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Autore: Kimmy_90    24/07/2011    1 recensioni
Rotolano sotto il cemento i rumori dei Branchi. Ringhiano, graffiano, mordono. Lottano.
Per Gioco.
Fra di loro si chiamano Demoni e Bestie. Sono ragazzi, sono uomini – a volte sono bambini, anche se è raro che un Branco ne accetti uno. Sopra il cemento non ne sa niente nessuno. O quasi.
Fintanto che rimane un gioco, il sangue che cola è semplice divertimento.
Ma ogni gioco viene scoperto, in un modo o nell'altro. E ogni gioco ha le sue regole.
La ragazza levò lo sguardo, continuando, passivamente, ad eseguire gli ordini.
Ma sì, in fondo gli ordini di Riva si eseguivano volentieri.
Credeva.
"Hai due possibilità, Sara. Se vuoi, puoi benissimo far finta che non sia successo niente. Cancella questa giornata dalla tua testa e vai avanti. Sul serio."
L’idea l’attraeva.
"Ma se pensi, anche solo lontanamente, che tu non sia in grado di ignorare completamente questa cosa, è un altro paio di maniche."

// Fantasy contemporaneo cambientato in Italia tra gli anni '70 ed oggi. //
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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5. Bisturi

Xander mangiava con un'irruenza e una mancanza di galateo a dir poco sconcertanti. Non era ancora del tutto impresentabile, ma era molto vicino al confine fra civile ed incivile. Allen faceva finta di non guardarlo, mentre invece continuava a studiarlo. Il ragazzo mangiava pure parecchio, oltre che avidamente. Mangiava e beveva. Per fortuna, pensò l'uomo.

Veniva da chiedersi se non fosse rimasto senza nulla fra i denti per più tempo di quel che aveva dichiarato.

«Fa veramente così schifo il cibo della casa famiglia?»

Xander non rispose, continuando a mandar giù interi bocconi non masticati.

«O stai facendo scorta per resistere il resto del mese senza dovermi vedere?»

Una piccola ruga comparve sulla fronte del ragazzo, poco più su del sopracciglio destro.

Allen rinunciò alla conversazione, riprendendo a mangiare.

«Credo che vomiterò.»

«Non sul tappeto.»

«Se vomito dopo devo mangiare di nuovo.»

«Hai ancora fame?»

«Ho sempre fame.»

«Mangia.»

«E' il mio stomaco che ha finito lo spazio. Dovrei fare come i greci. Due dita in gola e passa la paura. E poi ricomincio.»

«Carino vedere qualcosa che assomiglia alla cultura uscire dalla tua bocca.»

«Presto uscirà anche qualcos'altro.»

«Vai in bagno.»

Xander, invece, si lasciò cadere sul divano – occhi socchiusi, mani sulla pancia, emettendo una specie di mugolio che oscillava tra il sofferente e il soddisfatto.

C'era uno strano equilibrio fra Xander e suo zio. Il giovane sapeva che doveva odiarlo – aveva una miriade di ottimi motivi per farlo, e glieli aveva sciorinati tutti, di fila, quando l'uomo era magicamente comparso nella sua vita dopo – quanto? Cinque anni? Di muta assenza.

Cinque anni d'inferno, preceduti da altri cinque anni d'inferno – lo zio tendeva a farsi vedere periodicamente, ogni cinque anni o giù di lì.

Allen era discontinuo, e lo sapeva. Lo era stato sino ad allora, per lo meno.

Oh, tutti erano stati discontinui con Xander. Anzi, erano stati assenti: era molto più comodo e facile. Di sicuro non lo facevano apposta - non in modo dichiaratamente intenzionale, per lo meno. Lui, per esempio, viveva in America: vivere in America funzionava molto bene come metodo per evitarsi il fagotto di Xander.

Ogni volta che si ritrovava a pensarla in questi termini, si vergognava e si detestava talmente tanto da tornare seduta stante in Italia per assicurarsi che, almeno, fosse vivo. Oh, sì, lo sentiva per telefono – ogni tanto; d'altronde era il suo parente più prossimo, qualche lontana e vaga idea di responsabilità ce l'aveva. Ma non era decisamente adatto per l'affido, no. Mai stato.

Tutto ciò era stato argomento di feroci discussioni, due anni prima.

Allen aveva lasciato sfogare il ragazzo, con attenzione, controbattendo abbastanza, ma non troppo. «E' complicato.», gli diceva. Xander gli aveva sputato in faccia, al quinto «E' complicato.».

Non era stata una bella giornata.

Era stata una pessima giornata.

Era stato il momento in cui avevano quasi spezzato la corda, a furia di tirarla.

Adesso che lavorava per la difesa, aveva modo di stargli dietro. Più o meno.

Era complicato.

Quel lavoro, che era stato costretto ad accettare, aveva come minimo aiutato il loro rapporto. Anche se... beh. È complicato.

Troppa confusione nella sua testa.

Per fortuna era solo nella sua, e non ancora in quella del ragazzo.

Xander, dal canto suo, per quanto lo odiasse lo ammirava. Un po' era la stima dovuta ai suoi 'trucchetti da strizza cervelli', li chiamava il ragazzo, che subiva in continuazione ma che, sportivamente, accettava come punti a suo favore; e un po' era ancora il ricordo che aveva mantenuto di lui sin da quando era piccolo – prima lo zio giovane e simpatico, poi il parente salvatore che compariva e lo portava un mese, due, a divertirsi, lontano dalla casa famiglia.

«Senti, io domani devo andare al Gran Sasso.» iniziò l'uomo, iniziando a sparecchiare.

«Mh.»

«Non ho alcuna intenzione di darti le chiavi di casa.»

«Mhh.»

«Né soldi.»

«Non vengo con te.»

«Allora dovrai andare in casa famiglia.»

«No.»

«Sei di un immaturo inconcepibile.»

«Vacci te. Vediamo come ti trovi.»

«La strada è meglio?»

«Se la giocano.»

«Interessante.»

Xander si rotolò nel divano, la palpebra cascante.

«Xander, ho detto che potevi mangiare da me, non dormire

«Sto qui sul divano, guarda, chiudo gli occhi e dormo. Non ti accorgerai nemmeno che esisto.» biascicò quello.

«Non posso tenerti a dormire, Xander.»

«Ma io posso dormire dove mi gira.»

Allen lasciò cadere il discorso, dovendo ammettere il touche. A meno di non sfrattarlo con la forza, ma non era un'idea saggia, no.

Osò un'ultima carta.

«E' sabato sera. Esci.»

Xander roteò lentamente il capo verso lo zio, scrutandolo con due fessure al posto degli occhi.

«Sono sempre fuori. Sai che me ne frega di che giorno è.»

«A me frega.»

«Vuoi uscire? E' questo?»

«No, non voglio uscire. Ma domani mattina alle cinque ti lancio fuori a calci, perché come ti ho già detto, qui, da solo, non ci resti.»

«Meglio lasciarmi in mezzo alle strade romane alle cinque di mattina, quindi.» mormorò quello, sarcastico.

«Oh, sono sicuro che saprai cavartela.»

Il tono dello zio mescolava la fiducia alla minaccia.

Xander decise di non badarci troppo. Non ci badava mai troppo. Chiuse gli occhi e cadde nel sonno della digestione.

***

Nora osservava perplessa la testa di Dimitri, cercando, da qualche parte, il coraggio per dire qualcosa al riguardo. Era da un'ora che cercava di dire qualcosa al riguardo. Come la ragazza – bionda, occhi verde scuro, volto tondo e silhouette a forma di bottiglia della coca cola – fece per schiudere le labbra, Stefano la sorpassò – armato di rasoio elettrico e ghigno malefico.

«Ma no...» si limitò a dire Nora, con voce tenue e perplessa, aggrottando le sopracciglia.

«Dai, ormai - !» contestò Stefano – grande amante dello stile una-passata-di-rasoio-e-via, come la sua testa, ricoperta da un sottilissimo strato di velluto, mostrava. D'altronde lui compensava con la barba, nera e inauditamente folta, per un diciassettenne.

«Ormai cosa? Vuoi terminare il lavoro?» Sara era entrata nella stanza con il bottiglione di plastica da un litro di birra, e riversava acidità sull'amico come un serpente intento a soffiare.

«Non sono stato io.» rise il ragazzo.

Dimitri sospirò.

«Potremmo fargli i dread.» propose, sempre flebile, Nora.

Dimitri sospirò di nuovo.

«E' un'idea.»

Stefano storse le labbra, sbuffando infine nel dover ammettere che era un'idea migliore della sua. Peccato.

Buona parte del gruppetto si era rintanato per il sabato sera a casa di Nora – che raramente mancava di offrirla, nonostante, ogni volta, sapesse perfettamente come rischiasse di andare a finire. La pentola per la pasta, ad esempio, che stava fungendo da contenitore per il Cuba Libre, era un ottimo segnale.

Il fatto che Stefano e Dimitri fossero i principali fruitori di quel cocktail era, anche, d'aiuto.

«Elisa sa fare i dread.»

«Elisa stasera non viene.»

«E se io non volessi i dread?»

Stefano e Sara si guardarono, mentre Nora, delusa, si avvicinava al russo per domandargli «Perchè no?»

«Era solo una domanda.» rispose, mollemente, il biondo.

Nora sussurrò qualcosa, scuotendo il capo.

Nel mentre, Stefano – magro come un chiodo, ma alto come un palo – si avvicinava a Dimitri con un rinnovato ghigno sul volto.

«Non credo che tu abbia molte possibilità di scelta.» commentò Sara, divertita.

«Non credo che mi opporrò.»

Sara sospirò. Stefano tentò malamente e in modo decisamente scoordinato di balzare su Dimitri per costringerlo all'immobilità: ma Dimitri, ovviamente, non si sognò nemmeno da lontano di opporre resistenza.

Classico.

Non c'era nemmeno gusto.

***

Il portone dei laboratori del Gran Sasso ricordavano l'entrata della Bat Caverna. Allen lo aveva pensato la prima volta che li aveva visti, e continuava a pensarlo. Non c'era da stupirsi se metà della popolazione che abitava lì intorno riteneva che quella dei laboratori di fisica fosse una montatura. O, meglio ancora, che fosse terrorizzata dall'idea che lì ci fossero dei laboratori dell'INFN, ovvero di fisica nucleare. Già a vedere l'entrata c'era da pensar male. Ah, l'ignoranza – non che lui ne sapesse molto, al riguardo.

L'automobile mise la freccia, cambiando corsia ed abbandonando l'autostrada che correva nella galleria. Si fermò davanti ad un portone di metallo, massiccio, alto, grande, grosso, imponente – basta, troppi aggettivi, pensò Allen, scendendo dalla vettura e stringendosi nel cappotto.

Faceva freddino, ma non troppo.

«Buon giorno, Allen.»

Il capo ingegnere, piccolo e robusto, sulla cinquantina, gli venne incontro con un caschetto di sicurezza giallo in mano.

«Giorno, Nave.» mugugnò Allen, ancora mezzo addormentato. Sussultò quando Nave gli lanciò il caschetto: facendo appello a quei pochi riflessi che si erano svegliati con lui, riuscì malamente a prenderlo al volo – se non fosse che poi se lo lasciò cadere. Osservò l'oggetto, fermo in terra, con fare arreso – e sbuffò.

«Addormentato?»

«Abbastanza.» Allen si flesse, recuperando il caschetto e mettendoselo in testa. «Non pensavo iniziaste oggi. Mi hai incasinato leggermente la vita.»

«Vieni, che dobbiamo fare un giro strano – stanno facendo andare un esperimento, nella seconda galleria.»

«Che esperimento?»

Nave tacque, osservando Allen di sottecchi.

Allen sospirò.

«Va bene, non lo chiedo più.»

«Allen, posso anche dirtelo, ma dubito che uno psicologo possa capirne qualcosa.»

Allen scosse il capo.

Aveva ragione.

Uno psicologo non avrebbe dovuto mettere piede in quei laboratori, per quel che lo riguardava. Certo, vallo a spiegare alla difesa: lì sono abbastanza elastici da capire che uno come Allen lì dentro è esattamente la persona giusta nel posto giusto. Oh, beh. Quasi.

«Nulla di pericoloso, comunque.»

«Questo lo so.»

Non erano gli esperimenti che non capiva quelli pericolosi. Erano quelli che capiva a dargli più preoccupazione.

***

Sara schiuse gli occhi lentamente, mantenendoli socchiusi a causa della luce del sole che entrava, irruenta, dalla finestra sopra di lei. Si diede qualche secondo per fare il riassunto della situazione: non era a casa sua – ok, era a casa di Nora. Stava bene. Era abbastanza stanca, ma stava bene. A dire il vero, aveva sonno.

Si rigirò dall'altra parte del divano, cercando di riaddormentarsi. «Sara.»

«Mmmh.»

«Ti ho vista muoverti.» fece Nora, con la sua voce ovattata e sottile – quasi chiedesse scusa. «Sveglia?» osò domandarle, dolcemente.

Sara annuì. «In un certo qual senso.»

Nora si allontanò.

Sara rimase lì per qualche istante, immobile, cercando di ignorare la coscienza che le ordinava di andare ad aiutare Nora a rassettare la casa – considerando che, di sicuro, Stefano e Dimitri si sarebbero mostrati del tutto inutili.

Si alzò lentamente, cercandoli.

Uno era per terra, abbastanza a suo agio sul palquet – i neo dread, abbastanza piccini, sparsi sul pavimento. L'altro, seduto, stava dormendo con la testa appoggiata al tavolo – un rivolo di bava ai margini della bocca, che andava cristallizzandosi sulla barba folta.

«Nora.» fece la ragazza, incamminandosi verso la cucina. «Ti aiuto.»

Nora le sorrise, intenta a lavare una padella decisamente troppo incrostata.

Ah, se quei due idioti l'avessero messa ammollo ier sera, come gli avevo detto...

***

Scese le scalette lentamente, ascoltando il rumore metallico degli scarponi da lavoro sulle sbarre di ferro. Infilarsi nei tunnel che portavano alla postazione di lavoro di Nave e gli altri era un'impresa, principalmente a causa delle misure di sicurezza, a tratti eccessive: cordoni da arrampicata, torce sulla testa a causa del buio, un estintore ogni tre metri ed uno sportello da aprire ogni quattro. C'era anche lo zaino, a complicargli le cose.

Finché si trovava nei grandi tunnel degli esperimenti dell'INFN, Allen stava tranquillo: erano enormi, ben più grandi della galleria autostradale. Anche lo stanzone dove Nave e compagnia eseguivano le rilevazioni era grande e comodo – solo la strada per arrivarci appariva stretta agli occhi dello psicologo: tre, massimo quattro metri di passaggio. Troppo pochi, per quel che lo riguardava.

Ed un continuo susseguirsi di botole.

«Attento al cavo.»

«Mh...»

***

«Dio. Sto morendo.»

Stefano si accasciò sul divano, mugolando.

«Melodrammatico.»

Si prese lo stomaco, rigirandosi - gli occhi a fessura, il volto lungo e barbuto ben rappresentante il simbolo della sofferenza. «Aahuhg.»

Dimitri lo scrutò silente, la sigaretta in mano, il torso nudo con un'idea di pancetta che trasbordava dai jeans. La maglietta era ad asciugare, dopo essere stata lavata attentamente da Nora, a causa del brutto incontro che suddetta maglietta aveva avuto con un bicchiere pieno di birra.

«Che ora è?» domandò Stefano, mangiandosi praticamente ogni singola sillaba.

«Undici.»

«Aahuhg...»

Dimitri spense il mozzicone nel posacenere.

«Possibile che tu non stia male?» rantolò, infastidito, Stefano.

Dimitri si strinse nelle spalle. «Io sono russo.»

«Esiste un limite...» continuò a rantolare l'altro.

«Se ti rinfranca, non sto esattamente bene.»

«Oh. Molto rinfrancante.» mugolò quello.

«Stai per vomitare.»

«No. Non c'è più niente nel mio stomaco.»

«Come vuoi...»

Tre minuti dopo Stefano era piegato in due sul lavandino, mentre Sara roteava, sconcertata, gli occhi.

«Perché dovete sempre, dico, sempre, ridurvi così?»

Stefano era troppo impegnato a rigettare bile per poterle rispondere.

«Dico, io bevo, ma sto benissimo. Basta bere di meno, Ste.»

«Non romp - » … «Non rompere, dio poi, non vedi che sto Sof- »...

«Soffrendo, Sì. Vedo.»

***

Ema scrutava Alessandro con occhio attento, notandone l'espressione che si era lentamente irrigidita col passar dei minuti. Aspettavano da un quarto d'ora, ma non era certo il ritardo di Amanda quello che poteva dar problemi all'uomo. Che Amanda arrivasse ad ore casuali era risaputo.

Era forse l'idea di una rimpatriata?

Non che fosse la prima volta che ne facevano una – loro tre, per lo meno.

«Io te lo chiedo, ma tu non mi sbrani, eh, Ale?»

«Cosa?»

«Hai provato a sentire Adam?»

«No.»

Ema storse le labbra, portandosi la tazzina di caffè alle labbra.

«Va bene. Te lo richiederò fra tre anni, come al solito.»

«Bravo.»

Il volto di Alessandro si distese, rilassandosi.

Forse era la ritualità di quella domanda ad averlo fatto tendere. Ema aggiunse un po' di zucchero al caffè, rigirandolo col cucchiaino.

«Dovevi proprio far saltare l'allarme, ieri?» domandò il professore di lettere, sistemandosi sulla sedia.

«Ah. Quello.»

«Stavo interrogando.»

«Tu stai sempre interrogando.»

«Cosa che tu non fai mai.»

«Non credo nei voti.»

«Disse mister 110 ellode in tre lauree diverse.»

«E due PhD.» lo corresse Ema.

«E due PhD.» fece Alessandro, con un lontano sospiro.

«Volevo vedere se si riusciva ad evitare di fare quella reazione sotto la cappa. Sai, non vedono niente, se gli nascondi l'esperimento. Poi quello è teatrale, è un peccato ridurre una reazione così bella ad un rantolo risucchiato dall'aspiratore. Perde.»

«Mh. Certo.»

«Quegli allarmi sono calibrati malissimo.» aggiunse, schioccando la lingua sul palato.

Ema vide Ale dilatare le narici, e l'espressione farsi nuovamente torva.

«Ok, Ale. Cos'hai?»

«Niente.» rispose, fattosi vigile e attento.

«Ah, no, niente.» borbottò Ema, scuotendo il capo. «Fra un po' ti tiri fuori le orecchie da lupo, ma non hai niente. Certo. Ovvio.»

«C'è qualcosa di strano.»

«Questo l'avevo capito.»

«Va e viene. Si sente appena. Devo cercarlo, per percepirlo.» Ale si rilassò. «Adesso è andato di nuovo.»

La testa rotonda di Amanda fece capolino dall'entrata del bar.

***

Nave osservava Allen flesso sugli schermi dei rilevatori, gli occhi intenti a oscillare fra un monitor e l'altro: ogni tanto li chiudeva, o guardava in alto, o osservava in basso, pensoso. Ci avevano messo tre mesi per spiegargli come leggere quei grafici e quelle tabelle, allo psicologo: era stata un'impresa titanica. Ora l'ingegner capo lo scrutava assieme agli altri del team, in silenzio. Accanto ad Allen la figura rossa e longilinea della Stille – la loro fisica particellare – attendeva immobile, mordendosi il labbro per l'impazienza.

«Quindi secondo voi questo coso funziona?»

«Così han detto quelli del Fermilab.» rispose la Stille, rapidissima, quasi parlando sopra ad Allen.

«Così han detto.» ripeté lui, meditabondo.

«E' un modo rapido per dire che c'è sufficiente documentazione da lasciar pensare che funzioni.» mormorò poi la donna, prendendo a mordersi il pollice.

«Fretta, Stille?» le chiese Allen, senza staccare gli occhi dai monitor.

La Stille, che aveva poco più di trent'anni, continuò nei suoi atteggiamenti agitati, incrociando le braccia al petto vagamente prosperoso e prendendo a passarsi le mani sul collo.

«Allen, non ho la più pallida idea di cosa possa succedere. Sei tu che devi darmi una mano.»

«Uhu. E' arrivato SuperAllen.»

«Allen.» lo richiamò la donna.

L'uomo storse le labbra, rialzandosi in piedi.

«Si sente che avete punzecchiato la crosta di Gaia.» si guardò attorno, osservando i volti degli altri. Nessuno mostrava alcuna sofferenza, e questo era un buon segno. Lì c'erano abbastanza volui da mettere in difficoltà una Bestia alle prime armi – non ancora da scatenare un primo richiamo, ma... davano abbastanza fastidio. Già quando era partito, quella mattina, gli effetti dello stress test si erano sentiti. Se alle sei di mattina, a Roma, c'erano più volui del normale, cosa succedeva nel resto della regione?

Da che percepiva Allen, in quella stanza ce n'erano circa – boh, dieci volte tanto la normalità. I rilevatori parlavano di molti ordini di grandezza in più – dannate scale logaritmiche – ma, considerata la calibratura, erano valori sensati, coerenti con la sua sensazione.

«Hai presente un palloncino che perde, Stille?»

La donna annuì.

«Ecco. Più o meno quello che sta succedendo ora.»

«Quindi?»

Allen si guardò attorno, togliendosi poi lo zaino dalle spalle. Iniziò a tirarne fuori uno stock di bottigliette d'acqua.

«I valori di volui si sono alzati almeno fino a Roma. Abbastanza di meno rispetto a qua, ma si sono alzati. Quindi, quello che facciamo qui influisce anche fuori. E' come un palloncino che perde, dopo lo stress test. Poco ma costantemente – e soprattutto, lentamente, come quando c'è una perdita nei tubi del gas. Le ferite di Gaia erano cosa ben diversa – tanti volui in un colpo solo, sparati fuori, direi – ma circoscritti. Duravano poco, e poi si disperdeva tutto nell'atmosfera, in alto. Quando una ferita si chiudeva non si sentiva più nulla. Qua, invece, si continua a sentire tutto dopo lo stress test.»

«Ristagnano. L'atmosfera non è completamente trasparente ai volui.»

Allen le porse una bottiglietta.

«Sì, ma la maggior parte delle cose che si trovano da qui a Roma lo sono. Arrivano, fin là. Devi sono dargli tempo. Questo con le ferite non succedeva, andavano in alto.»

La donna osservò la bottiglietta, perplessa.

«Che è?»

«Acqua.» rispose l'uomo, con il tono di chi sta mentendo per il tuo bene e non si degna nemmeno di nascondere la menzogna. «Non credo che voi avrete problemi, ma non si sa mai. Io sono a posto. Faccio un giro per i laboratori a vedere se c'è qualcuno che si sente male.»

«C'è da sentirsi male?» domandò Nave, perplesso.

«Oh, sì. Da piegarsi in due, se si è troppo sensibili.»

Gli altri del gruppo non si guardarono indietro, presero il loro sorso di 'acqua' osservandosi perplessi. Ma tutti credevano abbastanza ciecamente allo stregone-Allen, super-Allen, l'uomo che si calibrava con i rilevatori di volui, essendo un rilevatore egli stesso. Allen sapeva.

Cosa sapesse era un mezzo mistero, ma Allen sapeva. Aveva un cartellino della difesa e il diritto di veto su qualsiasi operazione condotta in quell'esperimento proprio per questo.

Non esattamente il diritto di veto, avrebbe corretto Allen. C'erano delle condizioni da rispettare – si trovava lì leggermente contro la sua volontà. Anche se iniziava a farci il callo – e, in un certo senso, era emozionato all'idea che finalmente stessero per compiere un passo così significativo, in quel progetto.

Si issò sulle scalette con un grosso respiro.

«Quando torno incidiamo.»

Nave annuì, dirigendosi verso il terminale di controllo. Dovette stare attento a non inciampare – erano sempre così, quegli esperimenti: cavi ovunque, tastiere, fogli, monitor di svariate annate, ancora cavi, viti sparse assieme a fil di ferro e attrezzi sparpagliati per il pavimento - e, appesi per lo stanzone, cartelloni alternati a vignette ed estintori.

Un caos. Che Nave conosceva come le sue tasche.

***

I tre si sedettero al tavolino, Ema cercando di attirare l'attenzione del barista per avere il quinto caffè deca in tazza grande con latte a parte e una spolveratina di cacao – e tre bustine di zucchero, per favore. Grazie.

«Ema, scusa, prima che mi dimentico – mi hai portato le fialette?» domandò Amanda, sistemandosi la borsa in grembo. Ema annuì, sorridendo.

«Credo che le ultime tre abbiano preso su un po' di odore di zolfo.»

Alessandro lo guardò di traverso.

«Mi è scappato un esperimento.» cercò di giustificarsi con Amanda. Flettendosi malamente aprì lo zaino – Ema era uno di quei sessantenni che vanno in giro con lo zaino – e, dopo un lungo cercare, recuperò le fiale che aveva preparato per Amanda.

«Sempre lo stesso che ha fatto saltare l'allarme, immagino.»

«Ovviamente.»

La donna non ci fece caso. Prese il pacco di fiale, soppesandolo, e notando che nella sua borsetta non ci stava – decisamente no. Oh, beh, poco male. Di sicuro ce n'erano abbastanza per lei e suo figlio.

«Come va a Oslo?»

«Fa freddo.» sorrise, leggera. Il tempo le era passato addosso con calma e giudizio. Non era una donna che portava gli anni benissimo, ma la sua età era comunque complessa da indovinare. Un volto maturo sotto gli occhiali che metteva e toglieva un po' a caso, un corpo in salute e abbondante, corti capelli ramati e vestiti leggermente demodè. Era bassina, ma ancora qualche centimetro oltre ad Ema. Il quale, fra l'altro, pareva proprio che per compensare la sua mancata crescita in altezza avesse deciso di allargarsi. Ancora un po' e rotolava.

«Ma si sta bene.»

Alessandro corrugò la fronte, concentrato.

***

C'era, in effetti, un operaio che non stava affatto bene. Avrà avuto trent'anni, calcolò Allen: si avvicinò al capannello di colleghi che gli si era costruito attorno, cercando di farsi spazio.

«Tutto bene?»

L'uomo inspirava ed espirava lentamente, il volto leggermente sudaticcio. «Sopravvivo.»

«Tieni.» gli fece, porgendogli una bottiglietta.

«No, non serve.»

Allen si infilò, silente e discreto, nella mente dell'uomo: notò solo da lontano uno stallone nero intento a correre, infuriato, su e giù per un prato arso dal sole. Si allontanò, prima che l'animale potesse anche solo notare la sua presenza. Tanto gli bastava.

«Fidati, ti dico che serve.»

L'altro lo guardò, le palpebre gonfie. «State facendo casino giù, eh? Che state combinando?»

«Esperimenti.»

«Ma va, non l'avrei mai detto.» fece quello, strappandogli la bottiglietta d'acqua di mano. «Poi si stupiscono se in paese pensano che qui si stia costruendo un nuovo tipo di bomba atomica o stronzate simili.»

Allen sospirò.

«Qualcun altro in condizioni simili?»

Quelli si strinsero nelle spalle.

«Almeno 'sto schifo funziona.» commentò l'operaio, rendendogli la bottiglietta svuotata a metà.

«Non preoccupatevi, non è pericoloso. Alla peggio si sta un po' male.»

«Alla peggio.»

Alla peggio.

Palle, idiota. Lo sai benissimo che alla peggio la faccenda si fa molto più violenta. Oh, ma le misure di sicurezza ci sono – quelle che erano riusciti a prendere, per lo meno. Lo stanzone, ad esempio, era ricoperto da strati di aria compressa – l'unica cosa che si sapesse non fosse perfettamente trasparente ai volui. A parte qualche composto raro e decisamente troppo infiammabile – usato, piuttosto, per i rilevatori. Ma quasi nulla batteva l'aria, e vai te a sapere perché – questo la diceva lunga sulle loro conoscenze riguardo le proprietà dei volui. Negli stress test non avevano usato la barriera d'aria compressa al massimo, se non all'inizio: per il resto era a regimi minimi. Quindi, in realtà, c'era molta più protezione.

Forse non sarebbero nemmeno arrivati fino a Roma, i volui.

E alla peggio, pensò Allen, qualcuno va in metamorfosi.

Alla peggio.

Alla peggio tutti i demoni e le bestie d'Europa vanno in metamorfosi, ok. Lui compreso.

Scese per il tunnel, chiudendosi metodicamente i portelloni alle spalle. Ci mise un po'.

Xander era al sicuro, per lo meno.

Pensa a questo, si ripeteva.

Ieri sera ne ha mandata giù talmente tanta, di quella roba, che non c'è verso possa reagire a nulla.

A Xander non può succedere niente.

Sì, ma a te?

Scese con un balzello gli ultimi scalini, osservando lo stanzone in cui il gruppo lo attendeva – Nave di qua, Stille di là, concentrati come non mai ma iper ricettivi, voltatisi di scatto non appena era comparso.

«Allora?»

Lui continuò ad ispezionare lo stanzone, prendendone, ad occhio, le misure. Si tolse lo zaino e afferrò una bottiglietta d' 'acqua', scolandosela tutta a lunghi sorsi.

«Va bene.»

Alla peggio qualcuno si sente male.

«Incidiamo.»

Alla peggio.

_______________________

CHIARIAMO – per chi mi conosce, ben sa che i miei aggiornamenti non sono affatto ben scanditi, quindi.. finché riesco ad aggiornare così in fretta bene, ma ovviamente è un'anomalia. Effetti dello sblocco, temo che svaniranno abbastanza rapidamente. Spero di no, comunque,

Buttare personaggi lì a caso... doin it wrong.

Nel senso: mi servono. Intendo approfondirli tutti, uno per uno >.<' [dannata la mia propensione alla coralità] – ma capisco che al momento possano sembrare così, messi a caso, tanto per far corredo. Ok, al momento sono di corredo. Un po' tutto è di corredo – ma, sinceramente, volevo far vedere che 'sti disgraziati avevano una vita sana e normale, un po' così, e comunque il sabato sera Andava narrato. Insomma.

Ho La Coda Di Paglia.

Lasciamo stare. Godetevela e basta. Se no specificate. xD

Ringrazio solennemente TuttaColpaDelCielo per la recensione;

so che ho evidenti difficoltà ad amministrare le informazioni, all'inizio ce n'erano veramente troppe, come tu dici. Lo so, forse è stata una tecnica poco furba, ma in alternativa avrei dovuto abusare violentemente dei flashback – cosa che farò egualmente, quindi così contavo di ridurre il danno. Anche perché, appunto, la combriccola degli anni 70 è centrale. Non so se ho fatto una cosa furba a metterli a fare i professori; o meglio, la storia nasce così, ma immagino sia molto più vicina ad un trip stile seconda media che a una storia originale... d'altro canto, mi domando: perché no? Insomma.

Si vede che sono profondamente insicura, eh? x°D ragazzi, son presa male...

   
 
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