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Autore: Ely79    20/08/2011    5 recensioni
Qeni e Alimad, bambini donati al Tempio della Dea. Un amore nato sotto gli occhi di una divinità. Un amore che non doveva essere.
Storia prima classificata al contest "Not strong enough - Rinunciare all'amore" indetto da visbs88.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo Questa storia ha partecipato al contest "Not strong enough - Rinunciare all'amore" indetto da visbs88, classificandosi al primo posto.
I giudizi ed il commento del giudice saranno riportati nell'ultimo capitolo della storia.

Titolo: La mano della Dea
Autore: Ely79
Frase: And I know is wrong and I konw is wright (e so che è giusto e so che è sbagliato).
Introduzione: Qeni e Alimad, bambini donati al Tempio della Dea. Un amore nato sotto gli occhi di una divinità. Un amore che non doveva essere.
Rating: Arancione
Generi: Introspettivo, sentimentale
Avvertimenti: Long-fic
Note: la frase della canzone è inserita più a livello di concetto che di testo vero e proprio.


1 posto posto


Prologo


La penombra densa inghiottiva ogni cosa. Il lungo soffio sommesso del mantice ravvivò i tizzoni, la cui luce dorata crebbe fino a raggiungere gli spessi bordi della cappa e gli occhi delle due persone che stavano lì accanto.
L’uomo smosse le braci, liberando scintille nell’aria. Briciole luminose salirono danzando nel risucchio del camino e svanirono. Sollevò la barra dalla forgia. Il metallo risplendeva, emanando un tenue alone, come se all’interno vi fosse un timido sole. La osservò con attenzione, ruotandola lentamente, senza allontanarla dal focolare. Al suo fianco apparve un ragazzo.
«Vedi? In questo punto» chiese, indicando con una lunga pinza il centro della spranga.
L’apprendista allungò il collo e strinse gli occhi, annuendo. La forma nera dell’attrezzo avrebbe potuto somigliare ad una coppia di dita scheletrite ed arcigne per chi fosse stato digiuno di metallurgia: per lui invece, erano due amiche preziose ed affidabili.
«Il colore non è ancora giusto, Igraf. Il punto di battitura è vicino, ma non abbastanza. Serve una sfumatura ancora più bianca al centro, deve emanare luce propria per essere pronta per la prima modellazione. Và al mantice e datti da fare» ordinò pacato.
«Subito, Maestro» esclamò il ragazzo, il volto serio sporco di sudore, fuliggine e limatura di ferro.
Guardò l’apprendista saltare a pié pari una cassa e correre attorno al basamento di pietra della forgia per raggiungere il lungo braccio di legno di quercia. Sciolse i legacci di sicurezza e prese a manovrare con l’asta con un ritmo costante, scandito dal sibilare dell’aria che veniva risucchiata nella sacca di pelle prima per essere spinta ai piedi del focolare. La compostezza dell’espressione stonava con i suoi sedici anni, ma dava appieno la misura del suo impegno.
Igraf sapeva di aver ricevuto una pesante eredità, ovvero quella di divenire il futuro Maestro di bottega. Dopo tutto, era il secondogenito e, per quanto abile potesse dimostrarsi, lo Statuto della Corporazione parlava chiaro. Solo il primo figlio maschio avrebbe potuto ricevere la fucina ed il titolo di Maestro. Ma quando Niza aveva comunicato di voler intraprendere la carriera militare, le speranze ed i sogni di Igraf avevano preso altri contorni. In molti nella Corporazione si erano detti felici della decisione di Niza, troppo impetuoso e irrequieto per divenire un fabbro: il fratello minore pareva nato con gli strumenti del mestiere in mano.
«Maestro, credo occorrerà attendere ancora un po’ per ottenere il risultato corretto. La legna ed il carbone si sono consumati troppo velocemente. Temo che la legna fosse troppo asciutta e fibrosa o forse non è stata essiccata a dovere. Devo controllare quella che abbiamo nella legnaia e prenderne dell’altra più adatta».
L’uomo si chinò in avanti, sentendo le vampe delle braci accarezzargli il volto. L’apprendista aveva visto giusto: lui stesso scorgeva tra le fiamme i resti sfilacciati dei piccoli ciocchi che erano serviti da innesco per la fiamma. Quella legna, sebbene dell’essenza adatta, mostrava dei difetti di stagionatura.
«Bene, figliolo, procedi come ritieni più opportuno» rispose.
Da genitore e Maestro, si era reso conto subito delle potenzialità di Igraf e vederlo così attento e scrupoloso vedeva confermate le sue intuizioni.
Lasciò che andasse a prendere altro combustibile, appuntandosi di parlare l’indomani con i legnaioli da cui si fornivano.
Da un angolo della fucina proveniva un rumore sottile, che sovrastava appena il crepitare delle fiamme. Poco distante dal banco delle rifiniture, un ragazzino se ne stava ingobbito su uno sgabello. Stava strofinando un’arma grande quanto lui, ed era talmente preso da estraniarsi da quanto accadeva intorno.
«Che stai facendo?» gli domandò.
Il giovanissimo aiutante sollevò di scatto la testa, stringendo le mani attorno all’arma che teneva sulle ginocchia. Non era stato il tono del richiamo a spaventarlo, quanto il fatto che a ciò potesse corrispondere un suo errore.
«Io…» tentò di giustificarsi, ma le parole gli morirono sulle labbra screpolate.
L’uomo allungò la mano, chiedendo con un semplice cenno che gli consegnasse l’oggetto. Lo soppesò sui palmi, facendolo oscillare poco alla volta. Poi si diresse fuori, per esaminare l’arma con maggior attenzione. Il ragazzino lo seguì, ansioso.
Nel cortile, il Maestro di fucina sollevò la spada nella luce del sole. Sulla spina centrale, lavorata in rilievo rispetto alla lama, erano visibili le Dieci Rune di Alaga, impiastricciate di una poltiglia giallastra. Il metallo presentava un disegno a spirali chiare e scure, tra i più ardui da ottenere, il cui segreto non era stato ancora passato all’erede. Vicino all’impugnatura, là dove sarebbe stata realizzata l’elsa, una serie di indicava la posizione delle gemme che vi sarebbero state incastonate.
«Se insisti a strofinarla a quel modo graffierai la superficie. Ricorda che questa è un’arma decorativa, non importa che il filo sia tagliente, è il suo aspetto che conta» spiegò il fabbro con molta calma.
«S-sì, padre… Maestro» si corresse il bambino, chinando il capo per la vergogna.
«Cosa stavi usando?»
Il giovanissimo apprendista allungò il piccolo secchio che aveva portato con sé. L’uomo vi immerse le dita in profondità, saggiando la consistenza della mistura.
«Come l’hai preparata?»
«Sa… s-sabbia bianca, di quella fine; poche gocce di latte nell’acqua; cenere di… iperico e d-di…»
«Di?»
«Di… c-cle… clenaria» concluse timoroso.
Il fabbro controllò con attenzione il manufatto, rivolgendo un rapido sguardo ad un altro apprendista, il più piccolo dei suoi quattro figli maschi, Corvan, che in quel momento si stava occupando di riordinare il materiale per le fusioni dei giorni successivi. Impilava coppie di stampi lungo la parete, controllando che non contenessero residui delle precedenti lavorazioni o che avessero riportato danni durante il raffreddamento o l’apertura. Era ancora troppo giovane per essere iniziato ai segreti dei metalli, per un paio d’anni gli sarebbe spettato il ruolo di garzone.
Tornò a concentrarsi sull’oggetto che stringeva in mano e sul piccolo apprendista al suo fianco.
«Stai facendo un buon lavoro, ma devi prestare più attenzione. Troppa foga può essere deleteria quanto l’essere troppo meditabondi. Nel nostro mestiere è importante dosare questi due ingredienti per ottenere il massimo da ogni lavorazione» consigliò.
L’assistente annuì con forza, sollevato dal responso.
«Coraggio, Malves, và alla fontana e sciacquala con attenzione prima di ricominciare. Rimuovi ogni traccia della pasta, soprattutto qui e qui» disse, porgendola nuovamente al ragazzino che memorizzò attentamente in quali punti dovesse agire.
«Subito!» esclamò sollevato mentre scattava in piedi, l’arma stretta al petto, ma il padre lo trattenne per una spalla.
«Quando l’avrai ripulita, asciugala con cura, stando qui fuori, in pieno sole. In questo modo potrai vedere se ci sono residui nelle commessure. Poi, una volta che sarai certo di averla pulita a dovere, riprendi a strofinare la lama con una quantità minore di composto. Bada che non si infili nelle giunture nei castoni. E usa questo» aggiunse, porgendogli uno strofinaccio che teneva in una tasca del grembiule da lavoro. «Ti serve un panno molto morbido e a trama fine per ottenere il risultato richiesto dal cliente».
Mentre Malves raggiungeva la fontana, il Maestro tornò nel laboratorio, controllando materiali e attrezzi. Considerava l’ordine un requisito fondamentale per poter lavorare nel migliore dei modi, segno distintivo di una bottega efficiente e di valore. Passò in rassegna i magli appesi alla parete accanto alle incudini, i lingotti di metallo grezzo posati su uno scaffale chiuso da pesanti lucchetti, gli arnesi disposti per grandezza lungo le mensole. Corvan aveva terminato il suo compito agli stampi ed aveva cominciato a setacciate diligentemente il fondo di sabbia della buca per le colate, per ripulirlo dagli scarti e dai residui delle ultime fusioni. Igraf stava invece posizionando i nuovi ciocchi di legna all’interno del focolare, rigirandoli e studiando dove collocarli.
Il fabbro apprezzava la calma ed il silenzio che precedevano le lavorazioni più pesanti, ma duravano troppo poco, come in quel momento: degli strilli richiamarono la sua attenzione.
«Padre! Padre!»
Una figuretta minuta ansimava sulla porta della fucina.
«Duliane» chiamò e la bimba lo raggiunse zigzagando tra i banchi di lavorazione. «Sai che questo non è posto per te. Esci» l’ammonì.
La bambina gli rivolse un grande sorriso nonostante il rimprovero e lo strattonò per la cintura.
«È arrivata una signora. Una signora bellissima! E chiede di Niza! Di Niza e di voi, padre».
Non era la prima volta, da quando suo figlio era tornato, che qualcuno chiedeva di poterlo vedere. E neppure era inusuale che domandassero del Maestro di bottega. Il fatto che domandassero di entrambi e che a esigere ciò fosse una donna, era un’autentica novità.
Uscirono dalla fucina, fermandosi accanto alla fontana perché l’uomo potesse rinfrescarsi. Malves sedeva sul bordo, con i piedi, le mani e la spada all’interno della vasca, intento ad eseguire il compito affidatogli con la massima diligenza. La sorellina gli andò vicino facendogli mille smorfie, ma lui non la degnò d’uno sguardo.
Indispettita, la bambina cominciò a saltellare, tendendo le manine per prendere uno strofinaccio che stava appeso ad un gancio accanto alla vasca. Riuscì ad afferrarne un lembo, senza riuscire a sfilarlo dal sostegno infisso nel muro di cinta. Lo strattonò da un lato all’altro, tentando di liberarlo, finché la stoffa si lacerò di colpo, facendola piombare a terra. Rimase per un attimo a fissare lo strappo, incerta sul da farsi, e quando udì Malves soffocare un risolino, gli rifilò un pizzicotto. Porse la pezza al padre con una smorfia birichina. Lui le rivolse un’espressione vaga e si asciugò il viso.
Si avviarono alla porta di casa che dava sul cortile del laboratorio.
«Posso regalare un fiore alla bella signora, padre?» cantilenò Duliane, dondolandosi sui talloni con le mani dietro la schiena.
«Solo se non proviene dai cespugli di tua madre» rispose, riponendo il grembiule di cuoio in un armadio accanto alla porta.
L’ordine suscitò uno sbuffo contrariato nella piccola che, lungi dal desistere, corse fuori, in direzione dei campi oltre la strada. Il fabbro la tenne d’occhio da uno spiraglio della porta mentre gettava la casacca da lavoro in una cesta e ne indossava una pulita. Duliane saltellava lungo il margine del campo, lì dove i fiori crescevano rigogliosi, cercando quello più bello e degno di divenire un dono. Tornò pochi istanti dopo, con una grande campanula bianca screziata di violetto.
«È abbastanza bello, padre?» domandò dubbiosa, seguendolo lungo le scale.
«Credo di sì».
«Non ce ne erano altri più belli. La signora non si arrabbierà che non ne ho trovati?» insisté, intrufolandosi tra la gamba del padre e il muro per poterlo superare e raggiungere per prima la camera, senza neppure ascoltare la risposta.
La voce della bimba riempì l’aria, seguita immediatamente dal rimprovero del fratello maggiore.
«Duliane, sii più educata!»
«Ma io voglio regalarlo alla signora!» protestò.
«Quello? Ti pare un regalo degno…» obbiettò, subito interrotto dall’ospite.
«Ti prego, Niza, lascia che faccia. Sono giunta senza farmi annunciare, meriterei piuttosto di essere scacciata».
Il fabbro si fermò a breve distanza dalla porta. Ricordava quella voce. Era cambiata negli anni, si era assottigliata, inasprita, molto più di quanto avesse potuto immaginare.
Entrò nella camera. Niza era seduto, curvo in avanti, il volto pallido segnato dalla febbre e dalle ferite. Gli occhi del padre corsero alla vistosa fasciatura che dal gomito destro scendeva fino al polso del giovane. Aveva perduto la mano durante l’ultima battaglia cui aveva preso parte, eppure non pareva esserne troppo turbato. Era fiero d’aver combattuto in nome della Dea e di essersi sacrificato per riportare la reliquia trafugata al Tempio.
L’uomo rimase sulla porta, scrutando l’espressione stanca del figlio. Quel figlio che gli somigliava molto, non solo nell’aspetto o nel carattere: un dolore simile li univa.
«Non devi affaticarti, Niza. Il guaritore si è raccomandato che badassi alla tua salute, almeno finché la carne non si richiude in maniera soddisfacente» gli rammentò. «Ti ha spiegato quali rischi corri».
«Lo so, padre, avete ragione. Ma non potevo non…» e indicò accanto a sé.
La bella signora che tanto aveva entusiasmato la bambina era rimasta immobile, rigirando tra le dita coperte di preziosi anelli il fiore appena donatole. Sopra l’alto colletto della veste, la sua testa era accuratamente rasata, eccezion fatta per due lunghe ciocche nere intrecciate di nastri e ornamenti, che dalle tempie le scendevano fino in grembo. Foglie e catenelle d’oro disegnavano un complesso intreccio attorno alle gemme che sembravano sbocciare dal suo capo. La pelle olivastra aveva un riflesso perlaceo, simile a quello delle ricche vesti che indossava.
Il fabbro avrebbe potuto chiudere gli occhi, non guardarla affatto. Non l’aveva mai dimenticata. Non avrebbe potuto.
«Siate la benvenuta in casa mia, Chana Alimad» salutò.
   
 
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