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Autore: Pinguino a pois    04/08/2011    3 recensioni
Allora mi snervavano parecchie cose. A volte si alternavano, a volte ci si mettevano tutte insieme ad attentare alla mia esigua pazienza di adolescente sconquassato dagli ormoni. Quando penso a quel periodo, criticamente, constato sempre con un certo amaro in bocca quanto era arido il mio cuore.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Natale era vicino. Faceva freddo, più di quanto il clima di questo paesello potesse solitamente infliggerne. O forse era solo una mia impressione.
 
Lei se ne stava lì, a letto, sotto i nostri sguardi. Da parte mia c'era il disperato tentativo di tenere un sorriso allegro sulla faccia; probabilmente come risultato ottenni solo una misera smorfia: lei mi guardava attraverso gli occhi socchiusi, stanchi, di un verde troppo spento, ma mi riservava un’espressione terribilmente dolce. M’incitava tacitamente a lasciar perdere.
Fu l'ultima volta che la vidi. La sua immagine in quel frangente è rimasta tuttavia sempre ben impressa nella mia mente. Anche ora che ne parlo mi sembra di avere la scena davanti ai miei occhi ,tanto nitida che a volte mi sento tentato di allungare una mano verso quelle onde d'oro - una concessione che in realtà lei lasciava a pochi.
 
Gemma. Il nome diceva tutto. Sussurrava:
 
Ecco. Io sono il principio. Vengo prima del frutto e del fiore. Se io non esisto, non esistono loro. Sono delicata, troppo. Sono incompleta. Ma io posso lottare contro le intemperie e il freddo. Lasciatemi la possibilità di provare ad evolvermi, permettetemi almeno di combattere.
 
Non gli fu mai data questa gentile concessione da Dio. Sempre che esista davvero una simile figura, oltre gli strati di fervide credenze cristiane. Un Dio che "strappa i fiori più belli solo perchè gli servono" lo trovo, non me ne vogliano i Santi lassù, alquanto stupido. Primo: perchè se strappi il fiore, gli rechi in ogni modo un danno; e anche se così non fosse (cavolo, sei Dio), togli bellezza al giardino da cui lo prendi. Secondo: le erbacce saranno anche più difficili da sradicare, ma almeno quanto hai finito di divertirti col tuo perverso pollice verde, quaggiù staremo tutti un pò meglio. Oppure non gli piace la compagnia delle erbacce? Allora sarebbe un egoista; si, egoista. Farebbe meglio ad osservarlo dall'alto, il giardino, a vedere come crescono belli e forti i fiorellini; ma per quella che viene spacciata come Volontà Divina, come un bambino che pensa solo a divertirsi senza badare al guaio che di lì a poco andrà a compiere, fa 'ambarabàciccìcoccò' e con sommo gaudio mette sotto sopra la zolla di terra. Magari come sottofondo per il suo lavoretto ha anche il coro d’angeli che intonano l'alleluja più in voga del Paradiso.
 
Forse è colpa mia che non ho mai saputo accettare questa visione delle cose. A volte mi sento terribilmente cinico, a volte nichilista. Dovrei farmi buddista o cose del genere, o forse semplicemente darmi alla meditazione: forse ne gioverei in salute, sono sempre stato un pò isterico. Quando frequentavo ancora il liceo provai a parlarne con la professoressa di religione: la vidi in difficoltà, allora lasciai correre giusto per risparmiarle una gran figuraccia davanti a dei compagni insolitamente attenti; inoltre era anche una appena entrata nel giro, una precaria, e io mi sentivo un crudele fomentatore. Allora passai a quella che insegnava filosofia: quando gli feci la fatidica domanda "perchè anche i fiori più belli?" mi rispose con una scrollata di spalle. Quella fece più male del disastroso compito di matematica. Alla faccia degli educatori.
 
Era il mio periodo delle grandi domande, ma solo perchè non avevo altro da fare e decisi di lasciarlo arrivare. In realtà avevo smesso di frequentare la chiesa già dopo la prima comunione, a dieci anni, perchè ero troppo pigro per alzarmi di prima mattina e perchè la messa mi annoiava; ma la smania di fare davvero il logorroico aveva preso il sopravvento quando Gemma si ammalò.
 
Sostenevano che sarebbe stata una pianista promettente, e io ci credo. Prima che succedesse il fattaccio sinceramente l'avevo incrociata sempre e solo di striscio per le scale del pianerottolo, mentre io sbadigliavo-imprecavo contro l'ennesimo giorno di liceo e lei trotterellava allegra per recarsi al conservatorio. Io prendevo un solo pullman, dieci minuti ed ero a destinazione, dato che la scuola era in un paesino limitrofo; lei, se non aveva il passaggio dal padre, doveva stare un 'ora in treno e poi correre dietro ad almeno tre autobus di una caotica città. Ho sempre cercato di non fare simili confronti, perchè altrimenti mi sentivo male; non che ora vada meglio, quando ci penso.
 
Stavo dicendo che era promettente come musicista. D'altronde suonava almeno cinque ore ogni giorno, diffondendo puntualmente per il palazzo, tutti i pomeriggi, le canzoncine dei più rinomati musicisti: Strauss, Mozart, Paganini, chi più ne ha più ne metta. All'inizio mi snervava perchè quel tipo di musica mi portava ad una catalessi profonda; precisamente mi addormentavo sui libri o sul divano, e quando mi riprendevo davo testate allo spigolo della scrivania, suscitando le ire di mia madre che giustamente non aveva intenzione di comprarne un’altra solo a causa dei miei momentanei istinti suicida.
 
Pian piano però mi abituai a quel sottofondo. Era piacevole, a prescindere dal motivetto allegro o malinconico. Mio fratello iniziò a frequentarla con fidanzatina al seguito, e s'attaccò alla chitarra che io avevo prontamente abbandonato alla fine delle scuole medie. Ecco, lui che litigava con la scala di Do mi snervava davvero. Allora mi snervavano parecchie cose. A volte si alternavano, a volte ci si mettevano tutte insieme ad attentare alla mia esigua pazienza di adolescente sconquassato dagli ormoni. Quando penso a quel periodo, criticamente, constato sempre con un certo amaro in bocca quanto era arido il mio cuore.
 
Fatto sta che io questa Gemma non la conoscevo nel senso stretto del termine, o almeno finché non fu costretta a rinchiudersi in casa e a rinunciare agli studi. Io allora pensavo stupidamente: mi è sempre sembrata un pò troppo pallida, ma non credevo potesse essere rovinata fino a questo punto.
Mia madre e mio fratello evidentemente ne sapevano di più.
Mia madre insisteva che mio fratello dovesse andare a trovarla più spesso per farle compagnia; mio fratello, invece, senza più il suo solito sorriso beota, singhiozzava e scuoteva febbrilmente la testa. 
Anche quel tipo di scene mi seccavano, anche perchè alla fine io venivo usato come un oggetto da ricattare per l'assenso del figlioletto più giovane. In poche parole fui costretto ad andare anche io dalla pianista del quarto piano, con una torta ficcata tra le mani con ben poca delicatezza.
 
La cosa mi traumatizzò, e non poco. Era settembre, per me era iniziato l'ultimo anno scolastico, e faceva ancora caldo. Lei se ne stava seduta sul suo lettino, vestita con un pigiama verde mela che metteva in mostra le curve; aveva i capelli biondi e mossi che, poggiati sul cuscino, sembravano creare attorno alla sua testa una specie di aureola, e mani dalle dita sottili e nodose. Avrei trovato in quella ragazza una potenziale "preda"; anzi, diciamo che sarebbe balzata dritta dritta in cima alla mia lista; anzi, diciamo anche che sarebbe diventata l'unica della lista. Non l'avevo mai osservata attentamente, e mentalmente presi l'appunto di schiaffeggiarmi da solo non appena tornato in camera mia.
Questi pensieri furono prontamente soffocati quando mi ritrovai ad osservare gli occhi verdi spenti, appannati, il colorito cadaverico e il respiro troppo affannato. Fu quello a turbarmi. Era più giovane di me di un anno, ne aveva appena compiuti diciassette. Io fino a dieci minuti prima stavo imprecando contro l'Esame di Stato che di lì a nove mesi mi avrebbe investito; lei magari stava pensando se sarebbe sopravvissuta fino alla settimana prossima, e magari cosa voleva il biondino (ovvero io) che avrebbe fatto saltare un Idiotometro tanta era la stupidità che irradiava con la potenza di dieci giganti rosse.
La scena aveva qualcosa di grottesco. Tutto quel vigore giovanile soppresso con tanta crudeltà mi faceva orrore e ribrezzo, m’inquietava. Il mio castello di infantili convinzioni cadde, e i dubbi e le domande mi assalirono come un branco di parassiti che si azzuffavano per cercare il punto migliore da cui succhiare via tutto quello che ero.
 
Mi lasciai divorare come volevano. Durante l'ora e mezza che rimanemmo con quella ragazza, mi atteggiai come potevo a duro e, l'unica volta che azzardai ad introdurre un discorso, chiesi con nonchalance tutt'altro che meditata cosa fosse l'apparecchio sul comodino. Un defibrillatore. Fu una delle più grandi figure di merda che ricordo. Fortunatamente suscitai l'ilarità dell'altra, ma io mi sentii ancora più male.
 
Mi sono rifiutato di uscire dalla mia camera per tre giorni di fila. Se lo facevo, era per ciondolare come uno zombie o fino al bagno (il motivo credo si capisca) o fino alla cucina; recuperavo un pò d'acqua, la necessaria per non morire disidratato, e poi tornavo indietro ignorando le suppliche di mia madre. Si preoccupò tantissimo. Fu addirittura tentata di portarmi di peso da uno psicologo/psicanalista/chiunque potesse scuotermi dal mio stato di torpore. A volte ci si metteva pure mio padre, urlando contro la mia porta, con la sua adorabile finezza: "Che cazzo è successo al tuo atteggiamento imperturbabile?". Non mi ero mai dato a simili sentimentalismi, o come li vogliamo chiamare. Prima quella domanda non mi avrebbe toccato minimamente, anzi; magari sarei uscito dalla camera solo per dirgli: “Padre caro, di grazia, non usi un linguaggio così scurrile”. 
 
Fui colpito da quell’incontro come un pugno dritto in faccia. Per chi vive un’esistenza, per così dire, ordinaria, sarebbe come cambiare i ritmi della propria giornata da un momento all'altro. 
Forse non sono in grado di spiegarlo adeguatamente con le parole. Non fui sconvolto dall'idea della morte in se. Dopotutto avevo visto morire la mia nonna materna circa quattro anni prima. Tuttavia l'impatto era diverso: per quanto potessi trovare la cosa ingiusta, la nonna era anziana; era necessario che morisse perchè il suo "ciclo", chiamiamolo così, era finito; "aveva dato ciò che doveva al mondo", come diceva mio padre. Nel caso di Gemma riuscivo a trovare la cosa solo ingiusta. Non riuscivo a capacitarmi che una tale luce, una luce che tra l'altro io mi ero ostinato a non voler vedere - e con essa chissà quante altre! - potesse essere spenta tanto banalmente.
Non che non sapessi che, ogni giorno, morivano migliaia di bambini in tutto il mondo; ma spesso certe realtà sono così lontane che, per quanto possiamo mostrarci tristi e compassionevoli, non ci toccano davvero. Io l'avevo appena capito, ma solo perchè quel tipo di realtà mi era stato catapultato davanti agli occhi. E mi sono sentito uno schifo per l'imperturbabilità che avevo ostentato nei confronti di quel tipo di tragedia, nei confronti di tante altre cose.
 
Il peggio, pensavo, è che io avevo vissuto quasi vent'anni ignorando tutto ciò; ero vissuto benissimo, a mio parere, con quella cazzo di imperturbabilità. Potevo vivere o no con quella consapevolezza, ma in realtà non cambiava nulla. Nel mondo ogni giorno ci sarebbero state migliaia di gemme bruciate, calpestate, appassite, distrutte dal vento e dalle intemperie. 
Tutto ciò mi mise un’infinita tristezza addosso. E anche un senso nauseante di inutilità. Poi vi sostituii una diversa forma di indifferenza, perchè finalmente una mattina decisi di uscire dalla mia camera e di andare a scuola.
 
Ancora oggi non so spiegarmi come feci, da dove presi quella forza. Forse era perchè avevo perso tutto ciò che ero. I parassiti del dubbio e dalla domanda avevano smontato tutte le sovrastrutture del mio essere: le convenzioni, le religioni, i pregiudizi. Rimaneva la struttura, l'anima, com’era; ma era solo una semplice fiamma che aspettava di essere rinchiusa in una nuova gabbia. Io ero pronto per costruire un’altra gabbia. L'unica cosa che tacitamente speravo era che la nuova fosse più bella e confortevole della precedente.
 
So per certo che non ho trovato qualcosa di positivo a cui aggrapparmi, una grande verità che illuminasse a giorno la mia esistenza. Non ho trovato l'istinto eroico di voler salvare il mondo, o tutti i bambini che morivano, mentre io mangiavo un biscotto imbottito di conservanti. Era inutile, dopotutto; era inevitabile. In qualche modo, per qualche oscuro motivo, doveva succedere come succedeva alla persona troppo anziana: per una malattia o per un proiettile nel petto, per fame, per qualunque cosa. Siamo caduchi. Siamo fragili. Siamo mortali. Siamo imperfetti. Siamo umani.
 
Ecco, forse è stato questo a farmi rialzare: l'idea che, almeno, se dovevo crepare anche io (che fosse tra cinque minuti o a novant'anni, con la bava alla bocca e la prostata più gonfia di un pallone da calcio), non avrei avuto rimpianti. O almeno non troppi. La stupidità della maggior parte dell'umanità consiste nell'anelare a cose sostanzialmente impossibili, o a non vedere la bellezza di quello che hanno/ottengono per cercare "di più". A volte viene addirittura involontario.
 
Tutti questi erano i lambiccamenti fatti in quella cameretta. Da lì ne uscì un ragazzo diverso, quello che sono io oggi, ormai a cinque anni da quell'episodio. Forse non sono migliore, ma sono diverso. A me basta. La morale borghese del bene e del male non fa per me. Finisco solo per incartarmi e parlare della mia visione soggettivista estremizzante.
 
Dopo la scuola tornai da Gemma. Così accadde il giorno successivo, e l'altro ancora. Andavo tutte le volte che potevo, quasi tutti i giorni, mentre mio fratello si limitava a sporadiche apparizioni: inizialmente lo accusarono di essersi interessato a lei solo per le sue "doti", e di averla abbandonata come un giocattolo rotto quando non sembrava più tanto cool. Io capii che la scena di quella ragazza che guardava nostalgicamente il pianoforte e che, a volte, in preda all'esasperazione e alla rabbia, lanciava per aria tutto quello che gli capitava tra le mani tremanti ... era troppo per lui. Soffriva per quella persona e non riusciva a vederla in uno stato del genere: spesso non ci si abitua all'idea che, spenta la luce, ci sarà solo oscurità. Allora era un mocciosetto: se anche fosse stata vera la prima opzione, non mi sentivo di biasimarlo del tutto. Ma io sapevo quanto le voleva bene: ogni volta che tornavo mi prendeva da parte e chiedeva angosciosamente di lei.
 
Il cuore di Gemma, stremato e a pezzi, smise di battere il 21 dicembre dell'anno successivo. Ero appena tornato dall'Università, in procinto di comunicargli entusiasta il voto del mio primo esame.
   
 
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