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Autore: SusanTheGentle    26/07/2011    4 recensioni
Ed ora era davanti a lui. Christine era lì, sulla soglia della casa di suo padre, con uno sguardo di assoluto smarrimento negli occhi castani, gli stessi della madre. Lo stesso colore l’avevano i lunghi capelli , molto mossi, che teneva sempre sciolti.
Genere: Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Severus Piton, Tom Riddle/Voldermort
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Capitolo 1:
Pensieri dolci e amari

 


“Vieni, entra” disse Severus, prendendo dalle mani della ragazza una delle sue due valigie.
Christine oltrepassò la soglia e si ritrovò in un piccolo salotto.
Una poltrona, un divano a due posti e un tavolo con due sedie di legno facevano da arredamento assieme a due grandi librerie stipate di tomi, la prima sulla sinistra e l’altra di fronte a lei. Accanto ad essa vi era una porta di legno che conduceva in un piccolo corridoio che dava sulla cucina e che accedeva alle scale che portavano al piano superiore.
Severus la condusse al secondo piano per mostrarle la sua stanza. Era piccola, c’era soltanto un letto, a sinistra, accanto alla finestra che dava su un balconcino che guardava sull’argine del fiume. Poi un armadio appoggiato alla parete di desta e una scrivania.
“Non ho avuto molto tempo per organizzarmi” si giustificò l’uomo, che era nervoso benché non lo volesse dare a vedere.
Lei gli rivolse un sorriso incoraggiante. “Va benissimo”
Christine appoggiò a terra la sua borsa e un’altra più piccola che teneva in spalla.
“Hai solo questi tre bagagli?”
“Si” disse semplicemente la ragazza.
“Certo, in fondo ti fermerai qui solo due mesi”. Non era una domanda.
Padre e figlia rimasero un istante a guardarsi, senza sapere cosa dire. Non si conoscevano, di cosa avrebbero potuto parlare?
“Io allora ti lascio sistemare le tue cose” disse Severus tornando verso la porta. “Il bagno è la porta in fondo al corridoio. L’altra è la mia camera. Se hai bisogno di qualcosa chiamami”
Christine annuì. Lui richiuse la porta e ridiscese le scale diretto in salotto.
La ragazza si guardò un momento attorno, poi si sedette sul copriletto a righe bianche e azzurre.
Non sapeva cosa aspettarsi da quella nuova convivenza, ma sapeva che il suo posto, almeno per un certo tempo sarebbe stato lì con lui, con tutto quello che le rimaneva della sua famiglia.
Si inginocchiò accanto alle tre valige e aprì quella più piccola. Estrasse il suo diario, che non era segreto, non aveva bisogno di diari segreti, perché la sua vita non ne aveva. Era una ragazza che non si chiudeva in se stessa, parlava dei suoi problemi con chi le voleva bene, perché sapeva che l’avrebbero ascoltata e consigliata. Quel diario era più una specie di album di ricordi. Lì c’era tutta la sua vita: poesie, che era sua consuetudine scrivere, annotazioni di eventi importanti, fotografie...
Andò a una delle ultime pagine, dove c’era l’ultima foto che la ritraeva insieme alla madre. Il dolore nel cuore si concretizzò in gocce di pianto che cominciarono a sgorgare dai suoi occhi. Strinse il diario al petto, abbassò il capo su di esso, e i lunghi capelli le coprirono il volto.
In quel momento, Piton entrò di nuovo dalla porta. Stava per dire qualcosa ma si bloccò quando vide la ragazza seduta sul pavimento, con il viso rigato di lacrime.
“Perdonami, dovevo bussare. Non sono abituato a farlo”
Lei non disse nulla. Restarono immobili, poi l’uomo si inginocchiò di fronte a lei.
“Vuoi tornare a casa?”
“No. Non piango per questo” disse Christine scuotendo la testa.
Piton le prese dolcemente dalle mani il diario. “Cosa stavi facendo?”
Lei lasciò la presa dal libricino e lasciò che lui guardasse.
Il sorriso di Elisabet lo travolse come una tempesta. Lui non aveva mai avuto una sua foto, la sua amata aveva vissuto per tutti quegli anni nei suoi ricordi. Non era cambiata affatto in sedici anni.
“Era bellissima” disse Piton, riporgendole il diario.
E’ bellissima. Perché lei non ci ha lasciato” mormorò la ragazza asciugandosi le lacrime con il dorso delle mani.
“Le somigli. Moltissimo”
Christine alzò gli occhi scuri su suo padre. Di nuovo Severus sorrideva.
“Posso davvero stare qui? Solo per un pò”
“Puoi stare qui per tutto il tempo che vuoi. Non ho una dimora che si può definire accogliente nel senso comune della parole, ma se qualcosa non ti va puoi cambiarla. Ad esempio, la tua stanza o i mobili, o un’altra cosa qualsiasi, soprattutto la mia arte culinaria, che lascia molto a desiderare, ti avverto”
Christine si concesse una risata sommessa.
“A quello posso pensare io. Aiuto mamma da quando ero piccola e sono piuttosto brava”
“Allora alzati, perché credo che non ci sia molto di commestibile in casa”
“Posso andare a fare la spesa, se vuoi?”
“Si. Credo sia una buona idea. Comunque, fai pure con calma, manca ancora all’ora di cena”
 
Christine sistemò la sua biancheria nel vecchio armadio. Suo padre le aveva detto che potava cambiare quello che voleva, ma lei non avrebbe toccato una singola cosa di quello che lui aveva preparato per lei.
La casa, al contrario di come l’aveva definita lui, alla ragazza sembrava carina. Certo, mancavano la televisione, il telefono, e tutti gli elettrodomestici che avrebbero dovuto essere fondamentali in una casa, specie per una persona che vive da sola. Probabilmente suo padre si arrangiava in qualche modo, magari aiutato da qualche amico o vicino. Ma di vicini non ce n’erano molti, sospettava.
Quando era scesa dal taxi che l’aveva portata lì, con in mano solo un indirizzo scritto su un biglietto, aveva faticato a trovare la via. Era un vicolo più che una strada. C’erano palazzi, abbandonati per lo più, una grande fabbrica in disuso da chissà quanti anni che torreggiava sulle case e un fiume che scorreva a dividere le varie stradine che si diramavano nella più nascosta periferia di Londra.
Era come se quel posto dovesse passare inosservato ai più, per questo credeva che i vicini, anche se fosse andata a bussate alle loro porte, non avrebbero risposto. Perché non ce n’erano.
Era un luogo strano, quasi permeato da un’aura di mistero, ma non le incuteva timore, curiosità semmai.
Sapeva che sarebbe stato un percorso lungo quello tra lei e suo padre. Sedici anni non erano pochi, e lei aveva così tante cose da chiedergli…di lui, di sua madre, del loro incontro, e di come mai non si fossero più rivisti. Anche se lui abitava in un luogo così sperduto, avrebbe potuto ugualmente ritrovala.
Elisabet le aveva parlato spesso di suo padre, ma senza mai entrare in dettagli. Diceva sempre che era un uomo di cui non conosceva niente se non l’essenziale per amarlo anche se dovevano stare separati.
Christine era una bambina, ma aveva sentito dire la madre alla zia che non poteva andare a cercarlo.
Si era chiesta il perché, per tanti anni. Forse suo padre nascondeva un segreto di qualche tipo, le era persino capitato di immaginare che fosse un criminale di chissà quale risma, ma poi vedeva Elisabet piangere, esattamente come aveva fatto lei qualche istante prima, piangere accasciata a terra, solo che lei non aveva foto da stringere e ricordi da guardare e immortalare su un diario. Eppure il suo amore per quell’uomo non era mai vacillato per sedici anni, quindi, non poteva assolutamente essere una persona malvagia.
Chiuse il cassetto della scrivania, dove vi aveva riposto il suo diario e il cofanetto con tutti i suoi pochi tesori, e si avviò alla finestra. Aprì la porta e uscì sul balcone. Si appoggiò alla ringhiera e respirò l’aria umida di Londra. Confronto a dove viveva lei, a Uppsala, a circa 40 km a nord di Stoccolma, quella città le sembrava troppo diversa. Christine abitava nella parte vecchia di Uppsala, in campagna. Là, ogni volta che guardava fuori scorgeva davanti a sé il verde dei boschi, le colline, in contrasto con il freddo e grigio panorama che vedeva ora. Però voleva restare, nonostante la sua terra le mancasse già un poco.
“Mamma, dimmi tu cosa devo fare? Mi sento così perduta”
Nuove lacrime affiorarono nei grandi occhi castani della ragazza. Era solita parlare con sua madre da quando lei era morta, perché aveva l’assoluta certezza che lei non l’avrebbe mai abbandonata. Elisabet sarebbe rimasta al suo fianco, se non fisicamente, almeno dentro al suo cuore. Christine ci credeva, l’aveva sempre creduto, e non era una speranza la sua, era una certezza, profonda e immutabile.
Il vento si alzò e cominciò a cadere qualche goccia di pioggia estiva.
Christine riaprì gli occhi e sorrise al cielo.
Sua madre le diceva sempre che Dio è nella pioggia. E forse Dio le stava mandando un messaggio da parte di sua madre. Il vento le girò attorno, producendo una specie di minuscolo vortice. Partì dalla strada e si alzò fino a d arrivare lassù fino al balcone, facendo volteggiare i suoi lunghi capelli. Sembrava volerle dire: sono qui, non ti arrendere.
La zia le diceva che erano sciocche fantasie, ma la ragazza sapeva che non era così, non se le immaginava quelle cose. Lei chiedeva aiuto e i segni arrivavano sempre.
Si concesse un sorriso più ampio e lasciò che una lacrima scendesse lungo la guancia rosea.
Le ritornarono in mente alcune parole che sua madre le aveva rivolto, quelle pronunciate nei suoi ultimi giorni di vita.
“Non lasciarti sconfiggere dalla solitudine. Sorridi! La tristezza non ti si addice bambina mia, perché il sorriso è la tua migliore qualità. Il dono più prezioso che Dio ti abbia concesso”.
La mamma le parlava spesso di Dio, leggevano insieme le scritture, andavano in chiesa ogni domenica, e anche quando Elisabet non aveva più potuto alzarsi dal letto, Christine vi si recava per tutte e due.
Dio e sua madre, quel giorno, erano con lei.
“Grazie” disse con voce chiara e limpida, non più rotta dal pianto.
Si voltò e tronò in casa facendo una promessa a se stessa: dall’indomani avrebbe cominciato la sua nuova vita pensando solo alle cose belle, come sua madre avrebbe voluto. 

   
 
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