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Autore: xNewYorker__    11/08/2011    2 recensioni
«Tra tutte le persone di questo mondo, perché a lui?» Chiese Booth, dando un peso assurdo a tutte quelle lacrime riversate sulla camicia. «Conosco i rischi del mio lavoro, ma non pensavo arrivassero a tanto.» Brennan lo guardò. «Pensi che l'abbiano guardato in faccia? Svegliati, Booth!»
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Parker
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Broken Bones'
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Codardo, codardo, codardo. Questa parola risuonava nella mente di Booth come gli spari precedenti alla voglia di lasciare l’FBI. Bones. Gli occhi verdi azzurri dell’antropologa gli apparvero improvvisamente sotto gli occhi. Si sentì immergere in una pozza di qualcosa che inizialmente non comprese. Lì per lì, dal calore emesso dal liquido, gli parve sangue. Eccolo che sperò vivamente che fosse il suo. Un’ombra di terrore apparve nei suoi occhi sbarrati di fronte alla scena della donna a terra. La consapevolezza che avrebbe visto quegli occhi pieni di luce per quella sola, ultima volta gli fece spezzare qualcosa dentro. Urlò. Urlò più forte che poteva. Non poteva, non doveva finire così. Realizzò solo in quel momento che, dopo Parker, Bones era tutto per lui. Tutto ciò che aveva mai desiderato, e tutto ciò che aveva mai ottenuto, pur non essendosene reso conto prima. La scena gli rimase in mente e sotto gli occhi, mentre cadde pesantemente in ginocchio, e quella parte dei jeans s’inzuppò di sangue. Il rumore delle ossa che facevano peso sull’asfalto bollente lo fece raggelare dentro, ma non più della visione precedente. Le sue urla raggiunsero qualcosa. In lontananza una figura che non riconobbe sembrava avvicinarsi, ma si accorse ben presto che prendeva la direzione opposta. Imprecò qualcosa, mormorandola, e portò le mani sulle spalle della donna, provando a strattonarla per farla riprendere. L’ultima luce comparve nei riflessi azzurrini degli occhi, vicino alle pupille. «T-ti prego B-Booth…» un sospiro, prima che l’ultimo soffio d’aria della vita le entrasse nei polmoni. «G-guardami…» L’uomo iniziò a fissare i suoi occhi che stavano per spegnersi, ma non riusciva a riconoscerli o a scorgerli tra la tendina di lacrime che percorrevano ormai il suo viso fino al collo della t-shirt marrone. Un rivoletto finì sulla manica. «Promettimi…che…non…mi dimenticherai mai…» Lui fece cenno di “no” con il capo, reggendo il suo con la mano sinistra, le dita tra i capelli ondulati, e le nocche che sfregavano violentemente sul crespo asfalto scuro. Allora il respiro venne a mancare, e la testa divenne pesante da reggere. La mano si distese, pur stando ancora a toccare i capelli. «Bones…» Un sospiro muto. «Bones…» nessuna risposta. «BONES! DIAMINE, SVEGLIATI! NON PUO’ FINIRE IN QUESTO MODO, NON POSSO PERDERE ANCHE TE!» e con questa frase, urlata al vento, che si perdeva nella chiara assenza di un’anima vivente, il busto venne gettato all’indietro, provocando un lancinante dolore alla schiena, ignorato per via di quello più grande provato sul lato sinistro del petto. Ecco che il tempo si bloccò totalmente, e un soffio di vento freddo gli raggiunse i capelli. Fu gelido, nonostante il giorno fosse estivo. Si sentì gelare per via dei rivoli di sudore che iniziavano a scorrere lungo tutta la fronte, raggiungendo le sopracciglia e fermandosi.
BOOM. Un’esplosione, e scomparve tutto. Tutto nero.
Codardo, infame, incapace, incosciente. Le ultime parole prima del nulla più totale. Nulla, completamente.
 
In una pozza di sudore bollente, l’agente Booth si svegliò di soprassalto, mettendosi a sedere e portando le gambe verso il petto. Il respiro era affannoso, e l’incubo non voleva proprio sparire dalla sua testa. Il nome di Bones continuava ad echeggiare senza sosta, non dandogli un attimo di tregua. «BONES!» Esclamò, in preda al panico, scattando in piedi e correndo per metà dell’appartamento con i soli pantaloncini neri addosso. Si bloccò di fronte ad un tavolinetto, dove stava un bigliettino lasciato dalla collega l’ultima volta che si erano visti. “Calmo, sono sempre con te. – Bones”. Fu un po’ incredulo al leggere il soprannome dato da lui stesso alla donna. Inizialmente sembrava detestarlo, ma poi si era abituata al fatto che fosse in realtà un segno d’affetto. Era così terrorizzato dall’immagine di quella donna forte a cui teneva così tanto, a terra, che non riusciva neppure a sorridere all’enigmatica frase impressa con la calligrafia elegante in stampatello minuscolo, lievemente pendente a destra, su quel foglietto rimediato alla bell’e meglio. Provò a riprendere fiato, come ricordava avesse fatto Bones prima di esalare l’ultimo respiro, ma a sua differenza lui ci riuscì senza troppi problemi. Le spalle non si fermavano, facendo sempre su e giù per i movimenti all’interno della cassa toracica. Doveva assolutamente trovarla.
 
La mattinata era fredda. Erano solo le sei, e l’umidità si faceva sentire in modo non poco fastidioso. Pattugliava la zona dove ricordava di essere stato il giorno precedente, prima di quello sparo che l’aveva reso così irrimediabilmente insicuro. Tacque. Non c’era completamente nessuno. Era pur sempre a Washington, qualcuno doveva pur esserci. Si guardò intorno, ma non c’era nessuno per davvero. Pochi passi dopo si rese conto di essere sul luogo della scena che aveva sognato. Si scosse, per evitare che quel pensiero gli impedisse di respirare e di proseguire. La macchina era accanto a sé. Vi salì e inserì le chiavi, partendo praticamente a passo d’uomo. Qualche chilometro oltre quella strada orribile, riconobbe una figura. Aprì il finestrino e la preoccupazione sparì in un istante. Bones! Ma certo, era lei, nella sua elegante giacca che stava a coprire la sua camicetta bianca preferita. Le si sarebbe gettato addosso, in altre occasioni. Ma doveva mantenere un certo distacco professionale, in ogni caso. La donna si rese conto di averlo davanti, ma solo pochi istanti dopo capì chi realmente fosse quell’autista sorridente col finestrino abbassato. Affrettò il passo in sua direzione, e aprì lo sportello, sedendosi al lato del passeggero. Lo richiuse e, senza emettere un suono, abbracciò Booth, tenendolo stretto per i seguenti due minuti. «Bones» fu la parola che spezzò quel silenzio così pacifico e piacevole. Lei si staccò e gli sorrise. «Stavo per impazzire.» questa frase seguì il nome della donna, ma fu pronunciata quasi a denti stretti. L’emozione lo pervadeva, e non riusciva a trattenersi. Avrebbe voluto abbracciarla senza la possibilità di lasciarla più un attimo per tutta la vita. Stava per fare un movimento verso di lei, quando sentì il suo respiro farsi pesante, e si rese conto che stava per proferire qualcosa, probabilmente qualcosa di rilevante. «Hai il caso.» Tre parole che riassumevano tutto, e che aumentarono in lui la voglia di abbracciarla e di non lasciarla più per nessuna ragione. Si trattenne anche stavolta. «Bones, io…grazie.» a questo punto non riuscì a frenarsi, e si lanciò verso di lei, stringendola forte. Lei ricambiò l’abbraccio, senza dapprima comprendere il motivo di tanta enfasi. «Hey, sono Temperance Brennan, sapevi che te lo avrei fatto ottenere.» Per quanto triste, la battuta improvvisata dall’antropologa sembrò spazzare via quel ricordo orribile dalla mente di Booth. Fece cenno di “no”. «Non immaginavo saresti stata via una settimana e mezza per farmi ottenere un caso.» «Non è un caso, Booth. Dovevo farlo.» L’espressione era seria, ma era davvero felice di averlo potuto aiutare. Le labbra di lui si sollevarono appena in un tacito sorriso stracolmo di gratitudine. «Non so cosa farei senza di te. Ho avuto così tanta paura di…» si bloccò, ma venne incoraggiato da lei a continuare. «di perderti, Bones. Ho avuto un incubo terribile…e realistico. Per un istante ho davvero pensato che tu potessi…lasciarmi.» Tacquero entrambi per tre minuti buoni. «Sono ancora viva, Booth. Non potrei mai, dico mai lasciarti. Non lo farei comunque. Neanche se mi costringessero. Non lo farei e basta, perché io ti…» questa volta fu lui ad incoraggiarla a continuare. «voglio bene, fin troppo.» Quelle parole, dette così d’improvviso, non sembrarono credibili alle orecchie di nessuno dei due. Un sospiro. «Ti amo, Bones.» Questa frase fu detta, però. Fu detta per davvero. Inizialmente voleva fingere di non averlo fatto, di non aver esternato tutto così, in quel modo assurdo. Ma poi si rese conto di aver fatto la scelta migliore. O adesso o mai più, si era detto. E aveva fatto bene. Lei non sembrava averla presa male. Pian piano si avvicinarono, prima poco, poi sempre di più, fino ad arrivare a baciarsi. Fu diverso, però. Non come le altre volte. Le altre due volte, mica così tante. A loro però non importava, e questo era fondamentale. A loro non importava di niente.
 
Passarono abbondanti dosi di minuti prima che Caroline Julian mettesse piede all’interno dell’area laboratorio del Jeffersonian Institute. Erano tutti riuniti dietro il tavolo “da lavoro” della dottoressa Brennan. Sui loro volti c’erano dei sorrisi pieni di gioia, gratitudine e sollievo. Angela stava decisamente meglio, ora che la migliore amica era in salvo proprio accanto a lei, ed Hodgins condivideva la sua gioia nel modo migliore possibile. Il resto dei colleghi erano semplicemente felici che al loro “master” non fosse successo nulla di male. Tenevano troppo a lei, più di quanto avrebbero mai ammesso. Booth stava accanto alla collega in silenzio, felice come prima, quasi senza pensieri. Anche se quel vuoto all’angolo del cuore non se ne sarebbe andato neppure al momento della risoluzione del caso. Sarebbe andato rimarginandosi, ma non sarebbe mai del tutto scomparso, mai. E ne era consapevole. Lui come Bones.
I passi del giudice si avvicinarono, facendosi più pesanti. Lo sguardo severo era ancora più marcato dalle rughe attorno agli occhi, che la rendevano sempre aggressiva e perennemente accigliata. «Sono qui per parlare con la dottoressa Temperance Brennan.» Annunciò. Brennan fece un passo avanti, sicura. «Mi dica.» «Venga con me.» Dal tono e dalla proposta sembrava quasi come se volesse portarla in qualche posto importante, per dirle qualcosa di fondamentale evitando di umiliarla di fronte agli altri. Booth non era sicuro, quando le vide allontanarsi per sparire nel lungo corridoio, dirette alle scale del piano di sotto. Anche Angela era preoccupata, e teneva le braccia conserte, in un momento di riflessione, e gli occhi socchiusi.
 
Al piano di sotto, Caroline Julian era sempre più severa nel suo sguardo diretto alla dottoressa. E lei sembrava consapevole di aver fatto qualcosa di sbagliato. Consapevole fino a un certo punto: non comprendeva quale fosse il cosiddetto “corpo del reato”.
«Lei ha fatto affidare all’agente Booth un caso non di sua competenza.» «Usciva dai limiti dello stato, era di sua competenza.» «Sa cosa intendo. Parker era suo figlio.» «Booth saprà lavorare con tutta l’obbiettività necessaria.» «No. Non saprà farlo. Io lo conosco da molto prima. Dottoressa, doveva evitarlo. Gli ha dato una speranza, e il colpo di non poter risolvere una volta per tutte questo caso per lui fondamentale lo ucciderà. Questo lo sa anche lei.» Brennan esitò. «Ce la farà. Lei non crede in Booth quanto ci credo io.» «Vuole scommettere? Io lo conosco davvero bene. Voglio evitare che soffra.» «Signora Julian, non sembra neppure lei. So che avrà pace solo dopo averlo risolto. Deve trovare gli assassini di suo figlio. Deve. Ne va della sua vita. Psicologicamente parlando.» «Adesso è lei a non sembrarmi in sé, dottoressa. E’ coinvolta anche lei. Non è più distaccata come i primi tempi.» «Senta, lo lasci lavorare. Lo metta alla prova: la stupirà.» In quell’istante, perfino la Julian aveva capito quanto sia Brennan che, a quanto le era stato detto, Booth, tenessero a risolvere quel caso. Non si sarebbero mai arresi, non senza lottare. Erano ostinati, ce l’avrebbero fatta anche a costo di farsi licenziare…o uccidere.
   
 
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