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Autore: Laura del Sordo    21/08/2011    3 recensioni
“Questo e’ un bene. E non e’ vero, o non lo e’ sempre, che il male si nutre di disperazione. Spesso, anzi, trova maggiore spazio nel sorriso, perché chi sorride vorrebbe continuare a farlo per sempre, o ritornare a farlo e, per dare spazio e vita a questo desiderio, sarebbe disposto a tutto”.
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi avevano tolto tutto.
E quando dico tutto, intendo davvero tutto.
O si dice levato ? Sì, levato forse e’ meglio. Suona più adatto.
Lei e quei due mostriciattoli che avevo riconosciuto come miei, ai quali mi ero anche affezionato.
Maledizione.
Il conto in banca prosciugato, la casa assegnata a lei…
E, pian piano, i pensieri, la fatica di andare al lavoro, ogni giorno, con la testa che galoppava altrove.
E quello stesso lavoro perso, dopo tanti anni, per qualche errore di troppo.
Niente di particolarmente grave, ma le fosse si scavano pure palata dopo palata, no ?
Qualche mese trascorso a dormire qua e là, da colleghi, parenti, amici… ed in tutti vedere quello stesso sguardo, dopo un po’ di giorni…
“Quando te ne vai ?”, diceva quello sguardo “Quando ci lasci tornare a vivere il nostro spazio come quando era realmente nostro ?”.
Funzionava così, sempre. All’inizio tutti sorridenti e comprensivi.
Domande, considerazioni, i “Non ci si può davvero fidare di nessuno”.
Poi QUELLA     domanda, puntuale. Muta, ma esplicita.
Da lì in poi fu facile scendere sempre più in basso…
I soldi al portiere dell’alberghetto nei pressi della stazione, stipato di persone di tutti i tipi, pregno di quell’odore di vita stantìa che hanno tutti gli alberghi di infima categoria.
Fumo, sporcizia, dolore, paura, bisogno.
Ma almeno un posto dove dormire, stanze che le prostitute, prestato il loro squallido servizio, lasciavano magari a tarda notte, e che il portiere mi affittava, ed affittava ad altri disperati come me, per un prezzo inferiore.
Ma i soldi finiscono in fretta, come i colleghi, i parenti, gli amici.
Come il desiderio e la voglia di dignità.
Mi ero trovato, una sera d’estate, a non sapere dove avrei dormito.
Desideravo vagare per la città fino a che le gambe mi avrebbero retto, perso fra turisti, gente che faceva ritorno spedita a casa, ragazzi che si divertivano fra loro bevendo seduti sui gradini dei monumenti, uomini d’affari che blateravano al cellulare, nottambuli ed ubriachi.
Camminare fino a perdersi, ad accasciarsi poi a terra senza sapere esattamente dove, e lì risvegliarsi la mattina dopo, fra il traffico ed il rumore dei negozi che riprendevano vita.
Ed un vigile che ti bussava sulla spalla, magari poco comprensivo.
Ma non era così facile, non ero abituato a quel genere di vita, mi sembrava quasi di vivere in un film che aveva come sottofondo la colonna sonora della mia disperazione.
Ero ridotto ad un animale. E, come un animale, dovevo trovarmi una tana, un buco dove difendermi dal nemico, chiunque esso fosse.
Sfuggendo dai miei simili ed, allo stesso tempo, desiderandone la confortante presenza.
Vagando senza meta, respirando folate di estate e di tubi di scappamento, finii sul parapetto del fiume, che scorreva diversi metri più in basso, quasi bello e scintillante nella patina argentata che la notte romana sapeva donargli.
Sull’argine, una figura si muoveva lentamente, quasi furtivamente, alimentando una specie di piccola fiamma che si vedeva a malapena.
Guidato dall’istinto e con passo reso malfermo dalla stanchezza scesi laggiù, un po’ circospetto, e mi misi a spiare quell’uomo, dietro un grosso pilone del ponte, cercando di evitare che la mia ombra si allungasse nell’arco di luce che il piccolo fuoco stendeva sull’argine del fiume.
L’uomo stava cucinando.
Mi arrivò un profumo di carne e di spezie, che balzò verso il mio stomaco ad una velocità sorprendente, lasciandomi quasi stordito.
Quello era l’odore “della domenica”, quello che il mio piccolo barbecue, sistemato nel piccolo giardino di quella che era stata la mia casa, diffondeva nelle calde serate estive, quando, con mia moglie ed i bambini, ci divertivamo ad improvvisare grigliate in cui tutti mangiavano con appetito.
In quell’evocazione c’era tutto… tutto quello che avevo perso, i sogni infranti, la causa di divorzio, la solitudine improvvisa e la perdita della vita.
Non la vita fisica, certo.
Quella era assolutamente intatta e che lo fosse mi venne segnalato dal mio stomaco gorgogliante.
Non mangiavo dalla mattina.
Non so se fu un movimento brusco, una mia distrazione, oppure se magari avessi davvero mormorato qualcosa, scoprendo me stesso il mio nascondiglio.
Lo sconosciuto, senza voltarsi, mi apostrofò.
“Vuoi unirti a me ?”.
Sobbalzai nel buio.
“Non e’ molto”, continuò l’uomo, sempre armeggiando con l’improvvisato barbecue “ma immagino che per due possa bastare. E, qualora non fosse così, faremo in modo che basti lo stesso, ti pare?”…
Colsi persino l’ombra di un sorriso nel suo invito e, stremato da fame e sonno, desideroso di un contatto umano, mi decisi ad uscire dal buio e ad entrare, cautamente, nel cerchio di luce del fuoco.
“Sono Luca”, esordii scioccamente, tendendo la mano verso lo sconosciuto.
Mano che venne serenamente ignorata.
“Io mi chiamo con un nome troppo complicato da pronunciare, nella vostra lingua. Per chi avesse avuto voglia di chiamarmi, beninteso. Ma non credo siano in molti”.
Annuii in silenzio, sentendomi di troppo, anche se eravamo solo in due.
“Siediti, Luca. Qui non si fanno molti complimenti, e nemmeno tante smancerie. Ci si siede, si mangia quello che c’e’, e si racconta la propria vita. Sempre che se ne abbia desiderio”.
Mentre parlava, aveva agilmente versato in un piatto che aveva conosciuto momenti migliori una specie di arrosto profumatissimo e del pane.

Mangiai in silenzio.
Il pasto era buonissimo, ogni boccone ingerito era come una iniezione di vita, una spinta propulsiva verso la lucidità mentale, se mai ne avevo posseduta una, verso il calore che avevo dimenticato si potesse provare dopo aver gustato qualcosa di veramente buono e cucinato con amore. Con dedizione.
L’uomo era silenzioso, e ne approfittai per guardarlo.
Era vestito in maniera strana… Poteva essere un arabo. O comunque un orientale.
Indossava infatti una specie di tunica un po’ consunta ma che doveva essere stata tessuta con filati preziosi. Anche se i colori avevano perso da un pezzo il loro fulgore.
Non sono un grande intenditore, ma mi pareva che scintillasse al buio, come se la stoffa fosse punteggiata di piccole schegge di vetro che riflettevano i bagliori del fuoco.
La barba era lunga, ma non incolta, grigia, e conferiva all’uomo un’aria dignitosa, da vecchio saggio, e di certo gli attribuiva qualche anno in più rispetto alla sua reale età anagrafica.
Non sembrava sporco o particolarmente trasandato. Solo vecchio.
“Luca”, disse all’improvviso, rompendo il silenzio profumato “Sei giovane”.
Sembrò quasi che mi leggesse nel pensiero e che lo dicesse con aria di bonario rimprovero, come se solo da vecchi si potesse cedere alla disperazione di una vita sotto i ponti, di quelle che una volta, un po’ eufemisticamente, venivano definite “ai margini della società”.
Quale società, poi.
Quella era una jungla, una palude salgariana dove bastava fare un passo falso e finivi vittima di paludi o di predoni della notte, sotto le spoglie di abili avvocati e di ex mogli che si godevano il frutto del lavoro di una vita di altri coglioni come lui.
“Ho 38 anni”, risposi.
“Sì, lo vedo. Sei giovane. Ma gli ultimi mesi hanno aggiunto anni agli anni, ed ora sei vecchio quasi quanto me”…
L’affermazione doveva averlo divertito non poco, visto che cominciò a ridere sommessamente con una specie di piccolo raglio gracchiante, che quasi subito si spense in un accesso di tosse che mi allarmò.
“Sto bene, sto bene. E’ che fumo di tutto, ed ogni tanto i miei polmoni mi chiedono che intenzioni ho”.
“Fumare fa male”, esordii saggiamente, sentendomi ancora più stupido.
Quell’uomo mi metteva in imbarazzo.
O forse era la situazione, a farlo.
Un giovane ex imprenditore che giocava a fare il barbone dialogando piacevolmente con un disperato che viveva di stenti sotto un ponte del Tevere, mangiando un piatto di carne di dubbia provenienza cucinato chissà come e servito come se si trattasse di un pasto da re.
E lo era davvero.
Cazzo, che fame.
“Magari ora mi sveglio” pensai, e mi venne da ridere, nonostante il dubbio gusto della battuta che, a pancia piena, mi ero dato il permesso di farmi.
“Vedo che sei allegro”, disse l’uomo.
“Questo e’ un bene. E non e’ vero, o non lo e’ sempre, che il male si nutre di disperazione. Spesso, anzi, trova maggiore spazio nel sorriso, perché chi sorride vorrebbe continuare a farlo per sempre, o ritornare a farlo e, per dare spazio e vita a questo desiderio, sarebbe disposto a tutto”.
Mentre pronunciava queste parole annuiva a se stesso, guardando verso il piccolo fuoco, che ancora ci illuminava, rendendo le nostre figure evanescenti, dai contorni vaghi ed un po’ spettrali.
Io avevo capito ben poco, a dirla tutta.
Stavo lì, mi godevo il cibo, ed il rumore del fiume che scorreva vicino a noi, non dando particolare peso, ne’ grossa attenzione, alle parole del vecchio.
E poi eravamo davvero una coppia un po’ surreale, male assortita.
Io con l’unico completo rimastomi, una cravatta di seta di Gucci decisamente stropicciata, i capelli arruffati e dal taglio improbabile, ed un po’ di sugo di carne che si asciugava all’angolo della bocca.
Il vecchio, con quella tunica un po’ da santone ed un po’ da cavaliere templare, il barbone grigio, e la vocazione del cuoco naufragato sulla spiaggia dell’esistenza.
“A tutto, Luca. A tutto. Sono disposti a tutto”, continuò, dopo una breve pausa, alzando per la prima volta lo sguardo verso di me.
I suoi occhi erano luminosi, scuri, profondi come due pozzi, benevoli e bui allo stesso tempo, e mi fissavano intensamente.
“Eppure, in genere, mi accontento di poco, sai ?”, riprese, dopo una piccola pausa, durante la quale non aveva smesso di fissarmi.
“Certo, lì per lì si tratta sul prezzo, ma sono sul mercato da così tanto tempo che so riconoscere un’anima persa quando ne incontro una. E, quando la incontro, la invito a mangiare con me per saggiarne l’odore. La disperazione, quella vera, ha un odore, lo sapevi ? Sa di dolore, di voglia di riscatto e qualche volta di vendetta. Odora di muschio, di ombre, di nicchie dove la luce non arriva più. Di sudore. Di pensieri cattivi che salgono prepotenti, anche quando si fatica a respingerli giù, verso il fondo, da dove sono nati e dove dovrebbero rimanere. E queste anime pagherebbero qualsiasi prezzo per rinascere pulite, vive, vitali, senza macchie, come fogli bianchi dove si ha davvero una seconda occasione per riscrivere il racconto della propria vita”.
Mi sembravano i racconti di mio nonno, quando, da piccolo, mi sgridava, se mi comportavo male, cercando di farmi apprendere in piccole lezioni di vita ed in buona fede quella miriade di concetti che poi prende il nome di esperienza, e che tutti i vecchi vorrebbero trasferire ai giovani per impedire loro di farsi seriamente del male. Non riuscendoci mai, ovviamente.
“Da tanto vivo qui, sai ? E da qui osservo le vite altrui e annuso l’aria per avvertire l’odore di quelle che stanno per esaurirsi, e che quindi sono pronte per cedere se stesse opponendo poca resistenza. Non cerco nessuno. Semplicemente, aspetto. Aspetto che qualcuno venga a trovarmi, ed a raccontarmi di sé. Gli offro del buon cibo, o che a loro sembra tale, ma nulla e’ buono quanto il balsamo che la mia voce ed il mio sguardo spalmano sulle ferite della vita, sul poco amore, sui sogni infranti, sulle bugie che si raccontano a se stessi per sopravvivere, sugli amici scomparsi persino dalla memoria, sugli amori finiti, sulle strade che si percorrono insieme e che poi si dividono, chiedendo di voltare pagine che invece si vorrebbero tenere ostinatamente aperte, con segnalibri fatti di bei ricordi e di luce e di speranze intatte”.
Il tono della sua voce si era fatto basso, quasi una cantilena, e le parole venivano dette con una sorta di sfumatura sorridente, ipnotica.
Mi agitai un pochino, debolmente, cercando di ignorare ancora un po’ il dolore che i miei muscoli volevano farmi notare.
Mi sentivo in imbarazzo, senza sapere perché.
Lì per lì mi sentii maleducato, visto che rimanevo in silenzio, senza dare nemmeno un cenno di aver compreso al mio amabile interlocutore.
Perché amabile lo era davvero.
Mi guardavo intorno e, nonostante avessi costrettole mie articolazioni a posizioni innaturali da un bel po’,  mi sembrava, allo stesso tempo, di essere seduto su morbidi cuscini, fra fumo di incensi profumati e con una piacevole musica di sottofondo…
Persino il traffico di Roma era ridotto ad un lieve brusìo, mentre le parole del vecchio fluivano dolcemente, inondandomi in ogni piccolo spazio, come il sangue entra precipitosamente in ogni capillare, anche il più filiforme.
“Io non ti ho chiamato, vero ? Sei venuto da me, da solo. Potevi finire chissà dove ed invece sei arrivato da me. Io ti ho offerto un bel pasto caldo e saporito, ed ora credo di avere almeno il diritto di essere ringraziato. O chiedo troppo ?”.
La domanda, ovviamente retorica, almeno nelle intenzioni del mio anfitrione, fu accompagnata da un sorriso meraviglioso, ironico, beffardo, simpatico, quasi come se un vecchio barbone vestito da arabo, dalla loquela fluida ed ambrata come miele tiepido, possedesse anche le doti e la sottile ironia di un Lord britannico.
“Ho diritto a qualcosa, vero ? Ma tu non hai nulla. Nulla. Non ti e’ rimasto che il bisogno. E la fame. Ed un futuro che non sa come pensare a se stesso”.
Tristezza.
Nel suo sguardo una tristezza infinita, che mi fece venire voglia di piangere, perché mi sentivo disperato ed, allo stesso tempo, compreso, amato, capito, sorretto.
“Come farai, Luca ? Come potrai ricambiare la mia ospitalità, se non hai nulla ?”.
Io piangevo a dirotto, ora. Senza dignità.
Sempre ammesso che me ne fosse rimasta ancora una. Anche piccola.
Piangevo su me stesso, sulla mia povertà, sul mio destino, sui tradimenti della vita, sulla solitudine il cui peso sentivo addosso come un masso di granito.
“Ma non voglio sembrarti esoso, Luca. Non io. Sono abituato ad essere frugale, a vivere di poco, ed a chiedere, poco. In cambio, però, so dare tanto. So dare calore, amore, ospitalità, rifugio a tutte le anime disperate come la tua. Anime rese opache dalla miseria, e dal buio. Anime che io e solo io riporto a nuova vita, lucidandole con l’olio del mio amore e della mia dedizione. Coraggio, Luca, sorridi, ora. Sei in buone mani. Nelle mie”.
Di nuovo quel sorriso dolcissimo, accattivante, che si fece largo fra il velo acquoso delle mie lacrime.
Mi servì ancora della carne, stavolta accompagnata da un salsa molto dolce, i cui ingredienti non seppi riconoscere.
“Mangia, Luca. Nutriti. Anime come le tue vanno rese forti. Non sei ancora perso. Anzi, credo proprio che, per te, ci siano ancora molte speranze”.
Tirai su col naso, come un bambino, mentre mi accingevo a divorare quell’ennesima portata che aveva un sapore consolatorio come quando, da piccolo, dopo un litigio o un capitombolo, mia madre mi portava un dolcetto e mi abbracciava, tenendomi stretto stretto.
“A te non chiederò quasi nulla, amico mio”, continuò il vecchio, mentre mi guardava mangiare.
“O meglio, chiederò il giusto”.
“Vedi”, disse, pronunciando la frase accompagnandola da un gesto largo del braccio, quasi teatrale, “Da sempre il mondo ha bisogno di anime come la tua. Ancorate alla realtà, tanto da mantenersi sulla difensiva, ma sufficientemente bisognose di aiuto”…
“Tu puoi essermi utile, Luca e, contemporaneamente, essere utile a te stesso, e ad altri come te”.
Per un attimo, pensai che mi proponesse di girare per la città in una improbabile parodia somigliante a quelle ronde di volontari che aiutano le persone in difficoltà, offrono loro del cibo ed un tetto.
Ma non fu così. Proprio no.
Sono trascorsi molti anni da quella sera, davvero tanti.
Ora mi trovo in una città di cui non so il nome, nata, o rinata, dopo la devastazione prodotta da una delle tante guerre dell’uomo.
Tutto intorno e’ pieno di crolli e di edifici tirati su alla bellemmeglio.
La gente vaga, annichilita, cercando fra le rovine qualcosa che gli sia appartenuto e che possa portare con sé.
E’ un buon posto per il compito che devo svolgere.
Le anime di chi e’ sopravvissuto solo fisicamente spesso sono anime ancor piu’ devastate, anime di chi ha perso davvero tutto e tira avanti solo per istinto di sopravvivenza.
Ho imparato tanto, in poco tempo.
Astaroth mi dice che sono uno dei suoi migliori discepoli, e del suo parere direi che posso fidarmi.
Lui e’ uno che ha viaggiato attraverso i secoli, sempre con la stessa missione.
Sono qui. Sono ancora vestito come quella sera di quasi cento anni fa.
Il completo grigio e’ di sicuro solo un po’ più impolverato, e la cravatta di Gucci più stropicciata.
I miei capelli non sono cresciuti ed ho sempre la stessa età.
Ma da quasi cento anni vivo sotto questo ponte, un po’ fuori la città, e, tutte le sere, accendo un fuoco, piccolo, discreto, ed inizio a cucinare con gli ingredienti che puntualmente trovo a disposizione la mattina.
Quando si fa sera, odo il rumore sottile di chi ha paura di avvicinarsi, ma che ha perso tutto, ed e’ disperato ed affamato e senza speranza.
Sento l’odore della sua disperazione e sorrido, senza voltarmi.
Perché so che ha ancora un’anima, da comprare, in cambio della sopravvivenza, al prezzo stesso che io pagai anni fa per garantire la mia.
Io non mi volto.
Cucino.
Ed aspetto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  

  
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