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Autore: Phantom_Miria    03/08/2011    1 recensioni
Alcune persone sono come i caleidoscopi. Sei convinto di sapere tutto di loro, di averli inquadrati, in ogni loro singola sfaccettatura, quando basta una piccola svolta - una frase, un'azione, uno sguardo - e ti rendi dolorosamente conto del fatto che non hai mai compreso nulla di più dell'apparenza.
“‘L’interpretazione dei sogni’ l’ho trovato un libro interessante, ma di dubbio gusto. Dammi retta, Freud era un pro nell’arte delle seghe mentali. Se hai un sogno che ti ha colpito ma non riesci a interpretare, rivolgiti a uno psicologo. O, scelta che ti consiglio, al sottoscritto tuo fedele amico geniale, che possiede una cultura spropositata in ogni campo del sapere e dispone del miglior libro del secolo dopo ‘Il libro delle risposte’: il ‘Grande Libro dei Sogni, dalla A di Acqua alla Z di Zattera, interpretazione dei simboli del mondo onirico’”.
“Mi sembra una cavolata.”
“Lo è, amico mio, lo è. Ma è molto più divertente interpretarli così. I risultati sono così insensati da essere esilaranti.”

[Lavi/Allen] AU, Rating Giallo per future scene un po' sanguinose (potrebbe alzarsi ad Arancione, forse)
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Allen Walker, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eeeee dopo nove secoli, ecco il secondo capitolo!

Do totalmente la colpa alla maturità. Completamente. Comunque, questo capitolo è segnato come capitolo2 parte I perché il capitolo intero che ho scritto era lungo… più di 18000 parole quindi, pensando che magari io sono l’unica persona al mondo che preferisce i capitoli lunghi, ho preferito spezzare il capitolo in due (un po’ anche perché non ho finito di correggere la seconda parte. Effettivamente al momento fa un po’ schifo MA COMUNQUE uscirà tra strapoco). In ogni caso, mi dispiace per l’attesa, coff. Temo tra l’altro che questi capitoli non suscitino molte emozioni in quanto di fatto non succede molto, essendo l’inizio. Lo so, tutta la parte “dobbiamo stringere amicizia prima di fare le cosacce e prima che succedano cose ubertraumatiche” è sempre una parte molto sofferta. Se scorgete errori vi preeego di dirmi quali, non ho dedicato molto tempo alla sua revisione, e le critiche sono apprezzate anche se non credo che sapendo cosa non va potrei fare di meglio .-. il modo in cui scrivo mi sembra insignificante a tratti (?). Ah, ho apportato qualche leggera modifica al cap precedente, cosa che succederà molto spesso *-* Per non dire spessissimo *-*

 

Disclaimer: Non mio. Però, ora che ricominciano a succedere cose interessanti, la cosa non mi dispiace troppo.

 

Photobucket

. C h a p t e r 2 .

~~~

“A nessuno piace la solitudine. Ma non mi faccio in quattro per fare amicizia. Così evito un po' di delusioni.”

 ( H a r u k i  M u r a k a m i )

~~~

Seppur la voce avesse parlato pressoché in un sussurro, sobbalzai così violentemente da perdere quasi l’equilibrio da un lato – ed è piuttosto difficile che ciò accada quando si è seduti per terra con le gambe incrociate.

Tirandomi giù il cappuccio della felpa con uno strattone, mi voltai bruscamente da un lato, pronto ad inchiodare con uno sguardo omicida l’invasore della mia privacy mentale, ma quello che vidi mi fece morire le parole in bocca.

Dietro di me stava in piedi, con le mani infilate nelle tasche di stretti jeans neri, un ragazzo alto, probabilmente del terzo o del quarto anno, avvolto in una pesante felpa verde militare, con al collo una lunga sciarpa arancione che presentava la consunzione del tempo nei suoi orli sfilacciati e i piccoli buchi malamente rattoppati con delle cuciture sbilenche. Aveva una carnagione rosata e ribelli capelli ramati tenuti su da una spessa bandana nera con sottili ricami verdi, che causava ad alcuni ciuffi di ricadere all’ingiù in pieghe innaturali.

Ma la cosa che in assoluto colpiva di più era la benda nera che copriva l’occhio destro, mentre lasciava visibile quello sinistro, di un vibrante verde smeraldo. Non ricordavo di aver mai visto degli occhi di un verde così intenso.

Con qualche piccolo accessorio aggiuntivo e una felpa diversa, sarebbe potuto passare per un pirata – vagamente pensai che se mai avessi avuto bisogno di dargli un soprannome, ‘pirata’ sarebbe stato perfetto.

Trattenni una risata al pensiero, non volendo essere maleducato, ma quella morì subito spontaneamente quando, uscendo dalla mia bolla di immaginazione, notai lo sguardo strano che mi indirizzava, le sopracciglia aggrottate e l’occhio leggermente sgranato che cercava qualcosa sulla mia faccia, rapito.

Il ragazzo si inginocchiò fino a raggiungere la mia altezza e continuò a fissarmi con espressione innegabilmente incuriosita.

Inarcai un sopracciglio, fissandolo di rimando con perplessità. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel suo aspetto così asimmetrico. Non feci troppo caso a quei pochi, strani attimi di silenzio che vibrarono di curiosità tra di noi.

“Beh, dimmi se questo non è interessante…” commentò il rosso, con fare pensieroso, e in quel momento realizzai l’ovvio.

Mi portai in fretta una mano alla fronte, smuovendo un po’ la frangia di ciuffi bianchi in modo che almeno il pentacolo fosse coperto. E allora, con irritazione crescente, notai che il ragazzo guardava curioso anche le mie mani guantate. Mi chiesi, con un po’ troppo astio, com’è che non avesse un minimo di decenza nel nascondere la sua curiosità morbosa.

Con uno scatto, il ragazzo sembrò ridestarsi dalla trance in cui era piombato, e scosse rapidamente la testa.

Dunque… cosa stavi facendo?” chiese con una cadenza lievemente canzonatoria.

Aggrottai le sopracciglia, pronto a rispondergli in modo tagliente – era così strano sedersi in un corridoio? – perché c’era qualcosa in questo ragazzo che mi irritava nel profondo. Aprii la bocca, ma dopo qualche secondo la richiusi con uno schiocco. Effettivamente non sapevo come rispondergli – cosa stavo facendo?

Il ragazzo parve intuire la mia stessa confusione dalla mancanza di una risposta, e sulle sue labbra si distese un sorriso sghembo che chiaramente diceva ‘non penso che tu abbia la mente a posto, e una voglia improvvisa di levarglielo dalla faccia a suon di pugni mi colse.

A mia discolpa, posso dire che di solito non ero così violento. Anzi, non ero proprio violento in generale.

Stavo… riflettendo,” tirai fuori a forza, sulla difensiva. Non la migliore scusa che avessi mai inventato. Il sorriso di scherno non fece altro che allargarsi.

“Stavi riflettendo. Seduto nel corridoio,” riassunse brillantemente il ragazzo, senza smettere di fissarmi come se fossi stupido.

Si lasciò sfuggire una sorta di sbuffo, che era in realtà una palese risata di scherno. Gli lanciai un’occhiata cattiva.

“E cosa staresti facendo tu,” gli chiesi in tono di sfida, incrociando le braccia, “inginocchiato in mezzo a un corridoio?”

Oddio, grandioso’, pensai. Prima ora del primo giorno di scuola e mi mettevo a discutere con qualcuno che neanche conoscevo – ma che scusa avrebbe trovato lui che suonasse più intelligente della mia? Hah.

“Beh,” iniziò il ragazzo, che sembrava un po’ sorpreso, “stavo bigiando la prima ora e mi stavo dirigendo in biblioteca. Ma poi ho visto un tizio seduto in mezzo al corridoio e mi sono chiesto ‘perché c’è un ragazzo seduto nel corridoio?’ e ho pensato di chiederglielo. Questo mi ha condotto alla posizione attuale, in mezzo al corridoio. Sei il nuovo studente vero?”

wow. Ero quasi sicuro che avesse detto l’intera frase senza prendere il respiro.

Lo fissai per qualche secondo, stupidamente colpito dal fatto che la sua scusa era molto più logica. Poi realizzai che mi aveva posto una domanda.

“Sì,” lo guardai spiazzato, “Come fai a…

“Me l’ha detto Lenalee, alla quale l’ha detto Rou Fa, che l’ha saputo da Komui, che l’ha confermato a Lenalee e me, ma tu non conosci nessuno di loro quindi non so perché te lo stia dicendo. E anche perché, per quanto ti possa interessare saperlo, ho una buona memoria fotografica e, seppure non voglia dire di ricordare a memoria ogni singola faccia dell’istituto, sono sicuro che in due mesi di scuola avrei notato uno come te.”

…Questo ragazzo parlava a monologhi. Ma tale realizzazione non mi distrasse dalle sue ultime parole, e automaticamente portai di nuovo una mano alla frangia. E quello che trovai davvero fastidioso in quel momento era il modo in cui quell’occhio smeraldo sembrava assorbire con un anomalo interesse ogni mio minimo movimento. A forza, rimisi giù la mano.

“Non stavi… andando in biblioteca?” mi stupii della mia stessa sfacciataggine. Ma questo ragazzo…

Suddetto ragazzo sbuffò divertito; sembrava che gli insulti, impliciti o espliciti che fossero, gli scivolassero addosso come pioggia su un impermeabile. Mi ricordava qualcuno. Un qualcuno dai capelli altrettanto rossi e l’alito perennemente odorante di rhum o vodka.

“Sì, stavo andando. Ma seriamente,” mi squadrò velocemente, come se stesse cercando di arrivare alla soluzione di un enigma, “cosa ci fai qui? Stavi saltando la prima ora in modo creativo… o, non so, ti sei perso?” disse l’ultima parte come se la trovasse improbabile. Respirai lentamente.

“Potrei, e dico, potrei,” ammisi titubante, “aver perso l’orientamento.”

Il ragazzo mi diede un’occhiata significativa. “Cosa sei, una di quelle persone che non riesce a trovare la camera da letto nella propria casa?”

“No!” sbottai offeso, a voce abbastanza alta da farmi ricordare che eravamo circondati da classi nel pieno delle loro lezioni. “No,” ripresi a voce più bassa, “questa scuola è solo schifosamente enorme! Cos’è, una base militare?”

Ahah, mi dispiace,” lo sguardo del ragazzo si perse nel vuoto oltre le mie spalle, mentre giocherellava distrattamente con l’orecchino ad anello argentato che vidi solo allora, “non mi ricordo cosa si prova a non conoscere questa scuola centimetro per centimetro. È una sorta di relazione Weasley-Hogwarts, non so se mi spiego.”

Sorrisi spontaneamente al riferimento letterario, “Sì, ti spieghi.”

Quando l’occhio del ragazzo tornò su di me, quasi mi pentii di aver parlato. Ritornai ad aggrottare le sopracciglia – mi sentivo così un bambino ogni tanto.

“Dunque,” il ragazzo mi mostrò di nuovo il suo sorriso sghembo, “cos’hai in programma di fare: passare tutta l’ora qui o sfruttare l’occasione per fare un giro turistico della scuola?”

Mi sentivo un po’ combattuto. Da un lato, non avevo esattamente voglia di restare lì per sempre, dall’altro non ero sicuro che i miei nervi potessero sopportare la presenza di quel ragazzo ancora per molto. Era decisamente… strano. Non antipatico, o cattivo. Semplicemente irritante. E disorientante. E curioso.

Ma valutando i pro e i contro rapidamente, optai per l’accettare l’offerta. In fondo, da un certo punto di vista, sembrava abbastanza cortese.

Sospirai pesantemente – non volevo dare l’impressione di morire dalla voglia di muovermi e ritrovare la mia strada così tanto – e mi alzai senza fretta, stiracchiandomi gambe e braccia, e raccogliendo lentamente il mio zaino. Il ragazzo mi imitò.

Appena fummo in piedi l’uno di fianco all’altro, mi resi pienamente conto, con una stretta al cuore, della differenza in altezza che ci divideva. A malapena la mia testa arrivava alla sua spalla. Con dispiacere, vidi l’espressione stupita racchiusa nel suo unico occhio.

“Wow,” annunciò, con un che di gravoso e solenne, “sei basso.” E sottolineò con molta forza la parola ‘basso’.

Sentii distintamente il suono di un ringhio nell’aria, prima di accorgermi di averlo emesso io.

“La sai una cosa?” gli mostrai un sorriso orrendamente falso e mi voltai, cominciando a riabbassarmi verso terra e mollando lo zaino, “penso che starò ancora un po’ qui, seduto, a…

“Riflettere?” suggerì il rosso. Stavo davvero iniziando ad odiare quel suo modo di fare e il suo continuo essere divertito.

“Esatto, riflettere!” Mio dio, quel ragazzo sapeva essere così, così!

“Ma perché! Cos’è, ho colpito un tasto dolente?” Non sopportavo il modo in cui la sua voce era falsamente intrisa di dispiacere mentre il sorriso stampato sulla sua faccia diceva tutt’altro. “Ma ho solo constatato l’ovvio!”

Mi rialzai di scatto come una molla, e lo guardai torvo. “Io ho il diritto di essere basso!” esclamai infervorato – e ero vagamente consapevole di stare dicendo una cavolata, ma me ne fregai – “ho quindici anni! I ragazzi di quindici anni non sono così alti di solito! E tu cos’è hai, diciassette anni? Aspetta che io abbia diciassette anni! Sarò alto un chilometro più di te!”

Il ragazzo si avvicinò a me, e mi diede un colpetto incoraggiante sulla spalla. Mi trattenni dal prenderla a morsi.

“Su, ragazzo, non demoralizzarti troppo. C’è di peggio, sai, conosco persone più basse di te. Prendi mio cugino, sarà alto sì e no un metro e quaranta…. È anche vero che ha dieci anni, ma…

Inaspettatamente mi salì una risata, che tentai di soffocare in uno sbuffo, ma fu un tentativo piuttosto scialbo. Di scatto mi portai una mano alla bocca. Il rosso mi guardò sorpreso.

“Non dovevi ridere! Si supponeva che tu, boh, ti arrabbiassi!” mi accusò. Non capivo se stesse solo constatando un’indubbia verità o se fosse deluso.

“Non avevo assolutamente intenzione di ridere!” gli sibilai contro. “Non faceva neanche ridere! Giuro che stavo per insultarti!”

“Ma hai riso!” esclamò il ragazzo puntandomi un dito contro.

“Non volevo!”

“Allora perché hai riso? Mi stavo già preparando a schivare qualche attacco! Tutta quella tensione per nulla!”

“Questa conversazione non ha senso,” sbottai scocciato.

L’altro annuì, piuttosto tranquillo. “No, non molto.”

Sbuffai di nuovo.

Il rosso mi guardava a bocca aperta con la faccia scolpita in una smorfia di incomprensione. Lentamente, si passò una mano tra i capelli.

“Oddio, ma tu sei sempre così… bipolare? Per non dire mestruato?” mi chiese con espressione meravigliata, come se trovasse curiosa anche solo la parola ‘bipolare’. E il secondo successivo avrei tentato di soffocarlo o almeno rispondergli con un secco ‘no’ se, indietreggiando di qualche passo, il ragazzo non fosse inciampato nel mio zaino che si era misteriosamente materializzato dietro di lui, cadendo rovinosamente sul suo sedere.

Non riuscivo a smettere di ridere. Il rosso si rialzò da solo faticosamente da terra, lanciandomi qualche occhiata un po’ irritata.

“Non è molto cortese da parte tua – in fondo è colpa tua, lo zaino era tuo,” constatò con finto tono acido – difatti stava stranamente sorridendo.

Finalmente mi calmai, e respirai per riprendere fiato. “Io non penso. Sei tu che dovresti stare attento a dove metti i piedi. O forse era solo karma negativo. Lo sai,” ghignai sadicamente, “nessuna data di scadenza.”

“Per cosa, per averti dato della persona ‘bassa’?”

“Sì, probabilmente sì.” Gli sorrisi con finta dolcezza.

Il ragazzo ridacchiò, poi all’improvviso fece una smorfia strana. “Che stupido,” affermò con insolita decisione, “non mi sono neanche presentato. Mi chiamo Lavi, Lavi Bookman. Diciassettenne americano di origini etniche sconosciute. Mi piace il cioccolato.”

Ridacchiai sorpreso, “Strano nome. Ma soprattutto, che tipo di cioccolato?”

Lavi – che rivaleggiava con ‘pirata’ per esotismo – sbuffò sonoramente, “Lo so. Significa ‘leone’ in ebraico. Non ho mai scoperto cosa si erano fumati i miei prima di sceglierlo. E, totalmente il fondente.”

“Io Allen. Allen Walker. Quattordicenne americano di indubbie origini inglesi. Mi piace qualsiasi cosa, basta che sia commestibile. Mi piace mangiare, in generale. Mangio molto.”

Lavi si portò una mano al mento e con fare pensieroso commentò: “Effettivamente suona molto inglese. Mi piace. Allen. Ma dubito che tu mangi quanto mangio io durante un solo pasto.”

Eeeh, rimarresti stupito…” risposi vagamente, grattandomi imbarazzato la guancia. Lanciai frettolosamente un’occhiata intorno, come se mi aspettassi di trovare un orologio esattamente su uno dei muri circostanti, “Allora… quel giro turistico gratuito?”

Di nuovo quel sorriso sghembo. “Non posso credere di aver davvero detto ‘gratuito’.”

oOoOoOoOoOo

Mi sembrava stessimo camminando da ore, invece probabilmente non era passata neanche mezz’ora. Forse era dovuto al fatto che Lavi aveva la capacità di parlare a una velocità al di fuori dal comune, ed era riuscito a raccontarmi nel giro di mezz’ora la storia dell’intera scuola, pettegolezzi, dicerie e vere e proprio leggende scolastiche, che mi narrava con la passione di un archeologo che ricorda le sue scoperte negli scavi. Avevamo fatto il giro della scuola, esplorato ogni suo angolo, dalla biblioteca – che per ironia della sorte avevo scoperto occupare tutto il piano superiore a quello in cui mi ero fermato io – all’aula di informatica, di lingue, di cucina.

Ma la cosa più strana in assoluto era che trovavo quel che diceva interessante. Aveva un modo di coinvolgere tutto suo, e anche mentre raccontava dei pettegolezzi più improbabili – tra cui l’ipotesi, a suo dire fondata, che il professore di Storia fosse in realtà un vampiro – non potevo fare a meno di ascoltarlo rapito, anche se cercavo di non darlo troppo a vedere. Trovavo invidiabile il modo in cui appariva così affezionato a quell’edificio, a quella scuola, in un modo in cui io non sarei mai potuto esserlo.

…E avresti dovuto vedere la sua faccia, quando ha visto l’incisione che aveva lasciato Yuu con la sua katana…. Quella volta Yuu ha rischiato grosso, ma io gli feci brillantemente notare che non aveva alcuna prova e non si poteva espellere uno studente solo basandosi su supposizioni… Ha aiutato molto il fatto che Lvellie sia sempre molto restio nell’allontanare dei campioni, dato che la sua aspirazione massima è quella di trasformare la scuola in una sorta di ricettacolo di future celebrità. Sì, quello è stato un giorno memorabile…

C’erano dei nomi che comparivano più spesso del solito. Lavi ne parlava come se li conoscessi da sempre anche io, e non gli feci notare che non avevo la minima idea di chi fossero. Anche se, dopo tutte quelle storie mi ero fatto un’idea.

Prima di tutto c’era Yuu, che sembrava essere il suo migliore amico. Da quel che avevo capito, era un tipo piuttosto violento – se era vero il numero di volte, dettomi da Lavi, in cui Yuu aveva cercato di menomarlo in un modo o nell’altro – e inoltre una sorta di campione nell’uso della katana, una tipica spada giapponese. E se non avevo capito male, doveva avere i capelli un po’ più lunghi della media.

Poi c’era Lenalee, che al contrario mi pareva la classica ragazza calma e gentile con tutti, e per di più molto carina – anche se non avevo capito bene i continui accenni a un fratello iperprotettivo…

E poi altri nomi, su altri nomi, che si perdevano nell’infinità di aneddoti raccontati.
…E, oddio, quasi non ricordavo questa maniglia. Vedi che è semi-eradicata? Beh, c’è una storia piuttosto buffa dietro, che vede coinvolti un’avvenente ragazza di nome Emilia e un giovincello scapestrato intrufolatosi abusivamente nella scuola… ehi, Allen, mi sta ascoltando?”

Mi voltai verso di lui, che indossava la sua tipica espressione incuriosita. Scossi la testa, “Sì, stavo solo pensando…

Lavi mi lanciò un’occhiata tra l’esasperato e il divertito – un’accoppiata peculiare. “Sei strano.”

“‘Disse il pirata’,” borbottai esasperato. 

Lavi rise di gusto. “Un pirata? Non è male. Poco originale, ma suona bene. Si dà il caso che in questa scuola io abbia anche il mio covo personale – al quale però non hai il permesso di accedere, per il momento—”

Mi voltai a guardarlo: Lavi aveva rallentato bruscamente il suo passo e aveva un’espressione di assoluto stupore dipinta sulla faccia. Quando non diede cenno di voler ricominciare a parlare, quasi mi preoccupai.

“Lavi? C’è qualcosa che non va?”

E l’attimo dopo il ragazzo scosse la testa, e mi sorrise. Sospirando, si passò una mano tra i capelli, spostando un po’ la bandana – avevo notato che lo faceva piuttosto spesso. “Ma comunque, è vero che sei strano.” Continuò, come se nulla fosse. “Per tutto il tempo hai continuato a distrarti e immergerti nel tuo piccolo mondo personale… a un certo punto ho dovuto afferrarti perché rischiavi di cadere dalle scale, e non te ne sei neanche accorto!”

Tentai di non mostrare la mia perplessità. “Ma stavo semplicemente…” mi fermai, nel tentativo di trovare le parole giuste, “immaginando le scene di cui mi parlavi. Ero or ora preso dalla comparsa immaginaria di quel giovincello scapestrato…” indicai con un dito un punto vago verso la porta della maniglia rotta. Lavi seguì il mio dito, e scosse la testa. 

“Va beene, ma ora esci dal tuo mondo dei sogni e stai attento, perché quello che stai per vedere,” inserì una pausa ad effetto, alzando le mani in segno di preghiera, “è l’ultima meraviglia della scuola.”

Le meraviglie della scuola, secondo Lavi la guida turistica, erano cinque.

La prima era la biblioteca, non solo per il semplice fatto che fosse una biblioteca, che secondo Lavi sarebbe stato sufficiente, ma anche perché casualmente si trattava anche di una delle biblioteche scolastiche più fornite dello Stato – avevo scoperto così che Lavi era un topo di biblioteca, o almeno così si era definito lui. La cosa mi aveva sorpreso non poco, anche se non capivo perché. Quando tentavo di etichettare Lavi secondo un qualche stereotipo da High School, scoprivo di non riuscirci.

La seconda era la gigantesca quercia che si trovava su un lato del cortile interno della scuola, che Lavi mi mostrò da una finestra. Nel complesso, tutto il cortile era chiaramente tenuto bene, nonostante ormai molte delle piante avessero cominciato a ingiallirsi e perdere foglie.

La terza e la quarta meraviglia erano la stanza del Club di Giornalismo e l’aula di Esposizione dei club artistici. Della terza Lavi sembrava adorare l’enorme quantità di informazioni sulla scuola e la città che la  piccola stanza conteneva racchiusa in scaffali, plichi e cataste di fogli. Entrato nell’aula lo sorpresi più volte a sorridere al vuoto, con un’aria così stupidamente amorevole che mi fece venire voglia di punzecchiarlo.

Della quarta Lavi non amava tutto. Nonostante la stanza fosse, a mio parere, piena di piccole opere d’arte, dalle piccole anfore in argilla perfettamente decorate con ornamenti floreali e arabeggianti ai dipinti di paesaggi verdeggianti pieni di colori vivaci, Lavi prestò attenzione a pochi di quei lavori. Mi fece vedere le tavole di una certa Emilia, su cui era disegnata, con un’abilità stupefacente, sempre la stessa bella ragazza che indossava ogni volta dei vestiti differenti, variopinti e originali, e un altro foglio su cui era ritratto realisticamente il volto di un ragazzo dalle fattezze asiatiche, dallo sguardo severo e i lisci capelli corvini. Mi mostrò un vaso dalla forma raffinata ricoperto di disegni di persone colte durante azioni quotidiane – tra quelle spiccava una figura dai capelli ramati e una sospetta benda sull’occhio che sembrava china su un grosso libro, e non mi sorprese più di tanto leggere il nome ‘Lenalee’ sul tavolino che reggeva il vaso. E infine Lavi mi indicò alcune delle sue foto preferite nella sezione apposita.

La fotografia è un’arte speciale,’ aveva detto Lavi, ‘riesce a cogliere e catturare su un pezzo di carta attimi, espressioni, sfaccettature della verità così fugaci che spesso anche all’occhio più allenato sfuggono. Rende possibile contemplare quelle microespressioni a cui non si riesce sempre a far caso ma che, se si potessero vedere con la stessa facilità di quanto si nota il divertimento in una risata, sarebbe così semplice comprendere… ah, Allen, non ascoltarmi.

Non avevo commentato, ma il perché tutte quelle fossero le ‘meraviglie’ della scuola non mi era difficile capirlo.

Ma ora mi ritrovavo davanti all’ultima meraviglia: la grigia, poco interessante porta di quello che doveva essere il bagno maschile del terzo piano del lotto C. O era il secondo piano? O il quarto… comunque.

Quello che non capivo, a prescindere dal piano su cui fossimo, era cosa ci potesse essere di tanto speciale in un bagno per maschi.

“Cosa c’è di tanto speciale in un bagno per maschi,” chiesi difatti in tono piatto.

Lavi sospirò teatralmente e si portò il dorso di una mano alla fronte in segno di tragicità, “Allen, Allen… non hai ancora capito che in questa scuola non ci si può fermare alle apparenze?” Si allungò in avanti e afferrò la maniglia scardinata, tirandola a sé. “Qui dentro, Allen, si nasconde il luogo più magnifico di tutti… l’oracolo di Delo.”

Ormai per metà all’interno del bagno, lo seguii rassegnato.

Era un semplice bagno, pavimentato di piastrelle blu e dalle pareti bianche a cui erano attaccati alcuni lavandini e una serie di orinatoi, sul lato opposto alla fila di cabine chiuse.

“Allora, la leggenda dice…

“Ma che ore sono? Tra poco non finisce l’ora?” lo interruppi, buttando il mio zaino in un angolo.

“Non m’importa, la leggenda dice che alcuni anni fa, uno studente disperato cercò rifugio in una delle cabine di questo bagno, che si sa, è poco frequentato dato che la maggior parte delle classi di questo piano sono dedicate ai club pomeridiani. Si dice che fosse in preda a una crisi esistenziale dovuta a pressioni familiari e scolastiche. Sta di fatto che si rinchiuse in questa cabina, proprio questa,” e indicò una l’ultima cabina della breve fila all’interno del bagno, “e ci rimase per il resto della giornata. E quando ne uscì… aveva trovato tutte le risposte di cui aveva bisogno.”

Lavi si fermò davanti alla porta della cabina, su cui era affisso con dello scotch un foglio bianco e sgualcito con su stampato in maiuscolo la parola ‘guasto’.

Avevo ormai capito dove la storia voleva andare a parare. “E questo non potrebbe essere perché è rimasto in bagno a pensare per tutto il giorno?”

“Non essere scettico, Allen! E la storia non è ancora finita! Sono stati riportati altri due episodi a conferma della storia.”

Lo vidi frugare nelle sue tasche, e qualche secondo dopo tirare fuori una moneta di cinque centesimi. Mentre la inseriva nella stretta fessura sotto la maniglia che segnava il colore rosso, ‘occupato’, riprese a parlare.

“La seconda fu una ragazza di prima, a cui piaceva un ragazzo di seconda che aveva conosciuto grazie ad un amico. Ma questo ragazzo era parecchio freddo e distaccato. Nonostante alcune ragazze gli si fossero dichiarate, lui aveva sempre rifiutato tutte loro, non degnandole neanche di una parola. E a questa ragazzina lui piaceva, davvero, ma ella non aveva il coraggio di dichiararsi, sicura che lui l’avrebbe rifiutata senza neanche prenderla in considerazione. Scoraggiata, venne qua per stare un po’ da sola dopo una giornata particolarmente difficile e, indovina? A un certo punto trova il coraggio di confessarsi. Corre fuori dal bagno a una velocità sorprendente e trova subito l’oggetto dei suoi desideri che cammina per il corridoio del secondo piano. Gli si para davanti e gli confessa il suo amore, così, su due piedi.”

“Non c’è neanche da dire che il ragazzo era sconvolto. Sia perché era un tipo chiuso e non sapeva come gestire una dichiarazione in pubblico, sia perché come si scoprì dopo, lui stesso era stato innamorato della ragazza a lungo, solo che era sempre stato certo che lei non ricambiasse. Così si misero insieme e vissero sempre felici e contenti. O così narra la storia.”

La serratura del bagno scattò su ‘aperto’ con un sonoro clack. Lavi rimise via la moneta ma non aprì la porta.

Era di sicuro una storia romantica, un po’ cliché, ma romantica. “Okay,” ridacchiai, “di cosa parla il terzo episodio?”

 Lavi mi sorrise raggiante, compiaciuto di aver suscitato il mio interesse.

“Il terzo e ultimo episodio ha come protagonista di nuovo un ragazzo, uno piuttosto silenzioso e che stava vivendo una situazione familiare un po’critica. Aveva infatti appena scoperto che suo padre tradiva sua madre con un’altra donna, che tra l’altro lui odiava già prima della scoperta. Era un tipo piuttosto orgoglioso, che non amava parlare dei suoi problemi con gli amici, perché non voleva sembrare debole per alcun motivo. In questo caso, in più, si vergognava profondamente del padre, e quindi per alcuni giorni si tenne tutto dentro, indeciso tra il tenere il segreto per sempre con sé o dirlo alla madre. I suoi amici capendo che aveva qualcosa che non andava, ma incapaci di capire cosa esattamente, gli raccontarono, nella speranza di tirargli su il morale, delle voci che giravano su questo bagno e gli consigliarono, in parte scherzando, di provare a scoprire se davvero il bagno aveva quel potere. Ovviamente il ragazzo li ignorò, non credendo a una parola di quello che aveva sentito – a ragione, oserei dire. Ma qualche giorno dopo, nonostante avesse minacciato il padre di non tradire più, lo ritrovò ancora con l’amante.”

Lavi si interruppe. Stava guardando con occhi vacui un punto della porta, immerso nei suoi pensieri, “C’è da dire che il padre non era molto intelligente,” disse in un sospiro. “Ma comunque,” e nei suoi occhi si riaccese la fiamma della passione del cantastorie, “quel giorno il ragazzo venne a scuola, straincazzato e con una gran voglia di distruggere qualcosa o qualcuno.”

“Oddio, ha picchiato qualcuno a sangue?” intervenni, scioccato all’idea.

Nah,” Lavi scrollò le spalle con indifferenza, “fortunatamente andò a prendere una mazza da baseball in palestra e venne proprio qui. Entrò in questa cabina e prese a mazzate il tubo del condotto.” Alzò una mano all’altezza della faccia e appiattendo le dita, la mosse in orizzontale come se stesse lisciando qualcosa, “Si dice che il suo ringhio a ritmo di ‘non crederò mai a qualcosa di così stupido’ risuonò per dieci giorni nei corridoi della scuola.”

Ridacchiai e incrociai le braccia. “Sì, va bene, e quindi? Ha sfondato il bagno e se n’è andato?” chiesi con un sorriso sardonico.

Lavi mi lanciò un’occhiata di finta sufficienza e alzò un dito con fare lezioso. “No, il meglio deve ancora arrivare. Dopo aver distrutto le tubature, il ragazzo rimase nel bagno, seduto a pensare. Un’ora dopo, uscì dal bagno con una sicurezza che mai aveva posseduto. Quella sera disse a sua madre della tresca amorosa del marito, e con suo immenso piacere sua madre gli rivolse queste parole ‘era da un sacco che cercavo una scusa per buttarlo fuori!’ Tutto si risolse quindi per il meglio. Il padre venne buttato fuori, la madre ottenne il divorzio e lei e il figlio vissero sempre felici e contenti, con gran parte del conto bancario intatto. Circa,” Lavi si grattò la testa, imbarazzato, “la leggenda non tramanda cosa successe dopo.”

“Beh, sono felice per lui,” commentai. Solo uno come Lavi poteva mostrare così tanto interesse per una leggenda così campata per aria. Dubitavo che le varie storie fossero vere, e se Lavi se le stava inventando sul momento, beh. Aveva un talento innato per la recitazione e l’immaginazione. “Apriamo la porta adesso?”

Annuì, sorridendomi con quel ghigno sghembo. Spinse la maniglia verso il basso e, lentamente, aprì la porta.

Di certo quello che vidi non era esattamente ciò che mi ero aspettato. La cabina era un piccolo cubicolo a pianta rettangolare, più lungo che largo, fatto di muri di piastrelle bianche. Attaccato al muro opposto alla porta vi era un water bianco collegato a una serie di tubi che salivano lungo il muro, tutti prevedibilmente ammaccati, proprio come se qualcuno li avesse presi a bastonate. La cassa dello sciacquone aveva il coperchio disintegrato, come lo era anche la tavoletta. Ma su tutta la superficie delle ridotte pareti, vi era un immenso numero di scritte elaborate, tutte con calligrafie diverse, con colori diversi, ogni tanto affiancate da minuti disegni abbozzati o faccine stilizzate. Entrando nel cubicolo, feci un giro su me stesso, cogliendo l’occasione per leggerne qualcuna. Erano frasi completamente diverse tra loro, alcune incoraggianti, alcune imperiose, altre che esprimevano semplici consigli.

“Si racconta ch i primi che fecero la scoperta del bagno lasciarono una scritta in omaggio sulle pareti, in ricordo,” arrivò da dietro di me la voce di Lavi, “e che questa usanza sia stata rispettata da tutti gli studenti che li seguirono e trovarono lì delle risposte. Ogni frase lasciata può essere un consiglio per il prossimo.” Lo sentii ridere, “Ora che di scritte ce ne sono così tante però, ho sentito dire che alcuni si limitano a girare su se stessi ad occhi chiusi e puntare il dito verso una risposta. Mi verrebbe da dire che così ha perso un po’ il suo scopo…

Mentre lo ascoltavo, avevo notato una scritta strana, piccola e nera, fatta con dei caratteri a me sconosciuti, sotto una che leggeva ‘fottitene’. Mi chinai per vederla meglio e la indicai a Lavi. “Lavi, cosa vuol dire questa scritta?”

Lavi si avvicinò e improvvisamente sorrise. “Quello è giapponese, ed è la prova che le persone stupide esistono. C’è scritto ‘Apriti’.”

Continuai a guardarla, senza capire. “Cosa intendi dire?”

“Mi dispiace, Allen, ma questa è una storiella che non è il caso di raccontare. Anche se ormai credo di averti comunque raccontato troppo.”

Quando mi girai di nuovo verso di lui, vidi che il suo occhio stava scrutandomi, attentamente, probabilmente in cerca di un qualche segno di reazione.

“Beh, cosa ne pensi?” mi chiese infatti con voce emozionata.

“Penso che tutto questo sia…

“Affascinante?” suggerì l’altro senza aspettare, “Commovente? Interessante? Fantastico? Misterioso?”

“Abbastanza stupido,” risposi senza emozione, e mi sorpresi a godere sadicamente dell’espressione delusa di Lavi, “preferivo la penultima meraviglia.” Gli sorrisi dolcemente.

“Dai, Allen!” si lamentò alzando la voce. Quasi mi aspettavo che cominciasse a battere i piedi per terra, “È una creazione umana dalla storia commovente e dalla chiara morale umanitaria, come puoi non apprezzare questo spicchio di vita scolastica quotidiana?”

Continuando a gesticolare, entrò anche lui nel cubicolo – ora decisamente più stretto – e indicò in generale le pareti. “C’è lo sforzo della vita di ogni giorno di un centinaio di studenti inciso su questi muri.”

Gli lanciai un’occhiata scettica, “Come puoi emozionarti tutto per una storia del genere?” Lo superai e uscii dalla cabina. Sentii i suoi passi che mi seguivano.

“Voglio dire, probabilmente è solo una storia che sì è inventato qualcuno per divertimento. Si sarà alzato una mattina con la voglia di sfidare se stesso e la popolazione scolastica e vedere se era in grado di creare una leggenda,” ipotizzai. “Come può un intero water essere visto come un oracolo? Da un’intera scuola per di più!”

“Mai sentito parlare della Fontana di Duchamp?”

Ridacchiai sotto i baffi. “Sei pazzo,” gli confessai con assoluta sincerità.

Lavi sorrise divertito, “E tu sei strano.”

Sospirai in rassegnazione. “Non ho mai visto nessuno interessarsi così tanto a un bagno.”

“Magari non è al bagno che sono interessato,” rispose enigmaticamente Lavi.

Perplesso, lo guardai uscire dal bagno e richiudere la porta dietro di sé. Proprio mentre stavo aprendo la bocca per chiedergli cosa intendesse, la campanella della scuola suonò.

“Che scocciatura immensa,” commentò Lavi stizzito, mentre ritirava fuori dalla tasca dei pantaloni la sua moneta e ripeteva il procedimento di prima. “Che cos’hai ora?”

Cos’avevo cosa. “Eh?”

Lavi si girò e una volta finito si allontanò dalla porta. “Che lezione?” Inarcò un sopracciglio davanti alla mia incomprensione.

“Ah!” esclamai capendo. Seguendo Lavi fuori dal bagno, raccattai da terra il mio zaino. Lavi mi guardò frugare al suo interno alla ricerca del foglio che mi avevano dato in segreteria un’ora prima, e quando lo trovai – quasi subito, dato che lo zaino era praticamente vuoto – con imbarazzo cercai di nascondere il suo stato di spiegazzamento. Non ero un granché bravo nel tenere ordinate le cose che non mi interessavano.

Lo spiegai e cercai la casella corrispondente a quell’ora.

“Chimica 102,” lessi ad alta voce.

Lavi rimase stupito. “Sei del secondo anno o sei solo molto portato in chimica?”

“Chimica non è esattamente la mia materia preferita. Comunque sono del secondo anno.”

Lavi ghignò. “Non l’avrei mai detto. Sei troppo basso per sembrare uno di seconda.”

“E io penso che tu dia troppa aria alla tua bocca, Lavi. Sembri così intelligente prima di iniziare a parlare.”

Il rosso si portò una mano al cuore, con fare sofferente. “Mi stai ferendo, Allen. Il mio cuore di pirata è fragile davanti alle tue parole taglienti.”

“Oh, stai zitto.”

Lavi sbuffò. “Ma davvero, a parte l’altezza, credevo fossi in prima. Non hai detto di avere quattordici anni?”

“Il mio compleanno è il 25 dicembre.” Compiere gli anni gli ultimi giorni dell’anno era un po’ seccante: la gente calcolava sempre il mio anno di nascita partendo dal presupposto che avessi già compiuto gli anni, e ogni volta mi credevano di un anno più giovane. Non era esattamente l’elemento più tragico della mia vita, ma con il passare del tempo avevo imparato a trovarlo… seccante, appunto.

“Ah, capisco. È sempre un problema compiere gli anni dopo l’estate, vero? La gente crede sempre che tu sia di un anno più giovane.”

Beh, non si era aspettato questo livello di empatia. Un sospetto affiorò nella mia mente. “E il tuo compleanno?”

“Il 10 agosto. Data non esageratamente tarda come la tua, ma a sufficienza per creare sporadiche incomprensioni.” Lavi mi indirizzò un sorriso comprensivo. “Comunque, dovresti avere Reever.”

Ripiegai il foglio degli orari fingendo una cura che non gli avevo dato prima e lo ricacciai nello zaino. Ricordavo un ‘Reever’ nei racconti di Lavi, che se non sbagliavo era sempre associato a un altro nome, ‘Komui’, che dopo quello che avevo sentito avevo istintivamente cominciato a temere. “Ed è una buona cosa?”

Lavi scrollò le spalle, e si avviò verso le scale in fondo al corridoio. Buttandomi lo zaino in spalla, lo seguii silenziosamente.

“Direi di sì,” mi rispose dopo un po’, guardando davanti a sé. “È un bravo professore, gentile e sempre disposto a dare una seconda possibilità agli studenti.”

Annuii, un po’ rigido. Ora che il momento di entrare in classe si avvicinava, quell’ansia che mi aveva perseguitato dall’inizio della mattinata stava riassalendomi. Non sapevo come, ma Lavi era quasi riuscito in quaranta minuti a farmi dimenticare che ero lì per fare lo studente.

“Ti accompagno alla tua aula – e cerca di memorizzare la strada.” Ignorai la sua risatina strafottente per osservare la marea di gente che, dalla scale, vedevo riversarsi nei corridoi per dirigersi alle loro lezioni successive.

Il viaggio verso l’aula comportò l’attraversamento dell’intera scuola, in pratica, e per di più sembrò durare secoli. Anche se non era possibile: ancora c’erano ragazzi ambulanti nei corridoi che chiacchieravano e mettevano via i libri nei loro armadietti. Forse perché percorrendo i vari corridoi, incrociai gli sguardi di molti studenti che mi fissavano stupiti, probabilmente chiedendosi da dove fossi spuntato fuori, con i miei capelli bianchi e la mia cicatrice appariscente. Fui tentato dal rimettermi su il cappuccio, ma non volevo attirare l’attenzione di Lavi, che però dal bagno di Delo era piombato in un silenzio sospetto. Mentre camminavamo, continuai a guardarlo con la coda dell’occhio, aspettandomi che ricominciasse a parlare da un momento all’altro, raccontandomi di un qualche bidello coi super poteri o un banco diventato un altare sacrificale in tempi remoti – non sapevo più cos’aspettarmi da lui.

Ma Lavi non parlò, e mantenne per tutto il tempo uno sguardo assente diretto avanti a sé. Mi chiedevo come facesse ad orientarsi con quel livello di concentrazione sui suoi dintorni – l’avessi fatto io, sarei potuto finire in un altro Stato.

“Eccoci arrivati,” disse Lavi all’improvviso di fianco a me.

Alzai la testa e notai che eravamo all’estremità di un corridoio pieno di gente e armadietti, identico a tutti quelli che avevo visto finora. Con mio rammarico, mi resi conto che ancora una volta non avevo idea di dove fossimo, impegnato come ero stato per l’intero viaggio a evitare le occhiate della gente e a chiedermi perché Lavi non parlasse. Stupido Lavi. Anche quando stava zitto causava problemi.

“Siamo al secondo piano del lotto B,” continuò dandomi un sorriso d’intesa. Fissai un attimo la porta blu davanti a noi, dalla cui finestrella potevo vedere un uomo di mezza età, dai folti capelli biondi che sembravano quasi stare ritti verso l’alto, e una barbetta incolta sul mento. Indossava un camice da laboratorio ed era seduto sulla sua sedia dietro la cattedra piena di fialette, becker e fornellini, intento a sfogliare un giornale.

Sentii distintamente un’ondata di panico invadermi il corpo. ‘Ma che diavolo, Allen, non sei mai stato così codardo in passato’, mi insultai liberamente a mente. Cercai di convincere il mio corpo ad alzare un mano per afferrare la maniglia, ma qualcosa mi bloccava.

All’improvviso, una mano calò sulle mie spalle. Voltai di scatto la testa e vidi Lavi che mi osservava con un’espressione che temevo essere compassione. Odiavo la compassione.

“Lo sai che non ti morde, vero?” mi prese in giro, ridendo sommessamente.

Alzai gli occhi al cielo, e mi scrollai di dosso la sua mano.

“Grazie, Lavi, mi hai chiarito un dubbio esistenziale,” lo informai pieno di sarcasmo.

Lavi sfoderò un ampio sorriso che ormai avevo imparato a temere, “Di niente, tappo.” E mi diede un colpetto sulla testa.

Lo guardai più torvo che potei, cercando di trasmettergli visivamente tutto il mio disprezzo e sottraendomi in un attimo alla sua mano, e con uno scatto aprii infuriato la porta della classe e mi ci fiondai oltre, chiudendomela alle spalle con un colpo secco e appoggiandoci contro la schiena.

Una volta dentro – dopo i primi secondi di magra soddisfazione per essermi allontanato da Lavi senza salutarlo – mi resi conto che avrei potuto evitare un’entrata del genere: il professore e gli altri studenti già presenti mi stavano fissando, alcuni con gli occhi sgranati e altri curiosi.

Odiavo Lavi – c’erano parecchie cose che odiavo quel giorno.

Sentii le mie guance diventare più calde, e in cuor mio sperai di non essere diventato paonazzo. Mi staccai dalla porta e mi avvicinai al professore, che aveva completamente perso interesse nel suo giornale.

“E tu chi saresti?” mi chiese educato.

“Allen Walker,” risposi, ignorando un paio di occhi sgranati in prima fila dietro due spesse lenti rotonde che mi osservavano senza pudore, “Sono, ehm, il nuovo studente…?”

Il professore aprì la bocca in una ‘o’ perfetta e si batté una mano sulla fronte, “Oh! Già, mi avevano avvisato del tuo arrivo, me n’ero dimenticato. Io sono Reever Wenham, il tuo professore di Chimica.”

Mi sorrise gentilmente, e indicò con una mano il gruppo di banchi davanti a lui. “Puoi sederti dove vuoi… Walker, giusto? Hai già i tuoi libri di scuola?”

Annuii, incerto. “Sì, ma oggi ne sono sprovvisto,” precisai imbarazzato.

Il professore scrollò le spalle, “Non importa, vai pure a sederti. Puoi guardare da quello di un tuo compagno nel caso. Ehi, voi, muovetevi ad entrare, la lezione comincia!”

Effettivamente dietro di me altri studenti erano entrati in classe e stavano avvicinandosi ai loro tavoli. Ignorandoli, mi diressi frettolosamente verso uno dei tavoli da tre vuoti a fondo classe e mi accasciai sul primo sgabello che incontrai. Mollai lo zaino a terra non prima di aver tirato fuori quel poco che c’era dentro, un quaderno nuovo e un lungo astuccio blu.

Proprio mentre prendevo in mano la penna, il professore si voltò verso la lavagna dopo il breve appello e cominciò a scrivere con il gessetto alcune formule chimiche, di cui spiegò il significato. Ma quando alzai la testa dal foglio pronto a copiare, notai una presenza accanto a me che mi fissava da dietro un paio di lenti rotonde, gli stessi grandi occhi nocciola che ero quasi sicuro di aver visto in primo banco poco prima.

Ehm… posso aiutarti?” chiesi a bassa voce, impacciato, alla ragazza davanti a me. Era abbastanza carina: era minuta, più bassa di me – grazie al cielo – e aveva, incorniciato da una chioma di crespi capelli castano scuro raccolti in due lunghe trecce voluminose che cadevano sul petto, un viso tondo che sembrava sempre un po’ sorpreso date le sopracciglia alte e inarcate e gli occhi che di natura sembravano costantemente un po’ sgranati, dietro la sottile montatura dei suoi occhiali rotondi.

La ragazza, inspiegabilmente, arrossì. “Ah, io… no,” si prese tra le dita la fine di una treccia e prese a tormentarla, “Volevo sapere se ti serviva aiuto con il programma di chimica e scienze.” Il suo volto si illuminò, prendendo più fiducia. “Sono brava sai. Ho preso quasi il massimo dei voti nell’ultimo test. Quindi se ti serve una mano…” la sua voce si affievolì e distolse lo sguardo, “posso aiutarti.”

Le sorrisi, pensando che fosse molto gentile. Effettivamente avevo perso alcune settimane di scuola a causa del trasferimento, quindi non ero esattamente al passo con il programma – per questo, ero entrato in classe con la ferma intenzione di prendere appunti senza tentare di capire. D’altra parte, quel giorno non mi sentivo molto in vena di stringere amicizie – non che amassi la solitudine, ma spesso trovavo faticoso e rischioso trovarsi nuovi amici.

La mia mente vagò inaspettatamente verso Lavi. “Grazie mille, è molto carino da parte tua. Ma non credo sia il caso di disturbarti tanto per me…” tentai di rifiutare il più gentilmente possibile.

La ragazza si morse il labbro con tanta forza che temevo l’avrebbe rotto.

N-no! Non è assolutamente un problema! Voglio dire, potremmo f-fermarci anche solo un pomeriggio in biblioteca, così ti spiego quello che non capisci…

Grazie… ma davvero, penso di potercela fare da solo. Non credo di essere rimasto molto indietro, infatti.” Contando che nell’altra scuola non avevo studiato quasi nulla, due mesi di programma non sembravano così impossibili da recuperare. Anche se si trattava di due mesi di tutte le materie. O magari sì.

La ragazza, d’altronde, sembrò demoralizzarsi. “S-scusa, non volevo insinuare che tu fossi stupido o qualcosa del genere… volevo solo…

Cercai di non ridere davanti al suo imbarazzo, che era una cosa parecchio dolce, e cercai di rimediare in qualche modo. “Non preoccuparti. Anzi, se tu ad esempio… ehm… potessi prestarmi degli appunti da copiare, te ne sarei grato.”

La ragazza divenne praticamente paonazza, e quando stavo per chiederle se si sentiva bene, mi sorrise con una tale intensità che ebbi paura le si dislocasse la mandibola.

“Assolutamente sì! Ho appunti di quasi tutte le materie, adoro prendere appunti, e credo siano anche fatti abbastanza bene, sono sicura che ti saranno utili quando dovrai studiare!”

Le sorrisi gentilmente. “Grazie mille… eh, il tuo nome?” Non riuscivo a ricordarlo dall’appello, anche se mi sembrava di ricordare fosse un nome particolare.

Rou Fa,” sussurrò con aria esageratamente felice la ragazza. Il nome mi suonava vagamente familiare, ma non capivo il perché. La guardai, un po’ stupito, “Rou Fa? Non è un nome cinese? Eppure non lo sembri fisicamente.”

Rou Fa rise, una risata sommessa e un po’ pastosa, ma piacevole. La vidi lanciare uno sguardo al professore, ancora intento a indicare alcuni dati alla lavagna.

“Sì, il mio bisnonno era cinese, ma l’eredità genetica è andata un po’ perdendosi… quello che di sicuro è rimasto in famiglia temo sia l’altezza.” Si inclinò verso di me, portando una mano alla bocca e abbassando ulteriormente la voce, “Tutti nani. Anche mio padre. Soprattutto mio padre.”

Ridacchiai con lei, cercando di non farci beccare dal professore. Notando che Rou Fa stava osservando la lavagna con la testa appoggiata sul palmo di una mano e l’espressione pensierosa, ne approfittai per riprendere la copiatura – andando un po’ a caso, per la verità.

“Senti, Allen…” mi sentii chiamare, e mi girai verso la ragazza, che si stava mordendo il labbro inferiore con espressione un po’ preoccupata e incerta. Di nuovo si stava tormentando l’estremità di una treccia con le dita, mentre le guance si erano ritinte di un lieve rossore.

Annuii, continuando a copiare, per farle capire che ero in ascolto e di continuare. Lei lanciò un’occhiata agli altri.

Intorno a noi, infatti, quasi si dessero in turni, continuavano a voltarsi verso di noi alcuni studenti, con facce curiose e sospettose – in particolare il ragazzo che stava accanto al posto precedentemente occupato da Rou Fa, si voltava più spesso del dovuto e continuava a indirizzare alla ragazza sguardi inquisitori e duri che venivano puntualmente ignorati. Pareva un po’ frustrato, in effetti.

Posso… posso chiederti come ti sei fatto quella cicatrice?”

Beh, non c’era da stupirsi. Prima o poi questa domanda, educata o meno, arrivava sempre. Anzi, ero stupito che Lavi non me l’avesse chiesto per primo, dato che sembrava alimentato da una curiosità quasi ossessiva. Quasi mi distrassi dalla conversazione, facendo improvvisamente caso al fatto che Lavi mi aveva fissato con tanto interesse ma alla fine non aveva chiesto nulla della mia vita o del mio aspetto, se non l’anno scolastico che frequentavo.

Misi su il mio sorriso migliore. “Ah, non è niente, solo un brutto incidente alcuni anni fa… e, se la tua prossima domanda è se i miei capelli sono tinti, no, sono naturali. Nessuna grande storia dietro, mi dispiace. E per i guanti, semplicemente mi danno conforto. Non esco mai senza, neanche d’estate.”

Rou Fa mi stava guardando come se fosse lì per bere ogni mia parola come fosse nettare. Mi sconcertava un po’.

O-okay, scusa se te l’ho chiesto,” balbettò imbarazzata, abbassando lo sguardo.

“Non fa niente, davvero. La gente me lo chiede spesso, ci sono abituato.”

Quando rialzò la testa, Rou Fa aveva un’espressione decisa che non mi aspettavo di vedere. “No, non è stato educato chiedertelo. E comunque,” e di nuovo si riportò la mano a coprire la bocca da sguardi indiscreti, “riferirò agli altri quello che hai detto così nessuno te lo chiederà di nuovo.”

Quasi risi davanti a tanta premure che non capivo perché mi fosse riservata. Questa ragazza era troppo dolce.

“Grazie mille, Rou Fa.”

 

 

   
 
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