Kaizoku no Allegretto
L’allegretto
del pirata
Atto 17
–parte prima-
Atto 17, scena 1
Il gelo del pavimento del quartier generale,
tanto vuoto da risultare quasi inquietante agli occhi di Koby
ed Hermeppo, pizzicava i piedi nudi di Clarina con rinnovata insistenza ad ogni suo nuovo passo,
fallendo comunque nel tentativo di distoglierla dal proprio obbiettivo.
Le sopracciglia bionde della paradisea si
corrugarono verso il centro della fronte, conferendole, senza che i suoi due
accompagnatori potessero vederla, essendo dietro di lei, un aspetto ancor più deciso ed orgoglioso del
solito.
Era una donna di carattere Clarina Sassonia.
Koby ed Hermeppo
potevano affermarlo con assoluta certezza, nonostante il poco tempo trascorso
con lei.
Era una mamma, dopotutto. Le sue azioni
erano trascinate da qualcosa di più forte dell’egoismo o l’istinto di
autoconservazione.
Non era per se stessa che stava rischiando
di essere catturata di nuovo, questo era certo.
C’era una ragione più che valida che stava
muovendo i suoi passi, troppo frettolosi e decisi per non esserlo.
Koby aveva sentito menzionare dal vice
ammiraglio, seppur brevemente,un frutto, prima di essere sbattuti fuori dalla
nave al freddo del mattino.
Possibile?
Per Clarina
sembrava che lo fosse e solo i suoi pensieri, riflessi nelle cornee dei suoi
occhi cristallini, puntati sulla fine di quel lungo corridoio, potevano celarne
il motivo.
“Agiata!”
esclamò piacevolmente sorpresa, accorgendosi solo in quel momento della
paradisea rosa sgusciata alle sue spalle senza che se ne accorgesse.
Non
era abituata a ricevere visite. Da quando le altre erano venute a sapere della
nascita di Archetto le sue sorelle avevano cominciato ad andare a trovarla
sempre meno.
“Che
bella sorpresa! Come mai da queste parti? Sei venuta a trovare Allegra? Oggi è
fuori con Archetto per la pesca! Mi spiace!”
Si
fermò dal continuare, vedendo il visino di Agiata rabbuiarsi di colpo.
Si
morse la lingua.
A
volte malediceva la propria schiettezza. Grande spirito, sapeva che Agiata era
più che gelosa di Archetto, ora che Allegra non aveva più tempo per lei!
“O-oh, ma dovrebbe tornare a momenti!” si sbrigò ad
aggiungere. Oooh se avesse fatto piangere Agiata e Drama, sua madre, l’avesse scoperto sarebbero stati dolori.
“Veramente
io… non sono venuta qui per vedere Allegra.”
Quella
frase la sconvolse non poco: Agiata che non voleva vedere Allegra?! Grande
spirito, il mondo stava forse per finire?!
“Zietta…” mugugnò, storcendo un po’ il naso la piccola
paradisea con la vocina incrinata “Sento che qualcosa di brutto sta per
arrivare …”
Non
ebbe la forza di chiederle cosa, perché poteva percepire benissimo quello a cui
si riferiva Agiata: i suoi occhi denudarono l’anima della piccola senza fare il
minimo sforzo, facendola sfiorare con la propria.
Sussultò,
capendo: una grande minaccia, terribile, letale, spietata, inumana.
Gli
occhi della paradisea rosa si alzarono su di lei e la guardarono imploranti.
“…
e… io non sopravvivrò.”
Fu
come sentirsi schiacciare da un masso pesantissimo.
Avrebbe
voluto sorriderle, dirle di non essere così negativa, rassicurarla che forse la
minaccia che aveva avvertito non era così terribile, ma non poté. Agiata non
sbagliava mai su cose simili e non parlava mai a vanvera.
Per
questo lei, paradisea di più alto grado tra quelle della sua generazione,
dotata dell’essenza più importante di quell’Era, si ritrovò confusa ed incerta
sul da farsi.
Due
generazioni prima, quando né lei né Agiata erano ancora nate, due paradisee con
le loro medesime essenze si erano fronteggiate in quella maniera, intuendo
entrambe l’avvicinarsi della tragedia.
Ma
le parti erano ormai invertire: era a lei, la Verità, cui spettava la
decisione, e ad Agiata, la Vita, piccola, resistente e cocciuta, non sarebbe
restato che chinare il capo.
“No
…”
“Zietta
… io…”
“Non
ti lascerò morire così!”
No… non l’avrebbe fatto.
Agiata non meritava di sparire in quel
modo. Non POTEVA sparire in quel modo.
Fin dalla prima volta che l’aveva vista,
con quella sua testina fiammante e gli occhi nerissimi come una notte senza
stelle, aveva capito quale fosse la sua Essenza, ed aveva giurato a se stessa
che mai e poi mai l’avrebbe abbandonata.
Mai e poi mai.
Arrivare davanti a quella che era stata la
sua prigione la lasciò per un attimo sbigottita, forse per i brutti ricordi
legati a quel posto, forse per l’inquietante fatto di trovare la porta
spalancata.
Si fermò sulla soglia, guardando timorosa
l’entrata di quell’antro scarlatto.
Sentiva che qualcosa non andava. L’aria a
contatto con la sua pelle si era fatta pesante e strisciante come le spire di
un serpente.
La sua mente le diceva di non procedere,
ma qualcos’altro la spingeva fare un’altro passo: quello che l’avrebbe fatta
nuovamente ritrovare in quel posto maledetto.
La mano gentile di Koby
le si posò sulla spalla, cercando timidamente di attirare la sua attenzione
“Signora Clarina?”
chiese il ragazzo non ottenendo comunque alcuna risposta né reazione alla
propria domanda.
Per una decina di secondi la situazione
non si sbloccò.
Clarina stette lì ad osservare con astio
l’oscurità di quella camera, quasi ordinando di rivelarle cosa nascondesse di
così terribile da farla vacillare, finchè la
risposta, con una vibrazione d’aria, calda e appena percettibile, arrivò.
“STATE GIU’!!”
Le sue mani erano riuscite a scansare i
due ragazzi appena in tempo per puro miracolo e il colpo di lava, probabilmente
diretto proprio a loro, ebbe l’unico effetto di bruciarle i capelli,
annerendoli e sgretolandoli come cenere alle punte.
Fu con sollievo che la paradisea, alzando
lo sguardo cobalto verso i suoi due protettori, constatò che entrambi, a parte
il colorito cadaverico, fossero rimasti illesi dall’accaduto, cosa che non si
poteva dire per la sua chioma.
“Guarda cos’hai combinato.”
La voce fredda del peggiore dei suoi
incubi attirò nuovamente la sua attenzione sulla soglia di quella camera,
facendole assistere alla lenta e funesta apparizione di quello che, dicendole
di amarla, l’aveva costretta a stare con lui, contro la propria volontà.
Clarina era conscia di quanto la situazione
fosse, in meno di pochi istanti, precipitata, ma lasciarsi prendere dal panico
sarebbe stato come scavarsi la fossa, e non poteva.
Per quei ragazzi che l’avevano aiutata,
per Agiata, per i suoi bambini che l’aspettavano, doveva essere forte e tirare
fuori la parte peggiore di lei.
Le sue sopracciglia bionde si arcuarono
verso l’alto dando sfoggio nel contempo al sorriso più malizioso e sfrontato
che avesse mai indossato.
“Combinato?” chiese con tono ironico,
alzandosi lentamente sulle proprie gambe, senza dare il minimo segno di
vacillare.
“Che cosa avrei combinato Akainu?” concluse fronteggiando fieramente e a testa alta
il marine, incrociando le braccia sotto il seno con sicurezza.
Il viso corrucciato dell’ammiraglio non
tradì la sorpresa di vedere quella donna parlargli in quella maniera, cosa che
invece non fecero Koby ed Hermeppo,
sbalorditi così tanto da assumere un’espressione forse un po’ troppo fuori
luogo, dato il momento.
“Ti ho forse causato qualche problema
cercando di ritrovare la mia libertà?”
“Ti ho già permesso troppo lasciandosi in
vita, Clarina, e lo sai.” Fu la risposta impietosa di
Akainu che come una nuvola nera in cielo oscurò il
sorriso derisorio della donna, tramutandolo in una linea curva e stretta.
“Quelle della tua specie non ne avrebbero
neppure il diritt-..”
“Zitto.”
Koby ed Hermeppo
ingoiarono un groppone di saliva simultaneamente, non credendo a quello che
avevano appena udito. Aveva appena ordinato ad Akainu
di stare zitto??
“Non una sola parola.”
Koby tremò sentendo il tono della Signora Clarina solleticargli quasi in soffio gelido le orecchie e
combatté contro l’istinto di rannicchiarsi a terra come un bambino e tapparsi
le orecchie per non sentire un parola di più.
Era terribile. Si sentiva gelare fin delle
ossa … e non capiva il perché.
Dov’era finita la voce calda e confortante
di quella donna?
Dov’era finita la sua natura dolce,
indifesa e materna?
“Ugh..” si lamentò
stringendo i denti sotto gli occhi confusi e preoccupati di Hermeppo.
“Se ti sentisse mia figlia, saresti già
morto.” Continuò intanto la donna, ignara di quello che stava accadendo alle
proprie spalle.
“Tua figlia è morta.”
Seguì un intenso momento di silenzio.
Clarina indurì ancora di più lo sguardo a quella
insolente affermazione e, dal modo in cui le braccia di Akainu
avevano iniziato a tremare impotenti, irrigidendosi sotto uno degli effetti
della sua Essenza che meno di tutti usava, intuì di stare andando bene. Nessuno
sopportava il peso della Verità, specie quando questa gli è avversa.
“Osi contraddire me, Sakazuki?”
sussurrò, stirando le labbra in un altro seducente e sfrontato sorriso, facendo
un passo verso l’ammiraglio.
Uno solo, ma che bastò per vedere gli
occhi dell’altro venire offuscati da un velo di dubbio.
Tintinnò l’aria con una risata beffarda e
cristallina.
“Ahaha..Faccio
davvero così paura?” fu solo un attimo di luce il sorriso divertito che mostrò,
simile a quello che indossava tutti i giorni, per poi riaffondare
nel freddo invernale di poco prima.
I suoi occhi cobalto, benché le due
reclute non potessero vederlo dalla loro posizione, non erano mai stati così
duri e persino Akainu ne era rimasto turbato.
La donna che per mesi era stata sua
succube, accettando con pianti e suppliche la propria prigionia e il fatto di
essere amata da qualcuno come lui, in quel momento gli si stava lentamente
rivoltando contro, schiacciandolo con qualcosa di talmente forte da non poter
essere minimamente paragonabile all’Haki.
Era come sentirsi pungolare da centinaia
di coltelli affilati e pronti a trapassarlo da capo a piedi.
L’Ambizione non aveva quell’effetto.
In tutti i suoi anni di carriera aveva
incontrato centinaia di pirati capaci di fargli assaggiare una briciola di
quello che si provava sentendosi sopraffare dalla volontà altrui, ma non era
lontanamente somigliante a quello che stava subendo.
L’Haki ti
schiacciava tra due muri come una sardina, facendoti mancare l’aria dai
polmoni.
Clarina invece, solo parlando e guardandolo, lo
faceva bloccare per la paura, lo faceva sentire in trappola, dandogli comunque l’impressione
di poter annaspare in uno spazio astratto per una qualsiasi via di fuga.
Non vide la mano della donna allungarsi e
tendersi sinuosa in sua direzione, mostrando il palmo aperto in attesa di
essere riempito da qualcosa.
“Rendimela.”
Fu colto da un attimo di smarrimento.
“La Nota, Sakazuki.”
Le sue dita si contrassero mentre avvertì
quel piccolo frutto azzurrognolo nella sua tasca palpitare, quasi fosse un
essere vivo e pulsante.
I suoi occhi neri questa volta si
sbarrarono, lasciando che le sue emozioni traboccassero.
Cosa stava succedendo?
Irritata dall’incertezza dell’altro, Clarina mosse un altro passo in avanti.
“Rendimela Sakazuki,
adesso.”
Perso nel proprio stato di innaturale
confusione, Akainu digrignò i denti, portandosi la
mano alla tasca dove teneva custodito l’oggetto, osservando con rabbia la
bionda mentre il suo sguardo continuava a puntellarlo con tanti piccoli aghi.
Quella sensazione lo infastidiva.
Non era da lui lasciarsi intimidire,
specie da una donna che tra l’altro conosceva, o meglio credeva di conoscere,
come le proprie tasche.
Il potere che stava emanando era
certamente una conseguenza della sua
Essenza, ne era sicuro, aveva avuto modo di fare delle ricerche su quella razza
cui aveva avuto il compito di cancellare l’esistenza.
Ma perché mostrare una simile capacità
solo in quel momento?
Aveva aspettato il momento opportuno fino
a quel momento? Così tanto?
Si era finta indifesa solo per poi
pugnalarlo al momento propizio?
In quel momento si accorse del suo unico,
grande sbaglio: aveva imprigionato una Paradisea, costretta a stare al suo
fianco nolente per mesi, senza nemmeno premurarsi di indagare sulla natura
della sua Essenza.
Capire una cosa simile l’avrebbe messo in
una posizione di enorme vantaggio, ma ormai era troppo tardi per guardarsi
indietro.
La rabbia si sostituì alla confusione e
l’adrenalina gli pompò al cervello, sotto la spinta dei battiti non più tanto
frenetici e irregolari del suo cuore.
Gli importava davvero tanto di quel
mandarino dal colore strano?
Bene.
La sua mano si strinse minacciosa attorno
alla Nota, ancora fasciata dal tessuto rosso della sua divisa.
“Fai un altro passo e la stritolo.”
Fu con soddisfazione e senso di vittoria
che vide gli occhi della paradisea velarsi di paura, anche se per un solo
istante.
“Non oserai.” Affermò Clarina,
scrutandolo sempre con quella sua espressione inflessibile degna di una regina.
“Non oseresti mai distruggere l’unica cosa
che mi tiene ancora legata a te.” Era una certezza quella che stavano
pronunciando le labbra rosate di Clarina, una verità
indiscutibile.
Di colpo ricadde nello stato di caos
mentale inziale: come faceva a capirlo in così poco
tempo? Neanche l’avesse avuto scritto in faccia che stava bluffando!
Un momento…
-Bluffare..? - pensò vedendo finalmente i
contorni del puzzle farsi più nitidi.
“Non ci credo…”
sussurrò osservando rapito come non mai le fattezze e l’espressione di quella paradisea
che aveva rapito il suo cuore e la sua mente quasi fino all’ossessione.
Occhi e capelli chiari.
Lineamenti degni di una sovrana inflessibile, tanto crudele in quel momento, tanto pura nell’anima.
Una lingua tanto sincera da ferirlo.
Una fiamma bianca di alto grado.
Per i Cinque Astri…
Come aveva fatto a non capirlo subito?
“Tu sei..”
Atto 17, scena 2
Betty non sapeva che pesci pigliare.
“Betty...”
Era passata un’ora da quando Momo, più
sconvolta e rossa in viso che mai, era piombata nell’infermeria nel pieno della
mattinata, gettandosi a capofitto tra le sue braccia, affondando il viso nel
suo petto come alla ricerca di sicurezza.
Ora, non che le dispiacesse la piccolina
si fosse finalmente decisa ad alzarsi presto e cominciare a prendere i ritmi
del resto della nave, ma di certo non si aspettava una simile reazione a
quell’ora!
L’intero reparto infermieristico si
voltato verso di lei, osservando ad occhi spalancati la piccolina rifugiarsi
addosso a lei.
Il capo reparto, alzando gli occhi, invisibili
dietro le lenti scure, al cielo, si diede coraggio, accompagnando al meglio
delle sue possibilità la paradisea verso uno dei letti della stanza.
Era una fortuna che a quell’ora non ci
fossero ancora feriti.
E ci mancherebbe altro! – pensò la bruna
stringendo inconsciamente le labbra al solo pensiero: erano sì e no le sei del
mattino!
“Coraggio tesoro, sediamoci un po’,ok?”
sussurrò dolcemente, venendo prontamente affiancata da Penelope, accorsa
immediatamente non appena riconosciuta la figura della loro adorabile sorellina
minore.
Farla sedere fu un piccolo grande passo
che permise a tutte le infermiere di vedere il visino della ragazza.
Rimasero ammutolite.
Se prima si erano solamente fermate,
incuriosite da quella piccola ed interessante scenetta, vedere l’espressione di
Momo le lasciò esterrefatte.
Chissà.
Forse era per via degli occhi lucidi, o
per le guance imporporate.
O forse, cosa molto più probabile, era il
tipo di espressione che aveva assunto, definibile solo in un modo: sognante.
“B-betty…” balbettò di nuovo la paradisea con voce piccola piccola.
“M-mi sento un
po’ male..” concluse tenendosi stretta la camicia all’altezza del petto.
Il silenzio piombato nell’infermeria non
sembrava volersi dissipare, fatta eccezione per Betty, unica ad essersi
ripresa, stendendo le proprie labbra rosse nel solito sorriso grintoso e
seducente che la contraddistingueva.
La donna, sedendosi con tranquillità
accanto alla ragazza, le mise una mano sulla fronte, trovandola a dir poco bollente.
Le scappò quasi una risatina, intuendo la
situazione, ma si trattenne non volendo rovinare l’atmosfera che l’avrebbe
portata a scoprire com’era andata a finire...
“Uhm…” mugugnò
con falso fare pensoso, fingendo di torturarsi la punta del mento con le dita.
“Tachicardia, leggero alzamento
della temperatura corporea…” cominciò ad elencare nel
modo più professionale possibile, nonostante stesse soffrendo per non scoppiare a ridere.
Momo, tuttavia, non parve curarsi delle
sue parole, rimanendo ferma e rannicchiata sull’orlo della branda come
impaurita, e non si accorse nemmeno delle dita di Betty che avevano scostato i
capelli e il colletto della sua camicia, rivelando qualcosa di talmente
interessante da far avvicinare di botto e trattenere il fiato alle altre
infermiere.
“E un piccolo ematoma all’altezza
collo-spalla.” Terminò Betty con un sorriso da volpe, accavallando le gambe con
fare orgoglioso, osservando le sue colleghe ormai in procinto di sbavare per
l’emozione.
Fu la volta di Penelope intervenire,
sedendosi leggera e radiosa come un angelo accanto alla paradisea, che sembrava
non essere particolarmente interessata a quello che le accadeva attorno, quasi
non se ne accorgesse.
“È successo qualcosa, per caso?” domandò
innocentemente la bionda, toccando con una carezza lieve la spalla della
ragazza.
Questa, risvegliatasi un poco dal proprio
stato di coma vegetativo, si lasciò sfuggire un piccolo cenno affermativo.
Atto 17, scena 3
Essere svegliati di prima mattina da una
sinfonia di strilli femminili non era certamente la routine dei pirati di Barbabianca.
E neanche per Ace, a giudicare dal
bernoccolo che si era procurato, scivolando dalla posizione nella quale si era
appisolato sul ponte della nave.
“Urgh…” si
lamentò massaggiandosi la parte offesa, osservato dall’alto da Satch, smagliante e sorridente nonostante le vistosissime
occhiaie che il brusco risveglio gli aveva procurato.
“Buongiorno anche a te, Ace!”
Il più che vistoso bernoccolo plurimo che
gli sorse come una colonna di pietre dal ciuffo biondo, miracolosamente intatto
per grazia della brillantina a tenuta extra forte, gli procurò molto più dolore
di quanto non dette a vedere, sforzandosi di mantenere un’espressione dignitosa,
nonostante dalle labbra non poté fare a meno di bofonchiare:
“Eh
già.. buongiorno…”
Ace non amava svegliarsi di soprassalto.
Al contrario, lo detestava e, benché
volesse molto bene ai propri fratelli, finiva sempre col scaricare il suo
momentaneo ed incontenibile malumore sul primo che gli capitava a tiro.
In questo caso Satch.
“Scusa Satch.”
Chiedere perdono era comunque una cosa che
non si sarebbe mai dimenticato di fare, per fortuna.
“Niente di che…”
“Ma si può sapere che cos’è stato?! Un
mostro marino? Una flotta di cannoni?”
Il biondo ridacchiò in uno sbuffo.
“Peggio fratellino…
”
Pugno di fuoco inarcò un sopracciglio per
poi accennare ad un sorriso incredulo, tirandosi un po’ indietro la falda del
cappello.
“Non dirmelo.”
Il comandante della quarta flotta rispose
alzando la testa verso il cielo, ancora ingrigito dagli ultimi fasci della notte.
Socchiuse le palpebre, assaporando un
istante di quella beatitudine che solo i primi momenti dell’alba riusciva a
dare, soffiando sul mare un’aria fresca e carezzevole tanto sottile da sembrare
un velo di seta sulla pelle.
Un sospiro gli sfuggì dalle labbra, mentre
tornava velocemente al discorso precedente, notando i bordi frastagliati delle
nuvole in controluce assumere la forma di una cascata di capelli biondi e mossi.
Ace seguì quel rapido cambio di
espressioni con interessamento e per un attimo gli sembrò quasi di intuire
quali pensieri stessero affollando la mente dell’amico.
Anche lui, d’altra parte, la notte prima,
in completa assenza della graziosa e quasi innaturale figura calda ed
ondeggiante che di solito saltellava sul ponte, si era perso a guardare con
fare sognante l’albero della nave in attesa che il rumore delle vele, gonfiate
ritmicamente dall’azione del vento, si tramutasse in quello delle fluttuanti
fiamme della paradisea gialla.
Inutile dire che si era addormentato a
causa di un attacco narcolettico.
Satch tornò a guardarlo con il suo solito
sorriso da malandrino dl cuore tenero per poi proferire in una sola parola
quella che in pochi minuti sarebbe diventata la loro meta.
“L’infermeria.”
Atto
17, scena 4
“Vogliamo i dettagli!!!” urlarono
all’unisono le infermiere con occhi scintillanti, accalcandosi il più possibile
davanti a Momo che, spaventata a morte da quella reazione, aveva arrancato sulle
coperte del letto dell’infermeria dove si era seduta, sperando, inutilmente, di
potersi mettere al riparo dagli sguardi ossessivi delle sue compagne.
Facevano paura, oh, altroché.
Sembravano quasi un branco di Re dei Mari
affamati che si leccano i baffi di fronte ad una povera nave indifesa.
Uhm… e lei da dove aveva tirato fuori quel
paragone?
Un brivido le percorse la schiena,
intuendo di aver in passato, effettivamente assistito ad una scena simile.
“Su su!!!” La incitò una voce squillante
da dietro, facendola sobbalzare.
“Avanti avanti!” un’altra ragazza le
piombò di lato e lei finì con l’annaspare sulla testata della branda per lo
spavento.
Si guardò intorno e una lacrimuccia le apparve
nell’angolo dell’occhio: era completamente circondata.
“Biri! Ribi!” intervenne una terza voce colma di rimprovero.
Evidentemente quelle due infermiere che
l’avevano assalita si chiamavano in quel modo.
Buffo: stava sulla Moby da almeno un mese
e ancora non aveva imparato tutti i nomi delle infermiere.
Non che ne avesse avuto il tempo, in ogni
caso: tra Betty e Marco che le avevano insegnato rispettivamente l’anatomia
umana e la lingua a regola d’arte, in tempi ristrettissimi per giunta, lasciare
un angolino per altri nomi sarebbe stato a dir poco arduo.
Seppe di essere stata in qualche modo
salvata, quando i gridolini eccitati delle donne attorno a lei si tramutarono i
sbuffi e lamentele.
“Uuuh..! Lova sei la solita guastafeste!” esclamò una delle due
imbronciandosi come una bambina. Allegra riconobbe in lei quella che per prima
l’aveva bloccata durante il suo tentativo di fuga. Era una ragazza pressoché
della sua stessa altezza, capelli corti a caschetto castani chiari e un paio di
occhi azzurri come il ghiaccio grandi e palpitanti come quelli di una bambina.
“Oooh Ribi! Falla finita!”
Riconobbe nell’ultima voce quella di
Betty.
“Uffa!”
“Ma non facevamo nulla di male!”
A parlare questa volta era stata la
seconda delle infermiere.
“Biri!”
“Nuu!”
Alla paradisea bastò un’occhiata ad
entrambe le sue “assalitrici”, abbracciate l’una con l’altra, guancia contro
guancia, per poter dire con assoluta certezza che erano gemelle.
Avevano gli stessi occhi, la stessa
altezza e corporatura, l’unica differenza stava nei capelli differenti non solo
per lunghezza ma anche per acconciatura: Biri li
aveva lunghi e tenuti ordinati in una coda bassa, a differenza di Ribi, decisamente più sbarazzina della sorella.
Una cosa che però si notava subito era che
entrambe possedevano una nota di infantilità che le distinguevano dalle altre.
Chissà come mai non le aveva notate prima?
“Sempre dietro i pettegolezzi piccanti
voi, due.”
“Forza, chiedete scusa a Momo-chan.”
Fu con suo immenso sollievo che la folla radunatau attorno a lei si aprì, lasciando spazio così alle
due gemelle di scusarsi in grande stile, chinandosi insieme in segno di scuse.
“Scusa Momo-chan…”
dissero le due assumendo un’espressione da cucciole bastonate.
Momo si guardò attorno imbarazzata, non
sapendo come reagire, certo l’avevano fatta spaventare di non poco con quelle
loro espressioni affamate di
informazioni,…uhm… com’era quella parola?
La usava spesso Ace per riferirsi alle
bistecche di carne… era… uuh…
Ah, già!
Succulente.
….
Com’era che pensando ad Ace le era venuta
una fitta allo stomaco?
Si ricordò con una certa vergogna di
essersi dimenticata di Ace, che sicuramente si doveva essere appostato come al
solito sul ponte tutta la notte ad aspettarla.
“Momo? Che cos’hai? Momo?”
“Ah..!” sussultò accorgendosi di aver
abbassato lo sguardo sul letto, coprendosi il viso con una mano.
Accidenti a lei. Si era dimenticata di
rispondere a Ribi e Biri.
“N-non è
niente.” optò come risposta, sforzando un sorriso sulle labbra.
Ancora non capiva quello che era successo
in biblioteca e si sentiva troppo confusa per cercare di lasciar perdere.
Le guance le andarono nuovamente in fiamme
al solo sfiorare il ricordo di quanto accaduto istanti prima e, di nuovo, ebbe
la penosa sensazione di essere sotto il centro dell’attenzione.
“La smettete di guardarmi per favore?”
pigolò con una certa nota di impazienza nelle proprie parole che lasciò senza
parole le presenti.
Si buttò con la testa sul cuscino sotto di
lei, affondandovi talmente tanto il viso da far scomparire il più piccolo
spiraglio di luce dai suoi occhi.
E sì che era una creatura in grado d
vedere a giorno nell’oscurità più completa…
La paradisea riconobbe subito il tocco
delicato e leggero di Penelope sulla sua testa e, come da copione, i suoi
muscoli si rilassarono di riflesso.
C’erano delle volte in cui si chiedeva
come mai tra tutte era riuscita ad instaurare un rapporto di fiducia solo con
la bionda…, ma, a pensarci, il momento per tornare a
simili ragionamenti non era dei migliori.
Il brusio delle macchine presenti nella
stanza le diede un po’ di conforto, nonostante fosse ben conscia che, oltre la
stoffa inodore del guanciale di cui aveva preso possesso, un intera mandria di
infermiere la stavano guardando in attesa.
“Dov’è Satch?”
chiese quasi in tono di preghiera.
Non era propriamente giusto chiedere di un
amico per deviare un discorso, tuttavia, se ci si pensava attentamente, Satch si incontrava con Ace quasi ogni mattina presto sul
ponte, ergo… Ace al momento era quasi sicuramente
insieme a Satch, ri-ergo…
trovare Satch significava trovare Ace, doppio-ri-ergo… trovando il moro si sarebbe potuta scusare.
…
…
Già ma di cosa?
Un formicolio sul collo le fece stringere
di più il cuscino.
Ah… bene… perfetto:
sensi di colpa amplificati per due.
Scattò in piedi come una molla,
dirigendosi all’uscita come una scheggia.
Dove trovare Ace.
Atto
17, scena 5
Quando Arch
aveva visto il rosso distrarsi dal loro scontro non aveva avuto ripensamenti
scagliandosi come una scheggia contro il petto nudo dell’altro, puntando uno dei
suoi coltelli in avanti come il pungiglione di un’ape.
Ma poi, con sua immensa sorpresa e
delusione, quegli occhi da pazzoide si erano puntati di nuovo su di lui,
accompagnati da un sorriso bianco e beffardo.
“Appeal.”
Sentirsi strattonare dal nulla i coltelli
non fu una bella sensazione, tantomeno quando dall’orecchio gli gocciolò del
sangue, rendendogli conto quale fosse stato il destino dell’orecchino.
Lo vide luccicare a pochi centimetri dagli
stivali del rosso.
Fu
solo per mantenere le apparenze che evitò di strabuzzare gli occhi, dando pieno
sfoggio a quel tagliagole e i suoi scagnozzi del proprio sbigottimento.
Come diavolo aveva fatto?
“Sembra che tu abbia finito le munizioni,
fatina.”
Approfittò del nomignolo per guardarlo con
odio: detestava quel soprannome. Da quel che aveva capito, era un modo per
alludere la sua appena accennata mascolinità.
Indietreggiò d’istinto non appena l’altro
accennò ad un passo.
Lo strato di sudore sulle sue tempie si
fece più fitto, tramutandosi presto in piccole, bastarde gocce.
Era finito alle spalle al muro e, per
quanto si stesse scervellando, non riusciva a capire come avesse fatto a
disarmarlo con così poca difficoltà.
Che Viola ci avesse azzeccato, pensando di
trovare in quell’umano gli effetti collaterali di una Nota marcia?
Un altro passo in avanti. Un altro
indietro.
Il suono della voce ringhiosa e strozzata
di Viola gli pungolò le orecchie, ma era troppo occupato a pensare a se stesso
per rispondere all’istinto di voltarsi ed assicurarsi che fosse ancora viva.
La risata che poi esplose dalla gola tozza
del pirata, lanciata al cielo con la testa all’indietro, ebbe il potere di
fargli rizzare i capelli fino alle punte, nonostante si trattenne con tutto se
stesso dal darlo a vedere.
“Davvero angioletto, mi piaci.”
Per un attimo l’aria della piazza parve
bloccarsi. Il brusio degli sgherri del pirata si erano fermati di colpo, così
come il suono agghiacciante delle lame meccaniche del biondo mascherato che, il
Grande Spirito non volesse, potevano benissimo aver già fatto a fettine Viola.
Lo capì dall’atmosfera che era scesa
intorno a loro quanto le parole di quello schifoso dovessero risultare nuove a
chi lo conosceva bene, ma sebbene l’istinto di guardarsi intorno fosse grande,
non poté far altro che osservare pietrificato il suo avversario rilassarsi
visibilmente, sorridendo con quel suo solito modo da iena.
Le spalle di quell’uomo, ai suoi occhi ben
visibili nonostante la spessa pelliccia che le ricopriva, si sciolsero a vista
d’occhio ed il suo viso, prima aggrottato, benché sempre attraversato da quella
ferita larga e tagliente quale era il suo sorriso, aveva assunto dei lineamenti
meno marcati e contratti.
Gli venne la nausea dalla rabbia, capendo.
Per lui il loro scontro aveva assunto il
significato di un insulso inseguimento tra gatto e topo, arrivato alla sua
conclusione con il roditore bloccato in un angolino e, Arch
sapeva, che, al momento, il topo era lui.
Senza via di fuga né speranza alcuna, se
non pregare in un po’ di pietà da parte del felino.
Eustass Kidd continuò a
guardarlo, quasi gustandosi lo sforzo che stava facendo per non dare a vedere
il proprio nervosismo.
Poi, inaspettatamente, tornò a parlare.
“Sai, credo di poter fare a meno di
ucciderti per oggi.”
A quelle parole Arch
sentì i muscoli delle gambe afflosciarsi di colpo e poco ci volle che non
cadesse a terra come un mucchio si stracci.
Ormai il suo cervello lottava cercando di
rimanere lucido.
Lasciarlo in vita?
Se era un perfido modo di giocare con lui
prima di farlo fuori, non era affatto divertente!
Osò sfidarlo un’ultima volta con lo
sguardo, ma quello, invece di cogliere a volo la provocazione, restò sereno e
pacato dov’era, sempre con quel maledetto sorriso candido.
“Kidd.”
La voce cavernosa del pazzoide con le lame
vibrò dietro di lui pacata e calma, alle sue orecchie come la promessa di una
morte indolore.
“Se lo facessi non mi gusterei affatto il momento…” disse a mo’ di spiegazione, dirigendo da una
parte la testa, guardando in alto.
Quella fu l’unica volta in cui il biondo
si permise di voltare la testa nella direzione indicata dal pirata.
La vista di quell’oggetto, che da
settimane regnava sui suoi incubi peggiori, lo fece cadere in un breve limbo di
sconforto, sostituito ben presto da un inferno di rabbia cieca.
Sopra le case dell’isola, troneggiando sui
soffi di vento marino con eleganza quasi derisoria, stava il vessillo bianco e
blu come la pelle dei morti.
Il simbolo del Mondo.
Atto
17, scena 6
“Dannata scimmia…”
imprecò a denti stretti Ace, fulminando con gli occhi la colpevole del disastro
che teneva tra le mani.
Non aveva mai pensato che trattenersi dal
dare fuoco ad un’animale, fastidioso ed attaccabrighe, quale era Monster, fosse così faticoso
e doloroso. I motivi per i quali
stava tenendo duro erano esattamente due: Shanks e
Momo.
La ragione per la quale entrambi amassero
quella scimmia pulciosa rimaneva oscura a distanza di settimane persino a lui
che, comunque, aveva avuto modo di stringere amicizia con la ciurma del Rosso.
Ma perché poi quella scimmia doveva
prendersela sempre con lui? O meglio.. perché doveva per forza attentare al suo
cappello??!
“Kuso.”
Tra le sue mani il suo adorato copricapo
arancione aveva assunto l’apparenza sformata e piatta di un disco.
“Non te la prendere. Vedrai che ci farai l’abitudine.”
Disse Satch finendo di aggiustarsi a tempo record il
ciuffo, armato di pettine e brillantina, tenuti in tasca in caso di necessità.
Già – pensò Pugno di fuoco, guardando
sconsolato il suo amato cappello per poi passare all’amico, che intanto finiva
di aggiustare i danni provocati da Monster sulla
propria acconciatura – un cappello però non si ripara con la brillantina.
Monster gli aveva assaliti senza motivo.
Ok, non che Monster
attaccasse quelli della ciurma solo quando veniva offeso o provocato.
Sarebbe stato un miracolo poter dire il contrario…
Ora, non che volesse di fare di un caso la
regola, ma… perché subire lo stesso trattamento di Satch l’aveva fatto sentire come … messo da parte?
Sob. – pensò – La strada per l’infermeria si
sta facendo più lunga di quel che pensavo.
Davanti a loro, infatti, l’odiato scimpanzé
del rosso ballonzolava fiero delle proprie gesta, battendo mani e piedi in
successione con un ghigno animalesco ad ornargli il muso, neanche avesse steso
un ammiraglio della marina tutto da solo.
Ace si limitò a scoccargli un’occhiata minacciosa,
mostrando all’animale come il polpastrello del suo dito indice prendesse
improvvisamente fuoco sotto il suo volere, sperando, per il bene dei suoi
rapporti con il Rosso e la Paradisea, che il primate cogliesse al volo l’avvertimento.
Monster di tutta risposta sbiancò, ma, invece di
correre via con la coda pensile tra le chiappe, come aveva immaginato, iniziò ad emettere versi striduli e
grotteschi, e correre, inciampare, saltare,
ruzzolare davanti a loro come un indemoniato.
“Ma che…?”
sussurrò incredulo Satch, prima di notare, pochi
metri più avanti lungo il corridoio qualcosa di fin troppo familiare.
“Oh-o.” disse riconoscendo
la natura di quell’alone giallo e zampillante che si stava intensificando
sempre di più dietro l’angolo del loro percorso.
Guai.
“Ace. Spegni quel dito.” Asserì,
sentendosi rigido come una statua.
Il moro seguì il suggerimento d’istinto,
nonostante la voglia di provare il suo Higan sul sedere peloso di quella scimmia sfiorasse i limiti
dell’ossessione, tutto prima di vedersi apparire di fronte la figura
fiammeggiante di Momo, spuntata dal fondo del corridoio con la grazia di un angelo
ed arrivata a pochi metri da loro con un balzo quasi istantaneo.
“Scricciolo!” esclamò il biondo battendo
Ace sul tempo, guadagnandosi una breve ma intensa occhiataccia.
Quella, di certo non meno entusiasta di
rivedere il comandante della quarta flotta, aprì il viso in un sorriso radioso,
facendo di conseguenza schiarire considerevolmente le proprie fiamme.
“Satch!!” saltellò
sul posto la ragazza, trattenendosi dal balzargli addosso per abbracciarlo.
Lei e Satch
dovevano rimanere distanti per almeno un mese, come d’accordo e, anche se le sue
gambe protestavano, fremendo a quella vera e propria ingiustizia nei confronti
suoi e dell’amico, sapeva che la scelta migliore sarebbe stata attenersi ai
patti fino all’ultimo per evitare ulteriori complicazioni.
Arrossì, abbassando di poco lo sguardo,
facendo finta di guardare Monster aggrappatosi a una
sua gamba, invocando rumorosamente il suo aiuto.
“Ciao
Ace..”
Sentì
il moro scattare quasi immediatamente, tornando rumorosamente sui propri passi,
senza neanche degnarla di una risposta.
Cosa-?
Quando rialzò la testa l’unica faccia che
incontrò fu quella altrettanto incredula del comandante in quarta, fissa su di
lei con la mascella cadente.
“Sc-cricciolo?”
balbettò il biondo alzando a stento una mano per indicare, in modo molto
approssimato, il punto che aveva, in neanche mezzo secondo, fatto il danno più
grande mai provocato sulla Moby.
Allegra impallidì, capendo in pochissimo
tempo dove il dito indice dell’amico stesse puntando: il suo collo, esattamente
dove Betty aveva individuato una specie di ematoma.
Ematoma che lei, senza pensarci, non aveva
nemmeno coperto, lasciando aperti i primi bottoni del colletto della sua camicetta
a righe azzurre.
“Oh
no..” sospirò portandosi le mani al viso, comprendendo quella che da lì a
poco si sarebbe scatenato sulla nave.
“Ace!!”
Le bastò un salto per bloccare l’avanzata
rabbiosa del moro, curandosi ben poco di aver fatto volare via Monster a causa del suo movimento improvviso, ma, se avesse
potuto tornare indietro nel tempo, avrebbe volentieri fatto a meno di
affrontare direttamente il volto nero ed infuriato del comandante della seconda
flotta.
Deglutì. La saliva le si era prosciugata
in un istante, lasciandole la gola secca e ruvida.
Gli occhi neri di Ace sembravano nemmeno
vederla, quasi la trapassassero da parte a parte, muscolo per muscolo.
Si morse le labbra, trattenendosi dal
fuggire via: quello non era il solito Ace.
In quel volto contratto ed assente non c’era
traccia del ragazzo gioviale, mangione e a volte distratto che si addormentava
in piedi una volta no e cinque sì.
Si ricordò di un’espressione simile
incontrata in passato.
Era uguale in tutto e per tutto a quella
di Viola quando aveva scoperto che Archetto era un maschio.
Constatarlo non la rassicurò neanche un po’.
“Ace.
Calmati.”tentò mettendo le mani avanti per fermarlo, ottenendo da parte
dell’altro uno sguardo che sembrava tutto fuorché calmo.
“Non
è successo niente ok? È solo un livido. Nulla di più-“
Si fermò nel vedere il volto del moro
allungarsi e sciogliersi, stavolta posseduto da qualcosa che, sul momento, non
seppe se classificare migliore o peggiore della rabbia.
Assoluta incredulità.
“Livido?” ripeté con voce totalmente
piatta il moro, sondando la sua faccia con attenzione, come per cogliere il
minimo segno di incertezza o tentennamento che smascherassero in pieno la sua
bugia.
Non che Allegra avesse mentito. Credeva
fermamente in quello che aveva detto.
D’altro canto sul suo vocabolario decisamente
ristretto non esisteva la parola “succhiotto” e Betty non si era nemmeno presa
la briga di spiegarglielo.
Per questo, non consapevole della bugia,
la paradisea annuì decisa, smontando così sul nascere l’aura furiosa di Pugno
di Fuoco.
“Oh.”
“Scusami.”
Concluse la ragazza serrando gli occhi ed arrossendo sulle guance rosate “Mi sono addormentata in biblioteca e tu
sarai certamente rimasto sul ponte tutta la notte ad aspettarmi come al solito…”
Fu sollevata di risentire la risata
nervosa e sincera del vecchio Ace.
“Già, come un idiota.” Sorrise l’altro, giocherellando
coi resti del suo povero cappello per nascondere il proprio imbarazzo.
Maledizione, aveva quasi dato in
escandescenze davanti a Momo.
“Scusa…”
“Daaai! Non
preoccuparti. Sono stato io a saltare a conclusioni affrettate!” sdrammatizzò
facendo vorticare casualmente il copricapo sulla punta di un dito, accentuando
le proprie lentiggini con un sorrisone così luminoso da fare invidia al sole.
Sorrise di rimando, pensando a quanto la sua
convinzione che lo spirito di Ace urlasse calore da tutti pori si rafforzasse
giorno dopo giorno.
“Però..”
Il sorriso le si congelò.
L’atteggiamento del comandante assunse una
nota maliziosa che non la fece sentire affatto tranquilla.
“Se proprio ci tieni a scusarti…”
Un braccio più muscoloso e di poco più
scuro le si avvinghiò attorno alle spalle.
Le sue guance diventarono pallide.
“… avrei una proposta.”
La presa gentile ma decisa si rafforzò
appena, proprio quando gli occhi neri di Ace erano talmente vicini da sembrare
pozzi neri.
Realizzò di essere stata baciata da Ace
solo quando questo era già scattato nella direzione opposta, saltando ed
esultando con le braccia al cielo, lasciando come unica traccia della sua
presenza accanto a lei il cappello a disco.
Lo raccolse ancora intontita, cominciando
poco a poco a stringerlo ai bordi e serrando i denti finché il calore del suo
fuoco, ora bianco, non provocò un *POP* improvviso, facendolo tornare al suo
aspetto originale.
“ACEEE!!!”
strillò, gettandosi al suo inseguimento con il viso rosso come un pomodoro.
Atto 17, scena 7
L’urlo straziato di una paradisea non era
niente paragonato a quello di un Re dei Mari affamato, ma per Arch le differenze erano sempre state minime quando si trattava
di Viola.
Quando aveva finalmente deciso di voltarsi
in direzione della cugina, convincendosi che rimanere a fissare con odio quella
bandiera non avrebbe portato a nulla se non ad altri guai, si maledì per non
aver preparato a sufficienza il proprio stomaco.
Completamente aperta su braccia e gambe. Era
un miracolo solo rendersi conto che i tagli non erano andati a recidere vene o
punti vitali.
Quel maledetto macellaio dal volto coperto
era riuscita a colpirla.
Non in profondità, ma a colpirla sì.
A pensarci bene però, mentre se la caricava
sulla schiena, subendo impassibile le sue grida nelle orecchie, Viola non era
mai stata né veloce né brava a scansare come lui ed Allegra.
Il suo unico talento, a parte l’indole di
comando, se si poteva definire tale, era la forza fisica, superiore di almeno
dieci volte quella di un normale maschio umano.
Quel pregio però le era completamente
inutile se l’avversario era in grado di cogliere i suoi difetti e neutralizzare
la sua forza.
Così era stato.
Il macellaio di nome Killer doveva essere un
tipo non solo agile, ma anche sveglio e prudente.
Soprattutto prudente.
Passare accanto a Morgan fu la parte più
difficile: il peso di Viola sulla schiena gli gravava come non mai, nemmeno
fosse stato un masso da 1000 tonnellate, e le gambe gli tremavano a un ritmo
preoccupante che seguiva l’accentuarsi della sensazione del sangue di Viola
scivolargli lungo la schiena.
Fu un miracolo se riuscì a chinarsi in
avanti, accostando un orecchio al muso squamoso di Morgan, cogliendone con
sollievo il respiro che odorava di legno grezzo.
“Guarda guarda,… allora non sei solo parole,
fatina.”
Evitò di guardare il pirata di nome Kidd, mentre, rimessosi in piedi, tornava dai propri
pugnali, ancora abbandonati a terra assieme all’orecchino.
“E tu non sei così pazzo come credevo all’inizio.”
Affermò, calciando in aria il primo dei suoi coltelli per poi afferrarlo con la
bocca, stringendone il manico tra i denti.
Quell’affermazione lasciò il rosso confuso,
tanto che, un po’ per curiosità e un po’ per sadismo, lo incalzò con una altra
domanda.
“Ovvero?”
Recuperato il secondo pugnale allo stesso
modo del primo, si concesse di scoccargli uno sguardo pieno di significato.
Eustass Kidd sorrideva
come sempre.
Riuscì a liberarsi le labbra dai propri
pugnali riuscendo, con gesti rapidi e precisi, a levarseli con una mano ed
infilarli nelle fondine sotto il gilet, tornando in poco tempo a reggere la
cugina.
“Stai interrompendo il massacro mio e di
Viola per scappare da quello.” Affermò,
riferendosi alla bandiera in quel momento alle sue spalle.
“Ammetto di averti scambiato per un
idiota.”
“Quindi hai già avuto a che fare con la
Marina.”
Le parole di Killer ebbero il potere di
bloccarlo mentre tornava da Morgan.
“Una volta è stata abbastanza.” Rispose lugubre,
prima di tornare dal bambino, poco a poco tramutatosi alla propria forma
originale.
Kidd scambiò un’occhiata d’intesa con il
proprio vice, non riuscendo a capire altro da quella risposta più arida di un
deserto, almeno per i loro gusti.
Lo osservarono chinarsi sul bambino, certamente
detentore di un Frutto del Diavolo, cominciando a chiamarlo e stuzzicarlo con
un ginocchio per riportarlo alla realtà.
“Morgan. Svegliati, dobbiamo andarcene.” Disse
con voce ferma, nonostante fosse palese quanto si sentisse stanco.
Il bambino ci mise poco a cercare di
raddrizzarsi sulle gambe tremolanti, ma, tempo di focalizzare le condizioni
della persona sulle spalle del biondo, il terrore gli riempì nuovamente gli
occhi, ributtandolo a terra per lo sconforto.
“S-s-s-s-signorina…!” sussurrò
a voce tremolante con le lacrime agli occhi. “Signor Arch!
V-v-..!”
“Sbrighiamoci a tornare alla nave.” Sentenziò
il ragazzo senza troppi preamboli, rialzandosi di nuovo e cominciando a
camminare in direzione del molo, dove-...
Morgan si stupì di vedere il signor Arch bloccarsi sui propri passi, ma il suo pensiero fu
presto rivolto ad altro quando la risata grottesca di quel demone rosso esplose
dietro di loro, facendolo sobbalzare ed aggrappare ai pantaloni del biondo.
D’altro canto Arch
sembrò non aver sentito la voce del pirata, troppo occupato a darsi dello
stupido per aver realizzato solo in un secondo momento un dettaglio fondamentale.
“Che c’è fatina?” fu la domanda ironica di
Kidd, accentuata dai versi divertiti della sa ciurma,
tutta presa dal gustarsi lo spettacolo.
“Non dirmi che hai ormeggiato la tua barca
proprio al molo.” Terminò il capitano, sentendosi il petto gonfiarsi di
trionfo, vedendo le spalle di quel biondino effeminato tremare sotto i peso
della sconfitta.
Arch non rispose.
Si limitò a guardare l’ostacolo che
separava lui, Morgan e Viola da una rapida fuga.
La stessa odiata bandiera, situata esattamente
dove stava il molo principale.
Lo stesso posto dove aveva ormeggiato la Clara.
Fine
prima parte Atto Diciassettesimo
EEEeeeeee…?
*cri-criii*
Spero
vivamente che la desolazione non sia una conseguenza permanente del mio periodo
difficile.
Cmq
bentornate donne e… uomini?
Uhm… idea!
Visto
che sono tornata voglio fare una domanda personale a tutti i miei lettori e
recensori:
1) Siete
maschio o femmina?
Lo
ammetto una cavolata più grande di questa non c’era, ma se non le faccio non
sono io XD
Domande
specifiche per ora non le ho. Solo una scheda personaggio qui sotto ed un bel
disegno di Momo da parte di una lettrice! ^^ (che avresti dovuto postare nello
scorso capitolo Nd Momo)
Chiedo scuuuusaaaaa!!!
Alla
prossima kisskiss
PS l’atto
era troppo lungo e quindi l’ho diviso per il bene di chi vuole leggere al più
presto la continuazione! Ciaaoooo!!!
File
#001: Amaterasu Ryogan
Amaterasu Ryogan, padrone
indiscusso dell’isola del nuovo mondo, Inari Fountain,
detto Signore dei Demoni. La sua taglia è una delle più alte del Nuovo Mondo,
ma nonostante questo la Marina non mobilita più le proprie forze per catturarlo
da alcuni anni, nonostante sia risaputo che ha residenza fissa sull’isola da
lui presieduta.
Amaterasu Ryogan, personaggio di
dubbia sessualità, è temuto dalla maggior parte dei pirati che abbiano avuto la
sfortuna di incontrarlo o sentir parlare di lui, fatta eccezione per i 4
imperatori, a causa della sua pessima abitudine di “collezionare ed elaborare”
uomini e creature delle specie più rare.
È
conosciuto come alleato ufficiale di Barbabianca, ma
permette a chiunque di mettere piede sulla propria isola, a patto che sia in
grado di uscirne da solo.
Lo so lo so, i capelli dovrebbero essere neri….
E DA PARTE
DI NOEMIIIII!!!!
MOMO!
^^
È CARINISSIMA! L'HO MESSA COSì SOLO PERCHè NON POTEVO METTERLA PER INTERO NELLA PAGINA ALTRIMENTI NON SISAREBBE CARICATA MAI PIù!
X3