Capitolo 8
Ancora tu
Il sole sorge lentamente,
irradiando un viso rilassato tra le braccia della notte. leggere tinte rosa e
oro bagnano palpebre abbassate, un piccolo naso, capelli arruffati. Le labbra
sottili di un uomo maturo. Le guance crespe di barba incolta per pigrizia. Una
sottile cicatrice bianca gli riluce sul labbro inferiore, dove una caduta più
violenta delle altre aveva segnato tante cose. Non la noterebbe un occhio
disattento. Infondo si è rimarginata, come molte altre cicatrici nel suo cuore
o sulla sua pelle. Il dolore sembra lontano da quell’uomo, nonostante anche la
gioia sembra averlo abbandonato. Si gira tra le lenzuola fredde, tentando di
liberarsi dalla presa delle sottili dita del sole che gli pizzicano le ciglia,
per levarle come un elegante sipario. Nasconde il capo sotto il cuscino, e con
un roco rantolo riprende a dormire. Le spalle larghe e le gambe lunghe sbucano
appena da sotto le coperte. Muscoli abbandonati alla loro sorte, mai più
sfruttati. I raggi insistono, giocano sulla sua pelle bianca, si rincorrono tra
le pieghe del lenzuolo, si tuffano nello spiraglio del cuscino. Il giovane uomo
rinuncia a dormire e abbraccia solo il guanciale. Lo stringe con forza,
sfregandovi sopra la guancia. Cerca in qualche modo di sentirsi meno solo.
L’orologio segna le 5. è presto, prestissimo… richiude gli occhi, abbracciando
meglio il cuscino. Tentando invano di convincersi di avere tra le braccia il
bianco corpo della sua ragazza d’un tempo, di una ragazza qualunque magari, ma
una ragazza vera. non come quelle che hanno popolato le insonni notti degli
ultimi anni: colleghe, amiche di amici, giovani e piene di pallide speranze.
Non come lei, non come il suo amore pieno di vita, non come il suo sorriso
luminoso. Non come la durezza del suo sguardo, la passione dei suoi baci…
riapre gli occhi. È buffo come in qualunque momento lei riesca a trovare uno
spiraglio nella sua mente, a invaderla con prepotenza. Ci era sempre riuscita.
Dalle labbra dell’uomo si leva una roca risata. Si alza, e il lenzuolo scivola
sul suo dorso nudo, ampio e forte, i raggi del sole accarezzano le piccole
ciccatrici, definiscono quelle addominali nascoste dagli anni, dagli hot dog,
dalle cene, dalle pizze. Si stiracchia, il cuore che batte con calma, i polmoni
distesi. Calmo, stranamente. Felice, forse. In quel suo modo perverso di
esserlo. Fiero della sua solitudine, o solo semplicemente arrogante. Come era
sempre stato, si dice. Ride. Ma non gliene importa. Anche quella falsa visione
della felicità gli basta. Della tranquillità. Quella che una volta poteva anche
pensare di provare, forse.
Ironico il destino. Proprio
quando le cose si mettono davvero male uno trova la forza di essere felice. Ma
lui non l’ha trovata. Lui se l’è imposta. Non importa. Almeno a se stesso può
ancora fingere. Si alza, i boxer a righe che gli ricadono appena sulle gambe e
va in bagno.
si butta sotto la doccia,
accarezzandosi i capelli che sgocciolano sotto le sue dita, caldi rivoli
d’acqua che gli bagnano il collo.
si veste in maniera anonima,
quella degli ultimi 10 anni. Pantaloni blu, camicia bianca, giacca. Squote i
capelli, che gocciolando assumono una piega informe sul suo capo. E poi li
pettina con calma per dar loro una forma. Oggi ha una riunione importante.
una riunione importante… come
suona ufficiale. Sorride, orgoglioso di se. Di come immensamente è riuscito a
cambiare per tentare di rendersi felice. Felice… che brutta, orribile parola.
La ricaccia sul fondo della sua mente stufa, ma tranquilla, si ripete.
Tranquillo, sono tranquillo. va in cucina. Caffè, porrige, succo di zucca,
giornale. Le cose possono cercare di cambiare la sua vita, di cambiare il
mondo, di cambiare lui… ma certe cose non cambieranno mai. care vecchie
abitudini. E le sue ormai sono diventate parte di un nuovo piccolo rito
quotidiano. Apre il giornale, lo sfoglia con calma. Parole su parole si
rincorrono verso un nuovo giorno. Nuove, sempre nuove. Nessuna novità, infondo.
Guarda la data sul giornale. Sorride appena. Sì, allora è successo. Chiude gli
occhi, immaginando scene che non avrebbe mai voluto perdersi. Rancore e rabbia
improvvisamente asciugano le sue labbra. Ma non gli importa. Ha fatto la cosa
giusta, infondo. Ha permesso a tutti di ricominciare, a tutti quelli che
contavano per lui, a tutti coloro che contano ancora. Cos’avrebbero visto nei
suoi occhi, giorno dopo giorno, se fosse rimasto? Un uomo tormentato, distrutto
dalla guerra, straziato dal dolore. Un uomo privato della luce del sole. Lo
avrebbero compatito, mentre sprofondava comunque solo nel baratro della sua
stessa tristezza. Almeno li ci era finito da solo. E da li, sul fondo di quel
baratro senza via di fuga, può ancora sentire il dolce suono delle loro voci,
delle promesse, il baluginare dei ricordi. li può vedere, anche se non li può
sfiorare. E può sperare per loro in un futuro migliore di quello che la vita ha
riservato a lui.
si alza, e si avvia a lavoro.
Auguri piccolina.
John ha le tempie che pulsano
appena. Mal di stomaco. Deve smettere di mangiare quelle orribili pizze
surgelate e di bere quelle squallide birre economiche. Un sole spettrale è
accostato all’orizzonte, appoggiato nel bianco latteo della neve ancora a
terra, nell’azzurro terso del cielo. Lo splendido azzurro che si riflette anche
nei suoi occhi, mentre cammina per le strade un po’ affollate di gente della
città. Gli studenti si avviano a scuola, ridendo. Gli urletti civettuoli delle
ragazze, quelli rochi dei loro amici. Mani unite, baci fugaci, sorrisi. Parole.
Preoccupate, arrabbiate, felici. Ma sempre parole. Per loro, giovani speranze
del futuro del mondo. per loro, divertenti imprenditori del domani, divertiti
protagonisti del presente, di storie tutte da vivere, destini ancora da
scrivere. John vorrebbe essere ancora così. Sorride a una laureanda che lo
guarda chiacchierando con un’amica. È bella: lunghi capelli color dell’ebano
scivolano sul suo collo, un viso luminoso tagliato da un ampio sorriso, grandi
occhi freddi e vivi segnati dal trucco ma da nessuna esperienza. La neve
intrappolata sui suoi scarponi rende quei jeans griffati meno eleganti, ma la
posa della sua mano sul fianco le restituisce un po’ di regalità. John prosegue
senza guardarla oltre, ma avvertendo ancora il pizzichio dei suoi occhi sulla
nuca. Occhi che vorrebbero uscire, labbra che vorrebbero baciare. Sorride al
vuoto, orgoglioso di quel piccolo successo.
Gli piace la mattina. Così
piena di speranze per la giornata, così frizzante nell’aria tersa, così
colorata. Proprio come quei ragazzi e quelle ragazze, in fondo.
-ehi, scusa! Ehi!
si volta. La ragazza dai
lunghi capelli di pece gli si avvicina. Quel colore scuro gli stringe un po’ il
cuore. Aveva conosciuto una sola persona nella sua vita con i capelli così, e
ricordarla ora gli fa girare un po’ la testa.
-chiami me?- chiede,
sorridendo.
La ragazza si lecca le
labbra, morbide e carnose, rosse sulla sua pelle lattea. –sì, esatto.
Jonh si mette una mano trai
capelli, come fa sempre quando non sa cosa dire.
-mi chiamo Anne.
-piacere, sono John.
Anne sorride, e gli occhioni
di ghiaccio risplendono nel bagliore flebile del sole lontano. –oggi ho la
prima ora buca, mi chiedevo se ti andasse una colazione.
Colazione… quante colazioni
vissute in tempi diversi, momenti diversi, diverse persone. Adesso, una giovane
sconosciuta gliene propone una così, di punto in bianco. Jonh è indeciso, per
un lungo minuto non sa se accettare. Poi annuisce.
-certo che mi va. Vieni.
Lei sorride radiosa, e John
non ci può credere. Un simile sorriso, per lui. credeva di non esser più
guardabile da nessuna. Cerca di rievocare il proprio viso, ma sono mesi che non
si guarda allo specchio.
-da dove vieni?- chiede Anne,
allegra, prendendogli un braccio e tirandolo in un piccolo bar.
-io? Da Londra.
-inghilterra… che bello.
-tu sei nata qui?
Anne annuisce. –sì. Tu invece
sei qui da 10 anni. Mi ricordo quando sei arrivato. Noi ragazze ti abbiamo
seguito un po’ per capire chi eri.
-e l’avete capito?
-no, per questo alla fine tu
mi hai chiesto di uscire.
-ma io non ti ho chiesto di
uscire.
-lo farai, dopo colazione.-
si siede e accavalla le lunghe gambe magre.
Ordina un caffè, e John un
thè. L’uomo sorride.
-allora, questa sera?
Anne sorride maliziosa,
rigirando il latte nel suo caffè. –volentieri. Vieni da me?
John annuisce. –dove stai?
-West Road al 12.
-alle 20.00?
-perfetto.- il suo sorriso malizioso, si allarga e brilla appena, illuminandole
i grandi occhi di ghiaccio.
Piccola mia,
quante lettere, inutili,
stupide, ti ho scritto negli ultimi anni. Vorrei poterti ricordare ancora
com’eri quando potevo vivere dei tuoi sguardi, giorno dopo giorno. Ma ho
dimenticato tutto. ti vedo come una macchia di colore, di profumo, di calore,
di vita, d’amore. Ma anche se mi ci concentrassi non potrei più disegnare il
tuo viso.
Perdonami. E non solo per
questo. Ogni giorno ti chiedo scusa nella mia mente, per averti mentito, per
averti lasciata, per aver tentato di chiudere la porta che mi separava da te,
per aver buttato quella chiave così come ogni sera butto le righe che ti
scrivo. Eppure, parlarti oggi è proprio come allora: splendido, come il ricordo
che ho di te. Mi perdonerai mai? domanda futile. Noi non ci rivedremo mai. non
ti sfiorerò più, bacerò più, abbraccerò più. forse mi sento così perché questa
mattina mi sono sentito vecchio, per la prima volta nella mia vita, ho sentito
che non avevo più tempo. Il che può sembrare ridicolo, se a trent’anni hai
fatto tutto quello che ho fatto io. È vero, è stupido, ridicolo. Ma non posso
farci nulla. L’ho pensato. Ti ho intravvista, nella nebbia confusa di tutti i
miei ricordi. ma non eri la ragazza che ho salutato. Non eri quel corpo pallido
accucciato nell’erba, quei bei capelli soffici. Non eri quella splendida ninfa
delle foreste del mio arido cuore. Eri come avrei voluto viverti. Elegante, con
un vestito blu e bianco, i ricci tirati, in uno chignon un po’ rigido, il viso
truccato di toni scuri, un bel sorriso. Ti ho vista mentre mettevi nel piatto
di tua figlia la cena, passavi la mano sottile trai capelli del tuo perfetto
maritino, che si voltava appena per baciare le tue labbra rosse. Ho sofferto
per quello spiragio su quella che di certo oggi è la tua vita. Te la sei
meritata, tesoro mio. Sì, te la sei meritata. Quando ho deciso di non tornare
sui miei passi, ti ho augurato di diventare la bella donna di successo che ti
meriti di diventare. Spero che tu ci sia riuscita. A superarmi, a superare
tutto. piccola mia. Non sai quanto ti devo. Per quei pochi giorni in cui
abbiamo potuto essere semplicemente innamorati… vivo in quel ricordo di noi
adolescenti, felici, ubriachi d’amore. Piccola mia. Un solo istante, resta qui,
uno solo ancora. Non te ne andare. Non mi lasciare anche oggi. Anche solo il
tuo ricordo, proiezione nel tempo che scorre. Resta ancora un secondo prima di
volare via.
La porta si apre, e Anne
sorride radiosa alla vista di John, in piedi davanti a lei. Lo studia, per un
lungo minuto, senza parlare. Non ci può credere. Dopo tanti anni, adesso lui è
li. Quei limpidi occhi azzurri velati di tristezza e quel bel sorriso pieno di
rancore. Quei morbidi capelli luminosi. Avanza appena e gli bacia una guancia,
pericolosamente vicino al labbro. Lui le restituisce il bacio con dolcezza,
pacato e morbido.
-ciao…- sussura lei, roca. Le
trema appena la voce. Si sente di violare qualcosa, si sente illegale, stupida.
Si sente una squallida amante, una piccola illusa, e non si spiega il perché.
Lui è li, solo, da 10 lunghi anni. Mai una donna è riuscita a superare il primo
imbarazzato silenzio che lo avvolge, quell’alone di misteriosa tristezza, di
ricordi inenarrabili. Gli prende il braccio e lo tira al caldo, nel suo piccolo
salotto accogliente, scaldato dal camino. Le pareti ambrate e i mobili pieni di
libri e oggettini. L’appartamento di una ragazza che si sta per laureare, una
giovane e intraprendente ventenne. Sorride ancora, e lo illumina. John sente il
suo cuore battere in maniera nuova: colpevole, irritata, desiderosa. Si sfila
il giubbotto e lei lo prende tra le braccia. –lo metto di la.- dice piano.
-certo. Come stai?
-bene, bene. tu? Buona
giornata?
Lui annuisce. –normale.
-anche la mia. Troppo, fino
ad adesso.
John sorride alla sua
malizia. Lo intenerisce, e in qualche modo lo riempe di altro nuovo desiderio e
di altro nuovo senso di colpa. Lei torna, saltellando appena. In mano ha un
accendino. Si china su delle candele e le accende, la mini di stoffa che le
scivola sulle gambe nude, la magliettina le fascia bene il seno sodo e morbido.
John sorride ancora.
-speriamo.
Lei ride, -hai fame?
-sì, tanta.
-vieni, ho preparato una
pasta.
Si siedono ai due lati di un
tavolino tondo, dove lei ha già servito due abbondanti piatti di pasta fumante.
Versa il vino, lo sorseggia, sorride.
-allora, cosa stai studiando?
Anne appoggia il calice.
–lettere moderne. Voglio fare la giornalista.
-che bello.
-sì, molto.
-quando ti laurei?
-a maggio.- sorride. –poi
sarò libera dalla scuola, finalmente.
John sorride. –e poi ti
mancherà un sacco.
Anne ride. –da quanto l’hai
lasciata?
-troppo… sono passati 11
anni.
-11?
-sono vecchio io.
-quanti anni hai?
-30.
-vecchio? Dai! Io ne ho 24.
-non lo volevo sapere.
Anne ride, si mette una mano
trai capelli e mangia un boccone di pasta.
-fingi che non te l’abbia
detto.
Anche John ride. Parlano.
Discorsi casuali, così come arrivano. Parole senza senso, si esplorano, si
conoscono, si sorridono. Parole, frasi sconnesse, eventi lontani, sogni futuri.
Domane qualunque, per un tempo lungo, lunghissimo. E John si sente vuoto,
libero, felice.
Poi lei pone l’unica domanda
che non voleva sentirsi porre:
-cosa ti ha portato qui?
Lui mette giu la forchetta,
mentre i suoi occhi si perdono lungo l’ondeggiare della fiamma tra di loro. Un
peso gli sprofonda nello stomaco.
-una donna?
Non risponde. La fiamma
ondeggia, balla sul viso di Anne, le colora di fuoco i grandi occhi azzurri.
-non vuoi dirmelo?
Un boccone di pasta. È
finita. Da quanto lei sta aspettando una semplice risposta? Non si aspetta la
verità.
-non importa, puoi non
dirmelo.
Ma lui non riesce a parlare.
-vieni, andiamo di la a
finire il vino.
Lui la segue in salotto, si
siede accanto ad Anne sul divanetto, beve un po’, sente gli occhi di lei che lo
scrutano appena, di sottecchi.
-davvero, John, non importa.
Sente che lei gli sfila il
boccale dalla mano, lo appoggia per terra. Sente il corpo piccolo e morbido
della ragazza premersi sul suo. Lui resta immobile, e lei gli si siede in
grembo, si posa sulle sue labbra, invade la sua integra solitudine, accarezza i
suoi lisci capelli.
E improvvisamente, John
risponde al bacio, con rabbia, con ardore, si nutre di quel bacio, si ciba di
quel corpo sul suo, e dai suoi occhi iniziano a sgorgare grandi lacrime che a lungo
ha contenuto, sgorgano e bagnano le loro labbra unite, mentre Anne continua a
giocare con la sua lingua, a far suonare i suoi denti, gli sbottona la camicia,
asciuga le sue lacrime che continuano a cadere.
-come si chiamava, John?
Lui scuote il capo, con
rabbia.
-chi ti ha ferito così?
-lui è morto…
-tuo padre?
-Harry…- il suo nome, bello,
limpido, vivo, pieno di affetto. Brilla sulle sue labbra, trabocca come le sue
lacrime.
-nessuna lei?
Anne lo bacia ancora, ma lei
arriva, irrompe nella sua mente piena di amore, scivola sulla sua pelle, i suoi
ricci, il suo sorriso, la sua voce, mentre quell’ultimo bacio di Anne ancora
gli fa pulsare le labbra e squotere il cuore.
-Hermione…
…Non ti ho dimenticata,
anche se crederai sia così. Non pensarlo mai, tesoro. Ho pensato a te tutti i
giorni della mia vita. E oggi mi sembra quasi stupido non farlo. Credo di
sapere perché mi viene in mente oggi. Ieri era il compleanno di Lily. L’hai
ricordato? Forse siete li tutti insieme a festeggiarlo. Tu, Ron ed Hermione. Tutti
li, intorno a lei. 11 anni. La sua lettera è arrivata? Tutti li, intorno al suo
bel visino, a riempirla di regali, a non parlarle di me perché fa tanto, tanto
male. Non è vero? lo so. Fate bene. neppure io parlo di voi. Sapervi insieme mi
fa tanto felice. Sono felice, davvero, felice per voi. A volte mi costringo a
fingere a me stesso di essere felice anche per me. ma non è così. Io mi odio,
odio le mie scelte, odio la mia vita. Ma amo i miei ricordi, amo voi.
Importanti pezzi del mio passato.
lo sai? Un’altra cosa che
oggi mi pare impossibile è l’idea di restare ancora nascosto qui. Vorrei
poterti vedere, un’ultima volta. O forse rivederti di nuovo, ricominciare da
zero, a piacerci, a divertirci, ad amarci. Vorrei avere la certezza che mi stai
aspettando, in fondo. Egoista come sempre, ecco come sono. Come sono sempre
stato. Scusa, piccola. Adesso torna pure alla tua vita. Ti lascio andare. Va…
ancora tu? Cosa ci fai
ancora li, trai miei pensieri? Cosa? Dovrei venire? No, ti lascio la tua vita,
mi tengo la mia, lascia stare, davvero. Magari, un giorno…
notte Ginny. ti amo
ancora, lo sai?
Tuo, Harry.