso a sfottere.
«Non stavo fuggendo!» sbottai. Continuare a ripeterlo era spossante. Perché la gente non ci credeva? «Dovevo solo andare via
«Continua a ripeterlo, magari riuscirai ad auto convincerti che è così!» Stava sorridendo, uno di quei pochi sorrisi veri che avevo visto nelle foto del bambino in casa di Marianna.
Incrociai ancora una volta le braccia sotto al seno, distogliendo gli occhi dai suoi acquamarina e lasciando vagare lo sguardo nell’aula.
«Posso farti una domanda?» borbottai, piuttosto a disagio, chissà perché poi. Decisamente non eravamo vicini. Lui se ne stava poggiato alla cattedra, io per poco non mi spalmavo sulla porta, per allontanarmi da lui il più possibile. Precauzioni. Andavano prese in ogni caso.
«Solo se poi posso fartene una io.» rispose, tranquillo.
Spostai nuovamente lo sguardo su di lui. Apparentemente il suo non si era mosso da me.
«Che diavolo vuoi da me?» Non ero stata aggressiva. Avevamo deposto le armi –io la mia aggressività e lui quel ghigno fastidioso- solo per qualche minuto, in un tacito accordo.
Si mosse appena, sul posto, forse a disagio, forse per stare più comodo. Avrei scommesso sulla seconda: quelli come lui non sono mai a disagio. Punto.
Ci pensò su per attimi infiniti. Sembrava non voler rispondere. Lo sorpresi a mordicchiarsi l’interno delle labbra e mi sorpresi a sorridere. Che il mio viso avesse reazioni autonome era quantomeno agghiacciante. Magari se mi fossi imbottita di botox avrebbe smesso?
Mi girai verso la porta, poggiando una mano sulla maniglia, pronta ad abbassarla.
«Ho capito. Grazie per il telefono, io torno in classe.» Salutai con un cenno della mano e aprii quella porta, ma non riuscii a metter fuori il piede. Venni fermata dalla sua voce.
«Non lo so.»
Quando mi girai, richiudendomi la porta alle spalle, lo trovai a guardarsi le scarpe.
«Mi fanno ridere le tue reazioni illogiche. Mi viene voglia di farti arrabbiare ogni volta che ti vedo.»
«Ah, grazie mille!» borbottai, roteando gli occhi e spostando il peso sulla gamba sinistra. Ero un giocattolo. Evviva! La mia più grande aspirazione, dopo quella di collezionare tutte le barbie, si stava realizzando!
«Lasciami finire.» Non era irritato. Stava solo cercando le parole per dirmi chissà cosa. «Mi attiri. Sei prevedibile e imprevedibile allo stesso tempo.»
Non sembrava voler aggiungere nient’altro. Una risposta piuttosto deludente. Che lo divertivo lo avevo capito da sola.
«Quindi?» incalzai. Chissene se lo attiravo come una lampadina attira una zanzara, io volevo sapere quando mi avrebbe lasciato in pace!
Rispose con un’alzata di spalle. «Bisogna avere un motivo per tutto?»
«Questa stronzata te l’ha detta tua madre?» chiesi, piuttosto insofferente per quelle frasi ad effetto da film hollywoodiano. Io ero pragmatica, se facevo qualcosa lo facevo per un motivo, magari anche stupido, ma avevo un obbiettivo e mi aspettavo che tutto il mondo facesse e ragionasse come me.
«Ok, diciamola così allora.» disse, allontanandosi dalla cattedra e avvicinandosi a me. Non di troppo, solo di qualche passo, ma non mi piacque per niente. «Ti trovo incredibilmente sexy con le tue mutandine con le fragole»
Aveva ritirato fuori il ghigno strafottente. Era sulla difensiva e io potevo contraccambiare.
«Mi dispiace per te, oggi indosso banane.» soffiai, sostenendo il suo sguardo con uno di sfida.
«Esci con me.» E non era una domanda.
«Non ho mai sopportato le imposizioni.»
«Allora non uscire con me.»
Vacillai appena, sotto il suo sorriso. Sentivo il bisogno di arretrare, ma il mio orgoglio non mi consentiva di farlo. E lui si stava avvicinando, porca miseria!
Si fermò a un passo da me. Fu un grosso errore quello di respirare profondamente, perché il suo profumo mi annebbiò il cervello per qualche secondo. Era asprigno, eppure incredibilmente piacevole.
«Le tue tecniche da rimorchio fanno concorrenza a quelle del mio vicino di casa, che ha cinque anni e mangia la sabbia. Almeno lui però mi ha regalato una margherita!»
Lui sorrise, soddisfatto di aver avuto una minima reazione da parte mia. Che avesse percepito la mia titubanza? O magari un fremito nella voce? Sperai che non fosse stato quel brivido che mi era corso lungo la schiena a tradirmi.
Abbassai lo sguardo sulle mie converse. Erano decisamente più interessanti di quei suoi orribilmente caldi occhi chiari.
«Albina?»
«È questa la tua domanda?» sbottai, sulla difensiva. Dovevo andarmene da lì, porca miseria!
Arretrai di un passo e la maniglia della porta mi si conficcò dolorosamente nella schiena. Meglio quel dolore a perdere il controllo.
«Vuoi lasciare la questione in sospeso?»
«È questa?»
Emise un sospiro che assomigliava più a uno sbuffo. Mi rifiutavo di guardarlo negli occhi. Chissà, magari si divertiva a vedermi così indifesa, o magari stava diventando insofferente a quei miei tentativi di svignarmela.
«Chi è Ivan? È questa la domanda.» rispose, piatto. Sì, decisamente era diventato insofferente alla mia reazione codarda. Non ci si può appellare alla scusa dei Pokemon più di una volta con la stessa persona, purtroppo.
Lo guardai, finalmente (e solo perché avevamo lasciato in sospeso l’altra questione), tentando di capire perché gli interessasse, ma trovai solo uno sguardo imperscrutabile.
«Perché vuoi saperlo?» domandai e la voce aveva riacquistato quel minimo di sicurezza per non farmi sembrare Jerry messo all’angolo da Tom.
Lui scrollò le spalle, facendo finta che la cosa lo interessasse relativamente.
«Immagino di dover sapere con chi ho a che fare.»
Quella spiegazione non fece scomparire il mio sguardo interrogativo. Sbuffò ancora, perché io ero tarda e non ci arrivavo. Magari era perché avevo una maniglia conficcata nella schiena? O magari perché non ci volevo arrivare?
«Insomma, devo considerarlo un rivale? E a che altezza della corsa? Non credo di essere proprio in fondo, diciamo che sono sicuramente avanti a quel fesso del tuo compagno di banco, ma ho la vaga sensazione che in cima alla corsa ci sia qualcuno e che io non riesca a intravederne nemmeno l’ombra in lontananza da quanto mi ha distaccato.»
Ignorai l’ultima parte del discorso. La metafora sportiva non richiamava la mia attenzione. Mai nella vita mi sarebbe saltato in mente di mettermi a correre in tondo, sudando e facendo fatica solo per un dannato pezzo di metallo.
Una cosa però aveva attirato la mia attenzione. Matteo?!
«Cosa ti fa pensare di avere più chance di “quel fesso”?» Era appurato che avesse più chance di lui. Matteo non aveva chance, non le avrebbe mai avute. Ma perché poi, a Matteo interessava avere delle chance? In ogni caso gliela buttai là con un tono che avrebbe fatto presagire il contrario. Chissà perché poi. Ultimamente non riuscivo più a capire i miei pensieri e le mie azioni. Era snervante.
«Per favore! Almeno mi consideri. Quel poveretto ha tentato tutta l’ora di richiamare la tua attenzione e l’unica cosa che ha ottenuto è stata un “vaffanculo”!»
«Poverino!» recitai la parte dell’ingenua dispiaciuta, solo per divertirmi un po’. Si stava esponendo lui, non io. L’unica cosa che potevo fare era godermi la scena. «Non era mia intenzione ignorarlo. Dici che dovrei andare di là a consolarlo in qualche modo?»
Sbattei le ciglia, giusto per calarmi più nel ruolo. Gli strappai un sorriso, o un accenno di sorriso o uno sbuffo d’aria dalle narici. Quello che era insomma.
«Non fare l’idiota» mi rimproverò, seppur non seriamente. «Dico davvero, dove collocheresti Ivan in questa maratona?»
Aggrottai le sopracciglia, scettica. «In fondo? Non dico proprio dopo “quel fesso-poveretto” e nemmeno dopo il 99% della popolazione mondiale che mi sta sul cazzo ma… è il mio migliore amico!» Lo dissi come se avessi spiegato ogni cosa. Beh, per me le due paroline “migliore amico” spiegavano ogni cosa. Spiegavano l’affetto che provavo nei suoi confronti, spiegavano perché lo cercavo, spiegavano la voglia di vederlo e il fastidio nei confronti di Cristina.
Ci pensò un attimo, prima di dire qualcosa.
«Hai la password per i messaggi, ma non nel registro delle chiamate. È la persona che chiami più spesso…»
Sorvolai sul fatto che mi aveva frugato nel telefono. Finalmente la password aveva adempiuto al suo compito, ma anche se non ci fosse stata non avrebbe trovato altro che “Ok” o “Usciamo stasera?” da parte del quartetto amazzonico Mel-Lori-Marco-Ivan.
«È il mio migliore amico.» ripetei, perché quella era la mia spiegazione. Che migliore amico era uno che non chiamavi mai?
Si mordicchiò ancora il labbro inferiore, piuttosto indeciso sul da farsi.
Alzai gli occhi al cielo. Mi scoprii a sentire la mancanza di quella sua maschera strafottente. Troppa serietà e confidenze, dopo un po’, mi annoiano.
«Oh mio baldo professore!» ricominciai a recitare, in un incrocio fra Giulietta sul terrazzo e una pessima attrice degli anni cinquanta, aggiungendo anche un leggero accento inglese «Come si piazzerà in questa gara? So che una certa Albina Severi ha puntato un milione di sterline sul suo piazzamento all’ultimo posto!»
Sogghignò appena, prima di rispondermi con un ben più marcato accento anglosassone.
«Oh povera stella, perderà il suo patrimonio quando arriverò primo! E, a proposito, gentile signorina, potrebbe informarla che non sono un professore? Penso che la cosa faciliterebbe la mia vittoria»
«Non sei un professore?»
«Non studio nemmeno qui. Frequento il primo anno di matematica…»
Avevamo abbandonato entrambi i nostri falsi accenti. Io lo guardavo sconcertata, lui mi guardava come se fingersi un professore fosse la cosa più normale al mondo.
«Ma… che diavolo ti è saltato in mente?!» E per poco non urlai.
Lui scrollò le spalle, ancora una volta. «Dovevo riportarti il telefono e sapevo che eravate scoperti, mia mamma è la vice preside, ricordi?»
Annuii, indecisa se ucciderlo o essere scioccata.
«Vederti cambiare tonalità al tuo ingresso in classe è stato impagabile.»
Oh sì, lo avrei ucciso.













Ok, è da tanto che non lascio le note a fondo pagina ma… questo capitolo è stato un parto? Sarà che non avevo idea di come farli rincontrare e ho seguito la prima idea folle che mi è passata nella testa? Sarà che poi questa idea folle non sapevo come diavolo scriverla?
Fatto sta che mi fa schifo…
Penso che andrò a collezionare i Pokemon nel Pokedex. °^°’’
   
 
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