Senza Maschera
Draco non era mai stato
come tutti gli altri.
Poteva aver dato l’impressione di esserlo, al di fuori, ma
era solo una
maschera,
una maschera che un Malfoy doveva indossare per poter vivere tra la
gente
comune.
Draco era sempre stato un uomo, sin dal giorno della sua nascita.
Draco non aveva mai giocato con qualcosa che i suoi genitori non
avessero prima approvato.
Draco non aveva mai avuto amici che a lui piacessero veramente.
Draco non era mai stato davvero un bambino.
Draco non era mai stato
una persona ma un nome, un nome
potente, un nome che incuteva reverenza e timore, un nome che imponeva
una vita
in cui lui non avrebbe potuto aver mai voce in capitolo.
Era stato servito,
elogiato, viziato per tutta la sua vita e severamente istruito come
fosse una
bambola, un giocattolo da plasmare come si voleva.
Cosa aveva mai fatto lui, che servisse a compiacere se stesso?
Draco era seduto in Sala Comune, da solo davanti al focolare spento, e
pensava.
Pensava a tutta la sua vita, ad ogni giorno sprecato a essere qualcuno
diverso
da se stesso.
Pensava a tutti i giorni in cui avrebbe voluto essere qualcun altro e
un
ricordo più nitido di tutti gli altri si fece largo nella
sua mente, colpendolo
quasi fosse solido, materiale:
“Ciao”
disse una bambina
avvicinandosi a lui, come fosse la cosa più naturale del
mondo. Era più piccola
di lui e aveva un aspetto buffo con i suoi capelli castani legati in
due strani
codini sopra le orecchie. Draco storse il naso mentre la guardava,
dalla testa
ai piedi, pensando a quanto era sciocca quella bambina per avvicinarsi
a lui
così. Senza rispetto alcuno. Suo padre era a casa di un
collega del Ministero e
lui era stato gentilmente invitato a rimanere fuori.
“Vuoi giocare?” gli disse, senza cogliere il suo
sguardo irritato, nella sua
ingenuità di bambina. Gli indicò
l’albero li vicino.
“Cosa diavolo ti fa credere di potermi chiedere di giocare
con te, sciocca
ragazzina?” gli disse acido, con la sua vocina infantile ma
già dura e piena di
disprezzo. La bambina lo guardò con gli occhioni azzurri
spalancati ma non
diede segno di essersi offesa più di tanto.
“Sei cattivo se mi parli
così. Ti ho visto qui da solo e mi sembrava che fossi
triste. Mi serve qualcuno
con cui giocare. E’ facile, sai? Hai mai giocato a
nascondino?” gli riferì con
tutta la semplicità del mondo, come se non
l’avesse trattata malissimo solo un
secondo prima.
Draco la guardò ancora una volta, interdetto. La bambina non
sembrava voler
nulla da lui, come gli uomini che andavano sempre a trovare suo padre,
a
chiedergli favori su favori con mille inchini e riverenze… e
oltretutto quel
gioco lo incuriosiva, nonostante si sentisse quasi in colpa per cosa
avrebbe
potuto pensare suo padre; tuttavia però si alzò
dal masso accanto al tronco e
si avvicinò a lei.
Lei sorrise, evidentemente felice di averlo convinto. Lui non sorrise.
Rimase
serio come gli era stato insegnato, mantenendo il rigore e
l’eleganza di un
vero Malfoy.
“Come devo fare?” domandò alla bambina
ostentando sicurezza.
“E’ semplice! Chiudi gli occhi senza spiare,
davanti alla tana, che è questo
albero, e io mi nascondo. Quando finisci di contare poi vieni a
cercarmi… e io
devo cercare di arrivare alla Tana senza essere scoperta da
te” spiegò
diligente con gli occhi rivolti all’insù come se
cercasse di esporre al meglio
il regolamento del gioco. Draco la guardò con una sensazione
confusa dentro di
se e si limitò ad annuire.
La bimba battè le mani tutta contenta e corse via mentre
Draco coprendosi gli
occhi con le mani cominciava a contare. Arrivato a venti
aprì gli occhi
guardandosi intorno alla ricerca di qualche segno della presenza della
bambina.
Si allontanò di qualche
metro dall’albero e scrutò con attenzione i vecchi
cespugli e i tronchi d’albero
spezzati. Cercò di sorprenderla dietro il vecchio scivolo
arrugginito, tra le
fronde del vecchio salice poco lontano ma nulla da fare;
all’improvviso poi un
rumore lo costrinse a voltarsi. La piccola Coral stava velocemente
scendendo
tra i rami folti dell’albero-tana e Draco preso alla
sprovvista e troppo
lontano prese a correre più veloce che poteva. La piccola
però, ridendo, fu
molto più rapida di lui.
“Tana!” gridò, mentre lo guardava
ridendo allegramente con la sua voce
cristallina. Anche Draco suo malgrado, come se non se ne rendesse
conto,
scoppiò in una risata fragorosa.
“Però non vale!” disse,
ancora ridendo “ma sei stata furba!”
Prima che lei potesse
rispondergli però, Draco fu strattonato con veemenza per un
braccio. Il suo
cuore prese a battere a mille quando i suoi occhi incrociarono quelli
di suo
padre.
“Ti avevo detto di star fermo e non parlare con
nessuno” sibilò Lucius
guardandolo con disprezzo. Draco era immobilizzato da quanto era teso e
non
riuscì a pensare ad una risposta coerente da dargli.
“E tu cosa fai? Fai amicizia con queste piccole straccione
babbane?” sussurrò l’ultima
parola a bassa voce, così che lei non lo sentisse.
“io… io…” biascicò
Draco, come
se avesse perso la facoltà di parola.
La bambina però protestò.
“Signore, lui ha solo giocato un po’ con
me…” cercò di dire, ingenuamente
ricevendo da Lucius solo un freddo sorriso di scherno.
“Non voglio sentire le tue ciance, ragazzina” disse
“ora andiamo via”
Lo strattonò ancora, portandolo via con se.
“Aspetta!” gridò coraggiosamente la
bambina inseguendoli “non so nemmeno come
ti chiami” disse, con voce triste.
Draco la guardò, con lo sguardo pieno di malinconia e le
sorrise senza farsi
vedere da suo padre.
“Draco” sussurrò. Non le chiese mai il
suo.
Il
ricordo di Draco fu
brutalmente interrotto dalle voci di ragazzi, che finite le lezioni,
tornavano
nella sala comune. Pansy Parkinson gli si sedette accanto nonostante
lui
trovasse ormai irritante la sua presenza; ogni volta che lo vedeva non
riusciva
a non menzionare… quella cosa.
“Allora Draco?” disse
“Novità?” domandò stringendo
a se il suo braccio. Lui si
liberò dalla sua prese e le rivolse uno sguardo glaciale.
“Nulla di nuovo, Pansy. E smettila di stressarmi”
gridò, spazientito,
lasciandola sola e salendo le scale del dormitorio maschile. Arrivato
davanti
alla porta della sua stanza, e trovandola vuota si chiuse dentro.
Cominciò ad andare su e
giù per la camera, la mente colma dell’immagine di
Silente, del Signore Oscuro,
di suo padre.
Ancora una volta Draco non doveva mostrare nessuna debolezza. Non
doveva
sembrare certo un ragazzino di sedici anni come ogni altro, adesso che
aveva
ricevuto una missione di importanza vitale da lui.
Doveva essere un uomo e questa volta doveva darne atto, doveva darne
piena
dimostrazione; non era più apparenza, un gioco.
Era la vita.
La Maschera crollò
miseramente dal suo volto quando sentì una fitta al cuore
intensa e lacerante che
bruciava, come se stesse ardendo in un rogo senza fine. Era paura, una
paura
sana e violenta, quella stessa paura che era stato costretto a non
provare mai,
la stessa paura che gli era stato detto di affrontare, di dominare, di
distruggere.
“Tu sei più forte della paura, Draco. Tu sei
più al di sopra della paura come
di ogni cosa” gli aveva detto una volta suo padre. Non aveva
avuto il coraggio
di deluderlo.
Adesso però era cambiato, adesso non era più solo
un leggero fardello quello
che avrebbe dovuto trasportare. Gli era stato affidato il
più crudele e
ignobile dei doveri, camuffato da Grande Onore, che lo avrebbe
innalzato alla
gloria dei favori del Signore Oscuro.
Gli era stato comandato di
uccidere. Di uccidere il Mago più potente che conoscesse.
Silente.
A quel pensiero Dracò
crollò in terra, spossato, e la paura crebbe mista ad altri
sentimenti che non
aveva mai avuto il permesso di
provare. Dolore. Solitudine. Pietà.
Il vecchio Draco Malfoy cessò di esistere quando la prima
lacrima scivolò lungo
la sua guancia, cadendo al suolo, seguita da cento, mille altre.
Il vecchio Draco Malfoy cessò di esistere quando
ripensò all’unico momento in
cui era stato davvero felice, l’unico momento in cui non
aveva provato solo una
pallida imitazione della gioia vera.
Il vecchio Draco Malfoy cessò di esistere quando
desiderò di essere nuovamente
un bambino di otto anni in un vecchio parco a giocare e ridere con una
bambina
che per lui non avrebbe mai avuto un nome.