Non mi ero certo liberata di tutte le cose che io e lui avevamo condiviso tutte in quel famoso giorno, anche perché mi era stato impossibile. Il giorno dopo la nostra rottura, quando avevo tentato di raccattare tutto quello che non era in bella vista, Giada mi aveva tassativamente vietato di buttare via tutto. Così, visto che ero troppo apatica per poter replicare, avevo lasciato che lei mettesse tutto via come se si fosse trattato di ricordi suoi. Lo so, forse non avrebbe dovuto farlo, avrebbe dovuto lasciarmi buttare via tutto, ma non me la sentivo di farle un torto così grande. Quasi come se il cuore spezzato fosse stato suo.
Ad ogni modo, Giada aveva raccolto altre foto, vecchi diari e qualche lettera che mi era sfuggita all’interno di quella scatola per le scarpe, nascondendola nel secondo cassetto del comodino. A quei tempi lei credeva ancora che per noi due ci fosse ancora una speranza, e come lei lo credevano tutti. Così, mentre quei ricordi restavano seppelliti lì come se potessero essere rivissuti, io conducevo la mia apatica vita senza esser mossa neanche per un secondo dal desiderio di aprire quella scatola. Una normale ragazza avrebbe avuto questo desiderio almeno una volta, in un malinconico momento di nostalgia, ma io mai. Per me era come se quella scatola non fosse semplicemente riposta nel secondo cassetto del comodino, ma era come se fosse seppellita sotto terra, dove nessuno avrebbe potuto mai più prenderla ed aprirla.
Nessuno riusciva a capire che il passato non può più tornare.
Invece quel pomeriggio, appena ventiquattro ore dopo il mio secondo incontro con Federico, mi sedetti sul letto e aprii quella scatola.
Foto, lettere, una maglietta appallottolata in un angolo.
Afferrai la prima foto che mi capitò per mano.
Raffigurava una spiaggia soleggiata, il mare cristallino sul fondo e io e lui, abbracciati su un asciugamano, sorridevamo all’obbiettivo come due bambini. Io avevo i capelli al vento, le guance rosse dal sole e le gambe piegate da un lato. Avevo le braccia intorno al suo busto e il viso poggiato sul suo petto. Lui sorrideva anche più di me, mi cingeva le spalle aveva gli occhi socchiusi a causa del sole. Anche i suoi capelli erano al vento come i miei.
Se per tutti quei mesi i miei pensieri su di lui avevano avuto natura astratta, in quel momento mi sentii come se dei forti spilli mi pungessero la pelle. Stavo ricordando quella giornata estiva. La sentivo sulla pelle, nel cuore, dentro di me. La sentivo riaffiorare, la sentivo rivivere.
Era la giornata che precedeva il mio compleanno, ed eravamo andati al mare. C’era un caldo insopportabile ma per fortuna quel giorno c’era un po’ di vento. Io avrei voluto portare con noi alcuni amici, lui aveva insistito perché fossimo da soli. Avevamo chiesto ad una donna di scattarci quella foto, e poi lui l’aveva ringraziata con un sorriso. “Guarda come sei bella!” mi aveva detto mostrandomi la foto dalla macchina fotografica. Io l’avevo guardata storcendo la bocca, poi avevo detto “Ho le guance rosse, assomiglio ad Heidi!”. Poi eravamo scoppiati a ridere.
Di quella giornata iniziai a ricordare i chilometri che avevamo percorso in macchina per arrivare, il colore azzurro intensissimo dell’acqua del mare, le risa che avevano occupato il nostro tempo e le sue labbra che mi avevano baciata molte volte.
Per la prima volta dopo un anno, provai un sentimento.
Il problema era che non sapevo di quale sentimento si trattasse.
Mi venne voglia di alzarmi, urlare, ridere, esultare. Forse il mio cuore non era completamente da buttare, forse riuscivo ancora a provare dei sentimenti. Le mie speranze erano tornate in vita dopo aver osservato quella foto.
La riposi di nuovo nella scatola e decisi di rovistare ancora un po’, magari avrei risvegliato nuove emozioni. Ora che il cuore si stava rimettendo in moto, non potevo mica fermarmi.
Afferrai un bigliettino stropicciato piegato in quattro e lo aprii. C’era scritto: “Non c’è niente che non farei per poter passare il mio tempo con te. Adesso stai per ridere, lo so, non sembro tipo da biglietti clandestini. Ma è una sorpresa, una sorpresa per te. Passo a prenderti alle quattro. Fidati ti me”.
Mi era venuto da ridere, proprio come lui aveva predetto.
Quel biglietto me lo aveva infilato nella borsa (col rischio che non lo trovassi) qualche mese dopo la nostra conoscenza.
Per sua fortuna io trovai quel biglietto e decisi di fidarmi di lui, giusto per saziare la mia curiosità. Quella pomeriggio, quando mi venne a prendere, non avrei mai immaginato dove stava per portarmi. Ci infilammo in macchina e lui sorrideva felice, come se non avesse mai passato un momento più bello. All’inizio pensai che il nostro viaggio fosse breve, ma quando imboccò l’autostrada sgranai tanto d’occhi. Lui si mise a ridere di fronte alla mia espressione e mi intimò di stare tranquilla, dicendomi che ormai avevo scelto di fidarmi di lui.
Confesso che per qualche momento ho persino dubitato della sua sanità mentale.
Ma dopo aver passato due ore in macchina, mi resi conto che i miei dubbi erano fondati.
Senz’altro non era sano mentale.
Mi aveva portato al concerto di Jovanotti, che si esibiva quel giorno in una cittadina non molto lontana dalla mia.
Lui sapeva quanto mi sarebbe piaciuto partecipare al suo concerto, e sapeva quanto c’ero rimasta male quando non avevo trovato i biglietti.
Quando arrivammo davanti al teatro, iniziai a piangere dalla gioia. Lo abbracciai fino a stritolarlo, mi rovinai tutto il trucco, ma passai una delle serate più belle della mia vita.
Tutt’ora non sapevo dove avesse scovato quei biglietti introvabili.
Un’altra emozione di trapassò il cuore.
Per un secondo misi in dubbio i miei ragionamenti di mesi. Era impossibile che io non l’avessi amato, se adesso (per ben due volte!) avevo provato delle emozioni. Come mi era venuto in mente, durante tutto quel tempo, di pensare di essere impazzita? Cosa m’era successo?
Sentii dei passi nel corridoio e richiusi la scatola, rimettendola in fretta al suo posto.
Quando Giada entrò in camera, mi trovò seduta sul letto con le braccia incrociate, a fissare il vuoto.
Mi fissò in maniera strana, forse percepiva dal mio sguardo che era successo qualcosa.
- Che ci fai qui tutta sola?- mi chiese incrociando le braccia al petto.
- Niente- risposi sorridendo, - sono appena tornata. Mi riposo-
- Mmh-
Stava cambiando tutto, di nuovo.
Un raggio di luce entrava dal balcone della mia camera, ma non ci pensai nemmeno a svegliarmi. Se c’era una cosa positiva nell’arrivo dell’estate, era proprio il fatto che non avevo nessun orario: potevo dimenticare il tempo e lo spazio per dedicarmi a me stessa, alle esigenze più recondite del mio corpo. E poi un innocuo ed inutile raggio di luce non poteva niente contro la potenza delle mie palpebre che erano pronte a riaddormentarsi. Non succede mai come nei film, dove la luce dorata di un fantastico sole entra dalle inferriate a svegliare le belle protagoniste, talmente sensibili da svegliarsi anche con gli ultrasuoni.
Ma non vivevamo in un film. Il sole non è dorato e soprattutto, io non ero una protagonista.
Decisi di riaddormentarmi in una frazione di secondo, quando sentii un rumore fastidioso provenire dalla mensola sopra di me. Per un secondo pensai di star sognando, mi posai il cuscino sulla testa convinta di zittire il mio inconscio, ma con nessun risultato.
Dopo qualche secondo, mi misi seduta sul letto e voltai gli occhi verso il suono fastidioso.
Appena i miei occhi catturarono la visione del mio cellulare che, tutto illuminato, vibrava e canticchiava, mi si aprì un buco nello stomaco. Chi diavolo mi chiamava a quell’ora della mattina?
Avrei avuto tanta voglia di lasciarlo squillare e rimettermi a dormire, ma il fatto che il mio cellulare stesse squillando alle dieci di mattina era una cosa talmente rara che non poteva lasciarmi sfuggire la possibilità di far accadere qualcosa di diverso alla mia vita.
Lo afferrai e senza neanche osservare il numero sul display, risposi.
- Pronto?-
- Ris!-
Federico.
- Santo Cielo…-
- Si, buongiorno anche a te!-
- Dove hai preso il mio numero?-
- Boh, non ricordo. In una vecchia agenda forse-
- Tu hai una vecchia agenda?-
- Potrei-
- Non ne ho mai sentito parlare-
- Ce ne sono di cose che non sai, cara la mia Ris-
- Non chiamarmi cara. E dimmi perché mi hai chiamato alle dieci del mattino!-
- Per dirti che sto passando a prenderti-
- Cosa? Sei pazzo?-
- Assolutamente no-
- Oh si che lo sei. Come ti viene in mente una cosa del genere?-
- Mi hai dato tu il via libera-
- Cosa? Ma cosa stai dicendo?-
- Ehi, ti sei già scordata il “sorprendendoti”?-
- Non ti ho preso sul serio-
- Lo sospettavo. Beh, dovrai ricrederti. Su, ora alzati dal letto e preparati. Sarò da te in dieci minuti-
- Non ci penso neanche! E poi come sai che sono a letto?-
- Hai la classica voce di chi si è appena svegliato-
- Non è vero!-
- Si invece-
- Okay, non importa -
- Già, non importa. Riesci ad essere pronta tra dieci minuti?-
- Non ti è chiaro il concetto forse: non-ci-penso-neanche-
- Andiamo, Ris. Non imparerai niente così-
- Mi manderai a fuoco il cervello, Federico-
- Lo prendo come un complimento. A tra poco!-
- Ehi aspetta un attimo…-
Come una medicina, Federico andava preso a piccole dosi per restituire vita all’anima e al cuore.
Mi alzai come una furia dal letto rendendomi conto che se rimanevo lì a pensare perdevo solo tempo utile.
Con la stessa velocità con la quale mi ero alzata mi preparai davanti agli sguardi sconcertati di Giada e di mia madre.
- Dove te ne vai di bello?- mi chiese quest’ultima mentre rideva sotto i baffi.
La guardai cercando di sorridere.
- Ho completamente dimenticato di avere un appuntamento con Candida-
- Oh, va bene. Fa’ presto allora-
- Che c’è, ridi di me?- dissi, mentre correvo da un lato all’altro della stanza afferrando oggetto a caso e infilandoli nella borsa.
- Già, - rispose lei, parecchio divertita, - è che credo che non averti mai vista in ritardo prima d’ora-
- Oh beh, ho scordato di mettere la sveglia, tutto qui-
- Buona passeggiata-
- Grazie! E tu cosa fai?-
- Ascolto i tutorial su Youtube per imparare a suonare la chitarra -
- Ma tu non hai una chitarra-
- Lo so. Ma è affascinante, non trovi?-
Avrei voluto avere il tempo per specchiarmi un’ultima volta nell’androne del palazzo, ma appena scesi l’ultimo gradino vidi Federico fuori dal cancello che fissava il suolo con aria assente.
Bastò il ticchettio dei miei passi che veloci e decisi uscivano dal palazzo per fargli alzare la testa e donargli di nuovo il suo fantastico sorriso.
Se i sorrisi si potessero comprare, io avrei comprato quello di Federico senza alcun dubbio.
- Buongiorno Ris!- mi salutò allargando le braccia.
- Ciao Federico -
- Sei veloce a preparati. Ho aspettato soltanto per sei minuti e mezzo qui sotto-
- Hai cronometrato il tempo?-
- Una specie-
Le parole riscesero lungo la gola impedendomi di dire altro.
- Ad ogni modo, mi dispiace di averti svegliato. Ma non ti pentirai di avermi ascoltato, piccola-
- Non chiamarmi piccola. E poi beh no, non sei scusato. Mi hai fatto prendere un colpo-
- Ma devi pur ammettere di essere rimasta sorpresa dal mio gesto completamente inatteso-
Federico continuò a fissarmi in viso fin quando non fui costretta ad incontrare i suoi occhi.
- Beh, si. Ecco, si. Pensavo di essermi liberata di te- mi decisi a rispondere.
- Questo è un desiderio irrealizzabile, mi dispiace-
- Scusami, Federico, scusami una domanda- iniziai, con il tono più dolce che conoscevo.
- Prego- mi invitò lui, canzonando il mio tono.
- Ma dove diamine stiamo andando?-
Un flashback mi attanagliò la mente. Tornai indietro alla sera precedente, quando avevo ritrovato nello scatolone dei ricordi di Giada il biglietto scritto da lui il giorno del concerto di Jovanotti.
La mia espressione variò e Federico dovette accorgersi che qualcosa tra i miei pensieri era mutato.
La situazione pareva simile: ero uscita di casa senza sapere dove dovessi andare, mi ritrovavo a salire su una macchina e partire per chissà dove.
L’unica differenza era che alle dieci e mezza del mattino non ci poteva essere nessun concerto di Jovanotti.
- Avanti, salta su- mi disse, mentre la voce diveniva più seria.
- Dove andiamo?-
- Non salgo se non mi dici dove andiamo-
Federico mi guardò dolcemente, socchiuse le labbra come se volesse dire qualcosa, fece scorrere la mano sulla portiera dell’auto avvicinandola furtivamente a me. Incatenò i miei occhi ai suoi e sentii il mio cuore battere pericolosamente.
Mi stava fissando. Già, mi stava fissando. Stava cercando di convincermi col pensiero, di convincermi a fidarmi di lui, a salire su quella dannata macchina. E io, come una stupida, stavo ripercorrendo il passato, incredula e smarrita. Mi sentivo un’idiota.
- Non ti fidi neanche un po’ di me? Cavolo Ris, ci conosciamo da tanto tempo-
Sospirai rumorosamente.
Beh, che avevo da perdere? Nonostante stessi nuovamente impazzendo, non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di mettere in moto i miei sentimenti, e solo qualche ora prima avevo convenuto con me stessa che l’unico modo per farlo era passare il mio tempo con Federico.
- No, non mi fido poi molto. Ma salirò lo stesso. Ormai sono scesa di casa e non ho intenzione di tornarmene indietro-
Si sedette accanto a me e mise in moto la macchina. Cadde un silenzio imbarazzante.
Abbassai lo sguardo come una bambina intimidita, Federico alzò le spalle.
- Non ho intenzione di mentirti, Ris -
- Meno male-
- Voglio aiutarti a trovare il regalo adatto per Giada-
- E perché?-
- Perché sei un incapace-
- Ti ringrazio, Federico -
- Tu non hai sentimento-
- Si che ce l’ho-
- No, Ris, no. Tu non volevi che io ti sorprendessi, non lo volevi proprio. Tu dovresti imparare a convivere con qualche emozione violenta-
- Ma tu cosa ne sai?-
- Sei prevedibile-
- Insomma, la smetti di insultarmi?-
- Ecco, guarda: ti sveli da sola. Credi che la prevedibilità sia un errore. Ti senti sbagliata, Ris?-
- Smettila di confondermi-
…
Se fossi stata onesta con me stessa avrei avuto la lucidità di dire che quella mattinata con Federico mi servì molto. Innanzitutto, mi resi conto che avevo poca inventiva riguardo al regalo di Giada: non ero riuscita a comprare niente nonostante mi avesse condotto in migliaia di negozi. Lo sguardo di Federico era attento e vivace, si posava su ogni particolare che lo circondava commentandolo con allegria e giudizio, io invece ero la solita taciturna, un po’ cinica e insensibile. Mi stavo rendendo conto di quanto fosse assurdo il mio modo di essere, mi sentivo annullata di fronte ad una personalità come la sua. Avevamo fatto il giro del centro commerciale, poi mi aveva riaccompagnata a qualche metro da casa. Mi aveva sorriso con fare simpatico, ma io non ero stata con lui altrettanto. Il fatto che lo ritenevo bello, e con bello non intendo piacevole, ma oggettivamente bello, mi rendeva nervosa e ancora più antipatica.
Quando rientrai, Giada mi corse incontro.
- Allora? Com’è andata?-
- Cosa?-
- La passeggiata-
- Oh, bene!- sorrisi, le accarezzai i capelli simulando tranquillità, - e tu? Hai imparato a suonare la chitarra?- le chiesi.
- Credo di essere portata per la musica-
Afferrai l’apparecchio e lessi il numero di Federico.
Poi tutto mi sovvenne.
- So cosa vuoi dirmi – esordii non appena mi portai il telefono all’orecchio.
- Sei perspicace, Ris. Eppure potrei offendermi, sai? Mi stai dando del prevedibile-
- Non essere stupido. Ho dimenticato la borsa nella tua macchina, non è vero?-
- Già. Ma non preoccuparti, me ne prenderò cura fino a quando non verrai a riprendertela-
- Non potremmo incontrarci più tardi dove ci siamo visti stamattina? Mi dai la borsa e vai per la tua strada-
- Oh no, Ris, non se ne parla. Se vuoi riavere la tua borsa, vieni a riprendertela a casa mia-
- Sei pazzo? Non so nemmeno dove abiti-
- Posso sempre darti l’indirizzo-
- Ma perché devo venire a casa tua?-
- Vuoi riavere la borsa?-
- Cos’è, un ricatto?-
- Una specie-
- Sei un’idiota-
- Così mi offendi-
- Non la smetti mai di giocare, non è vero?-
- Okay, Ris, non arrabbiarti. Ti offro una bevanda, ti riprendi la borsa e vai via. Cosa c’è di più semplice?-
- Ok, d’accordo-
- Cosa? Cosa hai detto?-
- Ho detto che va bene. Verrò a prendere la borsa. Sei fortunato che è la mia borsa preferita e non la lascerei mai nelle tue mani per più di sei ore!-
- Mica la mangio-
- Dimmi dove abiti-
- Allora ti aspetto, Ris -
- Già, fa’ un po’ quel che ti pare-
- A dopo-
Il solo pensare il suo nome mi riportò di colpo alla realtà, precipitai come da una grossa rupe in un mare di paura. L’assurdità dei nostri incontri e la sua enigmaticità mi mettevano tremendamente a disagio, considerando anche il fatto che io non sapevo nulla di Federico. Già, non sapevo nulla di lui. Che tipo di vita conduceva, che persone frequentava. E soprattutto, che cosa stesse cercando in me, dai nostri discorsi, dai nostri sguardi. Era solo un semplice passatempo? Non mi pareva vero che mi stessi chiedendo una cosa del genere. Cosa m’importava di Federico? Cos’era lui per me, se non un inutile aggancio al mio passato? Avevo paura di quello che era successo, di quello che sarebbe successo. Mi chiedevo perché si ostinava a volermi vedere, già, perché voleva vedermi? E soprattutto, perché non aveva mai fatto riferimento a lui? Questa era una domanda che fino a quel momento non m’era mai venuto in mente di farmi. In definitiva, io e Federico eravamo stati legati soltanto da lui. Ma adesso lui non c’era, e tutto si ribaltava. Tutto era cambiato.
Mi rialzai meno contenta e più perplessa.