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Autore: Ronnie02    22/08/2011    3 recensioni
Edward è un insegnante di piano nel liceo di Chicago e vive con la sorella Alice, medico di fama mondiale, e sua figlia Nessie.
Il suo problema? Si perde spesso nel passato, nella vita che aveva avuto con la sua... Bella. Ma dove si trova ora, il suo amore più grande?
Spero di avervi incuriositi!
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Renesmee Cullen, Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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eccomi tornata, tesori!! Scusate per il ritardo, scusate davvero, sul serio, vi supplico, scusate!! xD
Spero che con questo capitolo mi perdoniate! <3



Capitolo 3- Ammettere il problema
 


Alla fine il pomeriggio lo passai rovinandomi gli occhi stando davanti alla televisione. Non mi ero permesso ricordi e nemmeno avevo voglia di farmi venire un colpo seguendo Victoria.
Così, quando la porta si aprì mostrando il faccino di Nessie e  il sorriso di Alice mi resi conto che fossero già le otto e non avevo ancora preparato niente.
“Tesoro, vai di sopra. Io e tuo padre intanto cuciniamo qualcosa”, disse Alice, prendendomi il braccio e portandomi in cucina.
“Victoria la adora ed Emmett crede che io la ami ancora”, mi sfogai appena chiuse la porta. Sapeva che c’era qualcosa che non andava.
“Che cosa? Voglio dire, Victoria la adora?”, chiese sgranando gli occhi.
“Già… ed Emmett..”
“Lo so”, concluse svelta. “E lo credo anche io”.
No, no, non poteva essere. Ma stavano creando una congiura contro di me? Che volevano che facessi?
“Che cavolo…? Come lo credi anche tu?!”.
“Edward, come io so che una parte di me la considera ancora la mia migliore amica, so che una parte di te ancora la ama”, mi disse toccandosi il suo cuore. Poi mi toccò la fronte. “Il nostro cervello è strano, lo so, ma funziona così e nessuno può farci niente. Né io, né te e nemmeno lei”.
“Lei non mi ha mai amato, lei non ha mai voluto Nessie”, urlai cercando di respingere quella scusa.
“Edward, ero la sua migliore amica, certe cose le conosco meglio di te. All’inizio ha sbagliato, è vero. Ti ha agganciato solo per fare colpo su quel ragazzo, ma poi ti ha davvero amato”, sussurrò prendendo le mie braccia, che tremavano, mentre i miei occhi si stavano bagnando. “La sentivo quando mi parlava di te con quella voce persa e gli occhi innamorati e avevi anche tu. E il giorno in cui avete deciso di provarci, lei era nervosa, preoccupata, ma sapeva che voleva farlo. Voleva farlo perché c’eri tu con lei. E tu pensavi lo stesso”.
Le lacrime ormai scendevano e la mia mente ritornava a quei momenti felici. “E allora perché mi ha mollato con una figlia? Perché è fuggita? Perché non tornare?”.
“La paura fa brutti scherzi e, avendo avuto paura, ha preferito la strada più facile: andarsene e dimenticare tutto. Non le parlo dallo stesso tempo da cui non le parli tu, Edward. Non so cosa pensa ora, ma in quel momento aveva paura”, disse tenendomi ancora stretto.
“Non… non è un buon motivo! Alice, lo sai che è un buon motivo!”, gridai, anche se avevo paura che Nessie mi sentisse.
“Lo so, infatti non la sto scusando. La odio per quello che ha fatto, come te. Ma non puoi negare che l’ami ancora. Lo sai tu e lo so anche io”.
“E quindi che dovrei fare?”, chiesi senza più voce.
“Non te lo posso dire io. E nemmeno lo puoi fare tu. Devi vivere la tua vita come viene, per Nessie. E soprattutto, viverla nel presente!”, mi disse mollandomi e abbracciandomi veloce.
Le misi le braccia attorno alla vita, coprendo il mio viso nelle sue spalle, asciugando le mie lacrime nel suo tailleur bianco.
“Che sta succedendo? Ho sentito urlare e… papà!”, gracchiò il mio tesoro, sulla porta, vedendomi piangere.
Mi staccai da mia sorella e andai a prenderla in braccio, a stringermela contro per sentirla vicino. Per sentirla mia. Era la mia bambina!
“Ti voglio bene, tesoro. Va tutto bene”, le sussurrai carezzandole i capelli rossi e boccolosi.
“Ti voglio bene anche io, papà”, mi disse lei stringendosi al mio collo.
Alice ci sorrise, anche lei con gli occhi lucidi, e poi tornò alla cucina, forse per non pensare a… Bella.
Stavo guarendo? Sarebbe ora dopo dieci anni. E come dicono in molti: ammettere il problema è il grande passo per superarlo. E forse ero davvero ancora innamorato di Bella, ma questo non cambiava le cose.
“Sedetevi a tavola. Ci metto pochissimo”, ci disse con voce roca Alice, mandandoci fuori dalla cucina.
E in quel momento capii che ero stato un egoista. Credevo che Bella avesse fatto male solo a me, che solo io soffrisse per lei. Nessie in fondo era avvantaggiata perché non l’aveva mai conosciuta ed Alice…
Mi sbagliavo. Io soffrivo come un cane, certo, ma Nessie aveva un dolore quasi simile al mio, provocato dalla mancanza di una vera madre, ed Alice aveva perso la sua migliore amica quel giorno, la persona a cui poteva dire tutto.
Come avevo fatto a non vederlo?
“Papà?”, mi chiese Renesmèe guardandomi negli occhi, ancora tra le mie braccia.
“Sì, tesoro?”.
“Perché piangevi? E perché zia Alice è triste?”, mi domandò mentre la facevo scendere e si sedeva a tavola. Io intanto cominciai ad apparecchiare.
“A volte ci sono dei ricordi che ci fanno soffrire e…”.
“Parlavate di mamma, non è vero?”, chiese senza troppi preamboli.
“Sì, parlavamo di mamma, Nessie”, dissi guardandola negli occhi, per la prima volta senza morire dentro. Perché lei non era Bella, lei era Nessie e quegli occhi erano di Nessie non di Bella.
“Non dovresti soffrire per lei, papà. Non dovresti soffrire per la mamma”, mi disse muovendo le gambine come al solito e notando che Alice apriva la porta con in mano la cena.
“E’ pronto! Tutti a… oh, siete già a tavola”, disse mettendo il vassoio sul tavolo e mettendosi ironicamente una mano sulla fronte, facendo scoppiare a ridere Renesmèe.
La studiai meglio. Aveva il dito rosso, segno che si era bruciata, cosa rara in Alice. Le guance e gli occhi rossi, segno che aveva pianto e che si era strofinata gli occhi per non farlo vedere. La manica destra era aggiustata sul braccio in modo perfetto, mentre l’altra era stropicciata, segno che era nervosa o  si era distratta.
Alice soffriva molto a causa di Bella. Perché diamine non me n’ero accorto prima?!
“Alice… mi dispiace…”, cerca di dire sussurrandole all’orecchio mentre l’aiutavo a mettere tutti in tavola.
“Tu non hai colpa”, la finì sedendosi e sorridendo a Nessie che ci guardava.
Già, io non avevo mai colpa, ma intanto non mi ero accorto che soffriva, non mi ero accorto che ero un egoista e non mi ero accorto che ogni volta che ricordavo facevo ricordare e soffrire pure le mie adorate ragazze.
No, ma io non avevo mai colpa di niente!
 
Ero entrato nell’aula insegnanti e mi ero stupito. Era vuota.
Non era una novità, visto che molti insegnanti erano già in classe ad aspettare con occhiate malandate gli alunni o molti arrivavano in ritardo peggio che i ragazzi, ma di solito Victoria era l’unica, con me, che rispettava gli orari normali. Ora però non c’era.
Al suo posto entrò Dafne Bright, professoressa di trigonometria.
“Ciao Edward. Qualcosa non va?”, mi chiese notando che la stavo guardando.
“Victoria?”.
“Oh, è in ferie per una settimana. Infatti mi tocca sostituirla, insieme a Gloria e Hope. Sarà un lavoraccio”, mi rispose andando via.
Victoria non aveva mai preso delle ferie in vita sua. Mai.
Feci passare in fretta la giornata, evitando ogni secondo di ozio, per fare in modo che la mente non pensasse troppo. Infatti mi ritrovai alla fine della giornata scolastica a pensare dove fosse Vic, come all’inizio.
Presi la macchina e chiamai Alice, chiedendole di passare a prendere Nessie a scuola se visto che accettò mi diressi verso casa sua, per vedere cosa non andava.
Arrivai dopo una decina di minuti e suonai subito al campanello, dopo aver attraversato il vialetto e chiuso la macchina.
“Edward?”, si stupì quando aprì la porta.
“Che succede? Perché oggi non sei venuta?”, le chiesi di fretta.
“Non volevo vederti, Edward. Ho bisogno di pensare, di capire, di sapere tante cose. Forse non sono la donna adatta a te”, disse quasi a se stessa giocherellando tesa con le mai. “E come se tu volessi che io diventassi un’altra persona. Ma io sono io, e non sarò mai chi tu vuoi che sia”.
“E tu pensi questo solo perché non sono voluto andare con te al cinema?”, chiesi stupito. “Sai che facciamo allora? Andiamo ora”.
Le presi le mani e la trascinai fuori dal vialetto.
“Che diavolo…? Edward, fermati!”, urlò. Mollai la presa e la guardai cercando di capire cosa volesse da me, visto che tutto ciò che facevo non andava bene. “Non voglio venire con te. Non voglio te. A volte credevo di conoscere James e poi…”.
“Victoria che cazzo stai dicendo?! Non me ne frega niente del tuo ex marito! Io non sono quel fottuto James, chiaro?”, urlai guardando i suoi occhi abbassarsi.
“Invece lo sei. I tuoi gesti, i tuoi modi di fare… sei come James e io non voglio James, io voglio un uomo che mi renda felice”, sussurrò.
Okay, era ora di prendere posizione e decidere cosa fare, decidere se finirla o continuare sopportando questi stupidi confronti da bambini dell’asilo. Era l’ora della verità.
“Ieri ho capito una cosa. Ho capito che una parte di me ama ancora la madre di Nessie. È così, non ci posso fare niente”, rivelai senza vergognarmi di sembrare uno stupido, anche se lei mi guardò disgustata. “Ma è una parte minima in me. Invece tu parli solo e sempre di James, di cosa faceva James, di come si comportava James! Anche lui è ancora parte di te… ma la differenza sta nel fatto che tu lo ami davvero ancora e tanto anche. Tu vuoi lui, molto più di quanto tu voglia me. Perciò torna da lui”.
“Edward io non…”, disse guardandomi andar via.
“Accettare il problema è il grande passo per affrontarlo. E tu devi solo andare da lui e dirgli che lo ami ancora. I figli potete adottarli, se è questo il problema”, dissi entrando in macchina e tornando a casa.
Era finita anche con Victoria? Sì, era finita.
Tornai a casa e mi trovai Nessie, da sola, a scrivere sul suo quaderno. Mi fissò, facendomi capire che Alice aveva avuto un’emergenza in ospedale.
“Io torno di sopra, papà. Vado a farmi la doccia prima che torni zia e mangiamo”, mi avvisò Nessie, sorridendomi ancora e lasciando il quaderno sul divano.
Mi avvicinai, appena lei scomparve al paino di sopra, dove si trovava la zona notte.
 
Renesmèe’s memory
-Josh ha chiesto a Sheryl di uscire. Non  mi piace quella tipetta, mi prende in giro.
-Papà ha pianto con Alice per mamma… non mi piace vederlo soffrire, non se lo merita
-Alice era un po’ strana… evitava di parlare e se ne andata subito per tornare in ospedale. Ho paura che c’entri con ieri
 
“Ragazzi! Sono a casa”, urlò Alice entrando in salotto e facendomi cadere il quaderno di mia figlia dalle mani. “Edward? Dove sei?”.
“Sono qui”, dissi andandole incontro per abbracciarla.
“Oh, come siamo teneri oggi”, disse abbracciandomi e poi guardandosi in giro. “E la mia bellissima nipotina dov’è? E dove sei stato tu?”.
“Nessie è di sopra e… ho lasciato Victoria”, dissi veloce. “Ama ancora il suo ex, ma non esattamente come me”.
“Oh, alleluia!”, sorrise saltellando felice. “Sono davvero contenta”.
“Non ti è mai andata a genio, non è vero?”, ridacchiai ricordando la sua faccia quando parlavo di lei.
“Insegna Inglese… è ovvio che non mi vada a genio”, rise ancora andandosi a sdraiare sul divano. “E poi con James ho fatto un errore, non voglio ripeterlo con te, anche James me lo diceva, e dove siamo finiti?... James, James, James! Che palle!”.
Risi e mi stesi acconto a lei. Ma un uragano con un asciugamano bianco in testa si fiondò in fondo alla scala.
“Zia Alice!”, sorrise felice buttandosi tra le braccia della zia.
“Vai subito ad asciugarti i capelli che ti prendi qualcosa, pazza!”, disse Alice alzandosi e portando Nessie di nuovo.  “Edward prepara tu… anzi telefona per la pizza, va”.
 
“Allora che succede?”, chiesi ad Alice dopo che il fattorino ci portò le pizze che avevo ordinato, mangiammo e misi a letto Nessie, che si era addormentata sul divano mentre guardava Notting Hill con Alice.
“Dovresti smetterla di guardare il diario di tua figlia”, commentò non staccando gli occhi dalla porta della camera di mia figlia. “E dovrebbe smetterla di studiarmi”.
“Allora che succede?”, ripetei non sentendo nemmeno ciò che mi aveva detto.
“Jasper Withlock mi ha beccata nella pausa prima che tu mi chiamassi per prendere Nessie e mi ha chiesto di uscire”, confessò girandosi e dirigendosi verso la sua camera. “Ho detto di no, essendo lui di grado minore a me, ma il pensiero di Bella mi ha colpita”.
“Di quando siete diventate amiche?”.
“Sì”, annuì cominciando a singhiozzare e ad avere di sicuro gli occhi lucidi. “Edward io… a volte la rivorrei davvero indietro, anche solo per spaccarle la faccia, ma la rivorrei con me”.
“Anche io”, rivelai andandola ad abbracciare, facendola girare verso di me. Sentii le sue lacrime bagnare la mia maglietta leggera con cui andavo a dormire.
Le accarezzai i corti capelli neri, presi dal fratello di Esme, che abitava in Canada. Poi le alzai il mento e fissai quegli occhi azzurri presi da papà Carlisle, dolci e decisi insieme, e le sorrisi.
“Tu lo ricordi, Edward?”, mi chiese sorridendo. “Ricordi che era…
 
…una giornata di fresca primavera. Io e Bella stavamo insieme da qualche mese, dopo litigi e abbracci di perdono a causa della storia David sono il figo capitano della squadra di football Loon, e sentivo che era ora di presentarla alla famiglia.
Partii da mia sorella, Alice. Lei era la migliore e avrebbe capito che ora amavo Bella e non importava cosa ci aveva spinti a parlarci la prima volta.
Così la portai al parco vicino alla scuola, dove avevo chiesto a mia sorella di fermarsi prima di uscire con Emmett per fare una ricerca per Spagnolo. Anche loro erano diventati come fratello e sorella.
“Ho paura”, mi confessò Bella prima di attraversare l’entrata del parco.
“Di cosa?”.
“Di essere giudicata”, mi guardò e si strinse ancora di più al mio braccio, come se qualcuno la inseguisse. “Di non piacerle, di doverti lasciare”.
“Alice è la ragazza migliore del mondo, dopo di te”, scherzai. “Non giudicherebbe nemmeno il suo peggior nemico, se volesse”.
Così si tranquillizzò con una risata e camminammo attraverso il boschetto fino ad arrivare al punto in cui una panchina era occupata da un piccolo folletto con un vestito di seta rossa. Alice.
“Alice”, la chiamai sorridente, vedendo che al suono della mia voce si voltò e sorrise nel vederci arrivare.
Quando fummo a pochi centimetri di distanza dal suo corpo decise di prendere la parola. “E tu dovresti essere la Isabella che l’ha portato via di casa tutti i pomeriggi tanto da fare impazzire nostra madre”.
Bella arrossì, dolce e impaurita allo stesso tempo, senza sapere come cavolo rispondere a mia sorella.
“Finalmente qualcuno lo sbatteva fuori di casa!”, rise Alice toccandole il braccio amichevolmente. “Erano mesi che si chiudeva in camera con quel suo maledetto piano!”.
“Grazie Alice”, commentai io, facendole ridere entrambe.
“Comunque puoi chiamarmi Bella, come tutti del resto”, concesse Bella sorridendo ad Alice, porgendole la mano. “A quanto pare mia madre non conosce nomi più moderni!”.
“Moderni come una stretta di mano!”, disse Alice stringendo la mano e poi avvicinandosi ad abbracciarla. Bella, schioccata, la lasciò fare, guardandomi stralunata. “Io non stringo mani, do abbracci”.
Bella rise e Alice la portò verso di lei, prendendole la mano e trascinandola verso una scultura in mezzo al parco e raccontandole tutto ciò che le passava per la testa.
Sarebbero diventate grandi amiche, me lo sentivo. Alice era la davvero la migliore.
 
“Si lo ricordo”, dopo che la nostra mente vagò nel passato per qualche minuto.
“Ma è giusto così, no?”, chiese retorica sposando la faccia dal mio petto, dove si era accucciata mentre ricordava, nelle piccole lacrime. “Se tornasse potrebbe portarsi via Renesmèe e non voglio”.
“Lei non ha più alcuna podestà su mia figlia”, conclusi senza pensare alla frase che aveva detto. Non volevo che si realizzasse anche solo pensandola. “La bambina è mia, l’ho cresciuta io e lei non me la porterà mai via. Nessun avvocato può negarlo”.
Alice annuì, si staccò dandomi la buona notte e io andai nella terza stanza, ovvero la metà di quella originale di Nessie, ma divisa con un muro di cartongesso. Alice non aveva una villa, anche se avrebbe potuto averla visto quanto guadagnasse, ma non la voleva proprio. Avevamo sempre vissuto nella norma, visto che Esme insegnava e Carlisle era un semplice medico ospedaliero, e volevamo continuare a vivere così. Non ci serviva niente di più.
Quella notte dormì bene, dopo tanti anni. Ormai per me il sonno vero era un miraggio o un miracolo se accadeva. Quando Nessie era piccola io o Alice ci svegliavamo talmente spesso che le occhiaie erano diventate parte permanente del nostro viso, tanto da farla preoccupare se non fossero più sparite. Una volta cresciuta, tonarono i miei incubi a tormentarmi e io rimanevo sveglio per notti intere, piangendo nel modo più silenzioso che potevo.
Odiavo piangere; mi faceva sentire un idiota, un ragazzino, uno stupido… ma non potevo evitarlo. E mi arrabbiavo ancora di più.
Ma ora era diverso, avevo ammesso il problema, ero più lucido e, finalmente, tranquillo. Sognai perfino i dolci di Esme, le filastrocche di Carlisle, cercando di tenerle a mente per cantarle a Renesmèe, e mi ripromisi di tornare a Forks per andarli a trovare.
“Edward, Edward svegliati”, mi disse una voce che riconobbi come quella della mia sorellina.
“Che c’è?” chiesi con la voce bloccata dal risveglio. Aprii gli occhi e vidi Alice, già vestita con il suo vestito blu elettrico con le maniche lunghe e la giacca bianca, mettere una mano sul cuscino.
“Io sto andando, porto Nessie con me”, mi avvisò veloce sapendo che sarei caduto nel sonno dopo poco. “Svegliati prima che esca da scuola”.
Poi sorridendo, uscii dalla mia camera e la sentii scherzare con mia figlia mentre usciva di casa, sicuramente per prendere l’auto e andare a scuola e poi all’ospedale.
Era sabato e nella scuola dove insegnavo era giorno libero, ma Nessie aveva i corsi di canto al sabato mattina a scuola e alle dieci dovevo portarla a casa.
Mi riaddormentai un poco, mettendo la sveglia sulle nove e mezza, così mi riposai di nuovo e al risveglio ero tranquillo e riposato come lo ero di rado.
Feci una breve colazione, mi vestii con indumenti più decenti per uscire di casa e, appena l’orologio scoccò stavo prendendo le chiavi della macchina per prendere Nessie.
Per esigenze lavorative io ed Alice dovemmo spendere il doppio per comprare due macchine, ma per lei non era un problema. In più decidemmo di non prendere le solite macchinone che potevi benissimo vedere in giro per le autostrade, ma due semplici autoritarie per muoverci meglio.
“Papà!”, esultò la  mia piccola mentre correva verso di me, vedendomi arrivare. Chiusi la macchina e le andai incontro, per prenderla in braccio appena fosse stata abbastanza vicina. “Oggi Alice non la smetteva di parlare!”.
“Sarà stata felice”, supposi sorridendo per la mia sorellina. “Che ne dici di andare a fare un piccolo spuntino da zio Emmett?”.
“Certo!”, esultò saltando giù dalle mie braccia per fiondarsi in macchina. Lei adorava suo zio. Ormai era più un amico di famiglia, su lui potevo contare davvero come un fratello.
Salii in macchina, facendo attenzione a fare sedere bene Nessie e a metterle la cintura, visto che voleva stare davanti con me, e partii verso il bar di Emm.
Ricordai quando lo aveva aperto; quante risate quel giorno! Io e… Bella, in procinto di partorire il mio angelo ramato, eravamo andati all’apertura e ci eravamo divertiti molto.
Anche lui aveva rinunciato alla scuola per avvocati che i suoi continuavano a proporgli. Lui era fatto per stare con la gente, per bere con gli amici e un bar era la cosa migliore che potesse fare. Dopo dieci anni direi che è abbastanza conosciuto e se la cava abbastanza bene. Ci sa fare.
“Papà?”, mi chiamò quel mio angioletto di fianco a me.
“Sì, tesoro?”.
“Zia Alice è innamorata?”, mi chiese guardando il paesaggio fuori dal finestrino passare veloce, con una manina che sosteneva la testa appoggiata alla portiera.
“Perché lo pensi, tesoro?”, chiesi stupito. Sapevo che lo era, anche se lo negava per cercare di proteggere me e  mia figlia. Quel Jasper Withlock l’aveva davvero impressionata.
“La nostra maestra qualche mese fa continuava a canticchiare felice e non ci sgridava più, anche quando non eravamo bravi”, cominciò a spiegarmi. “E poi ci disse che stava per sposare il suo principe moro e che l’avrebbe portata su un isola per festeggiare il loro amore”.
E consumare la prima notte di nozze, immaginai. Ma che diavolo di discorsi facevano le maestre alle classi di mia figlia?!
“E oggi Alice canticchiava felice e continuava a farmi i complimenti”, continuò convinta della sua deduzione. “Perciò o sta male, cosa poco probabile, o si sta per sposare, cosa ancora meno probabile, o è innamorata”.
Ridacchiai della sua logica infallibile e parcheggiai all’uscita del bar di Emmett. Nessie però non si scostava dal finestrino.
“Che c’è, amore? Siamo arrivati”, chiesi togliendomi la cintura e muovendomi verso di lei per fare lo stesso.
“Tu non canticchi mai, papà”, convenne. Oh, ci siamo, l’ora è arrivata. La fatidica domanda del tu perché non ti sei innamorato di nuovo dopo mamma?
“Perché la ragazza che amo sa già cosa provo per lei”, dissi prendendola un po’ in giro. Lei si voltò, sgranando gli occhi.
“E chi è? Chi è?”, chiese svelta. Non so se la fame di gossip l’avesse presa da sua madre o anche da mia sorella. Erano impressionanti.
“Fammi pensare… ha un nome particolare ma bellissimo, stupendi capelli rosso rame”, feci il misterioso vedendo con che voglia di sapere mi fissava. “Gli occhi marroni cioccolato e sorprendentemente il mio stesso DNA. Non è che per caso la conosci?”.
Lei perse ogni interesse e aprì la portiera sbuffando. Io risi e uscii dalla macchina, per poi ricontrarla e prenderle la piccola manina pallida.
“Io stavo parlando sul serio”, sbuffò con quella piccola voce bianca.
“Ma anche io!”, continuai a prenderla sul ridere.
Lei si accontentò e seguii il mio passo, per entrare nel bar. Erano le dieci perciò i clienti erano pochi, solo qualcuno per la colazione. Emm era dietro il bancone, seduto tranquillo a messaggiare visto che nessuno gli chiedeva niente.
“Un tavolo per due, grazie!”, chiesi andando al mio solito posto.
“Ormai non mi freghi più, Edward”, disse non staccando gli occhi dal telefono che smanettava. Probabilmente era nuovo e non aveva ancora capito come funzionasse. “Riconosco la tua voce lontano un chilometro”.
Presi in braccio Nessie e aspettai che si decidesse a guardarmi, prima che obbligassi mia figlia a prenderlo per i capelli.
“E la mia la riconosci?”, borbottò Nessie mettendo i gomiti sul bancone, poggiando la testolina sulle mani e facendo gli occhi dolci. In più una ciocca ramata a boccolo le cadde sul viso, rendendola ancora più perfetta.
Non ero uno sprovveduto o un illuso, sapevo che con una figlia del genere i ragazzi sarebbero arrivati presto. E non ero solo il solito padre troppo orgoglioso, era davvero così. A volte mi chiedevo come mai non l’avessero già contattata per metterla “sul mercato”  delle celebrità.
Ma d'altronde ero fiero di averla per me e di farla sentire una bimba normale, figlia di un normale insegnate. L’altra parte della sua vita era un’area chiusa, un campo che pochi avevano superato incolumi.
“Tesoro!”, disse Emmett appena sentii la voce di mia figlia risuonargli nell’orecchio. Si porse dal bancone, la prese da sotto le ascelle e se la mise in testa, facendola giocare come quando aveva quattro anni. Ormai non era più così piccina, ma il muscoloso zio Emmett riusciva sempre avere la forza necessaria per prenderla in braccio senza spaccarsi schiena o collo.
“Senza la nostra mascotte questo locale fa schifo!”, disse Emmett ridendo e facendola volare tra i tavoli, provocando una risata vera e cristallina dalla gola di Nessie. Dovresti venire più spesso, lo sai”.
“Dillo a papà”, mi richiamò mia figlia, come se fosse tutta colpa mia.
“Giusto… colpa tutta di papà!”, concluse Emmett come se leggesse nei miei pensieri, guardandomi fiero e sorridente.
Poi la mise giù, per farla giocare con i giocattolini che aveva lì apposta per lei. Segno che voleva parlarmi.
“Che c’è?”, chiesi sapendo che se non avessi detto niente l’avrebbe fatto lui.
“E’ davvero una bambina meravigliosa, Edward”, commentò senza farmi capire il centro della questione. “E non dovrebbe soffrire”.
“Non sono io il suo problema”.
“Sì, invece”, mi fece presente guardandomi negli occhi. “Alice non può fargli da madre per tutta la vita, ed ora hai pure mollato Victoria… sì me l’ha detto tua sorella! Ha bisogno di una madre!”.
“Ce l’ha una madre, non è colpa mia se lei però se ne frega di sua figlia”, risposi freddo, infastidito che Alice raccontasse in giro i fatti miei. Anche se sapevo che se non glielo avesse detto lei, l’avrei fatto io più avanti.
“Se la montagna non va da Maometto…”.
“Che vuoi dire?”, chiesi stupito della frase e del senso che trascinava con sé.
“Edward, una figlia del genere è un tesoro!”, mi disse indicando Nessie che andava in giro a canticchiare la nuova canzone che aveva imparato tra i tavoli pieni. “Vai da lei, falle prendere le sue responsabilità, falla vergognare di non essere colei che ha cresciuto una figlia così”.
“Dovrei usare mia figlia per vendicarmi di quella stronza? Dovrei andare da quella stronza?!”, gridai senza però scaldarmi troppo, per non far preoccupare nessuno. “Stai male?”.
“Non devi usarla. Le presenti sua madre e poi la riporti a casa con te, lasciandole l’amaro in bocca invece che l’eccitazione dell’attore coglione e figo di turno che la scopa solo perché è famosa”, disse forse esagerando con le parole in un luogo pubblico e con una bambina presente. Infatti si scusò con un sorriso, ma lui era fatto così.
“Non lo so, Emmett”, la finii. “Non voglio portarla da lei. Se le scattassero qualche foto mi ucciderebbe e vorrebbe la bambina solo per ripicca. So che lo farebbe, non ha scrupoli”.
“Non la ricordavo così sfacciata”.
“Non con me. Ma a quanto pare il parto ha riportato a galla la Bella stronza che era prima di quel ballo”, sputai fuori le parole come se fossero il pasto più schifoso del mondo.
“Ricordi il giorno della sua nascita? Ricordi quando eravamo andata a vedere? Aveva già qualche ciuffetto rosso e la boccuccia rossa rossa”, disse con la voce più dolce e tenera che gli avessi mai sentito.
“Sì, sì lo ricordo”.
Chiusi gli occhi, sia per la felicità sia perché non volevo che il dolore non mi colpisse troppo, e ricordai quella notte di terrore e gioia.
 
“Porca puttana, Edward!”, urlò Bella, mentre stavamo dormendo nel mio letto, come sempre negli ultimi mesi, visto che i suoi l’avevano quasi diseredata per la gravidanza. “Edward, mi si sono aperte le acque o qualcosa del genere”.
Mi svegliai, intontito come sempre, senza capire una parola di quello che aveva detto. “Che succede amore?”.
“Fanculo all’amore. Edward, sto per partorire cazzo!”, urlò, mandandomi a chiamare Carlisle… e mandandomi anche da qualche altra parte!
Dio mio, che linguaggio colorito!
Carlisle arrivò subito e insieme la mettemmo in macchina, mentre Alice le stava a fianco per incoraggiarla. Bella nel panico mostrava la parte peggiore di sé, con parolacce e gesti inaspettati. Ma non credevo così inaspettati…
Erano le tre del mattino e arrivammo all’ospedale dopo una decina di minuti, in cui quella santa donna di Alice riuscì a calmare la mia ragazza mentre mandava a farsi fottere il mondo intero perché avrebbe dovuto far uscire un esserino grande come un cocomero da un buco grande quanto una gomma per cancellare!
Però appena arrivammo la ginecologa e un altro medico chiamato da Carlisle la portarono via, cercando l’ostetrica, mentre obbligarono noi tre a rimanere fuori finchè non ci avessero detto altro.
“Edward Cullen, può venire a calmarla?”, mi chiamarono disperati dopo una manciata di secondi. Salutai Alice e mio padre e corsi nella sala parto, dove Bella era stesa a gambe aperte e aveva la faccia rossa come un peperone. Era quasi tenera se non stesse urlando come un’ossessa.
“Tu, figlio di buona donna, non osare mai più a mettermi qualcos’altro nella mia pancia o ti uccido!”, urlava stringendomi la mano così forte da aver paura che me la staccasse.
Io, con la mano libera, le accarezzai i capelli e cominciai a cantarle la canzone che più di tutte la calmava. Quella che avevo dovuto presentare due mesi prima alla Julliard se Bella non fosse rimasta incinta…
E dopo qualche parolaccia e qualche maledizione alla madre di chissà chi, cominciò a calmarsi e fare quello che i dottori le dicevano di eseguire. Urlò parecchio quella notte, molto di più di quello che pensavo potesse mai fare, in effetti, ma alla fine arrivò.
Era nata. Una femminuccia con piccoli ciuffetti rossi in testa e due occhi color del cioccolato. E cominciò anche ad urlare.
Ma mentre io la guardavo, già innamorato perso di quella creatura meravigliosa che non credevo possibile fosse mia figlia, Bella annunciò già la sua futura scelta.
“Dio mio, no… non cominciare con i pianti, ti prego!”. 
 
“Se non ci fosse stata Alice, non so che avrei fatto”, dissi bevendo il secondo bicchierino di schock che Emmett mi aveva passato.
“Certo che a dire una cosa del genere devi avere fegato”, commentò guardando quella furia di Nessie  correre in giro per divertire i clienti del mio migliore amico.
“Ho urlato quella frase per intere notti di un intero decennio, Emmett… a volte non ce la faccio”, dissi buttando giù il liquido amarognolo e pretendendone un altro po’.
“Ti ubriacherai, Edward”.
“Sì, ubriachiamoci Emmett! Così magari vado a segno di nuovo e dopo aver avuto il secondo figlio anche la seconda troia se ne andrà per recitare in un fottuto film!”, urlai quasi in lacrime.
“Che cosa? Eri ubriaco?”.
“Non io… era fuori di sé, secondo me anche un po’ fumata, e mi è saltata addosso, entrando in camera mia e buttandomi sul letto”, dissi ricordando la sera in cui credevo avessimo concepito mia figlia.
“Ma non vi eravate dati appuntamento per una cosa… seria e decisa?”, mi ricordò arcuando le sopracciglia.
“Infatti… ma lei si presentò all’appuntamento ubriaca e con della coca nello zaino. Che dovevo fare? Avevo diciannove anni, alle prime esperienze, e la mia ragazza mi si era buttata addosso, togliendosi i vestiti”, spiegai meglio. “Dimmi Emmett, che avresti fatto?”.
“Esattamente quello che avrai fatto tu”.
“No, tu te la saresti fatta, io invece l’ho respinta... all’inizio”, confessai, sussurrando l’ultimo pezzo quasi vergognandomi. “Non volevo che succedesse così, non volevo che Nessie nascesse così, non volevo…”.
“Che se ne andasse la mattina dopo lasciandoti  solo?”, concluse per me.
“Per il provino”, conclusi di nuovo io.
Lui scosse la testa e mi diede il mio adorato bicchierino di schock senza fiatare. Ne avevo bisogno, lo sapeva.
“Ubriacati pure, al massimo la piccola la porto a casa io”, acconsentì per poi ridere un po’, vedendo che non  accettavo più l’alcolico.
“No, tranquillo, ce la porto io”, dissi chiamando Nessie e mettendola comoda sulle mie ginocchia, per farla giocare n po’. “Devo anche parlare con quella ficcanaso di mia sorella”.
 

Piaciuto!?
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