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Autore: Whole_Cullen    26/08/2011    1 recensioni
Ciao a tutti! E' la mia prima ff e spero che possiate apprezzarla.. La mia storia narra un pò del mio rapporto con Twilight, molto forte e struggente. Davvero così potente che un desiderio immenso potrebbe diventare realtà..e quindi.. E se i Cullen entrassero nella mia vita? E se stessero per scomparire? E se io dovessi fare di tutto per evitare che ciò accada? E' una cosa innovativa e spero vi piaccia. Buona lettura e saluti!
Genere: Avventura, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Finalmente.. sono di nuovo qui :D non potete capire quanto mi senta contento e sollevato per essere riuscito a completare questo capitolo.. anche se provassi a descriverlo, sarebbe difficile spiegarvi sul serio tutto lo sforzo che mi ha impiegato.. è estate, sono in vacanza, e sono rimasto tutte le sere a casa a scrivere, fino alle 3 o alle 4 di notte.. se vi dico che è stato complicatissimo, e che MAI in vita mia avrei pensato di mettermi a narrare episodi come questi, non è per impietosirvi e per catturare la vostra attenzione, come una Captatio Benevolentiae, ma è perché dico la verità.. sono in estasi soprattutto perché non credevo di essere in grado - anche se diciamo che ancora ora non credo di esserlo - di descrivere in ogni dettaglio una simile situazione, così tragica, spaventosa e colossale insieme.. comportava una capacità lessicale molto molto elevata.. aggettivi, descrizioni, pathos.. non so se ne sono stato all'altezza.. ma bè, so che comunque il capitolo è qui.. :D Ma in realtà non so bene a chi mi sto rivolgendo.. perché nessuno mi segue e mi recensisce saltuariamente, tranne te, Ale - Jazzina_94.. sei l'unica, e tutto questo è per te.. si insomma, te lo dedico proprio.. tutto il mio sudore, e ll sangue che ho buttato, e ciò che ne è uscito fuori, ossia questo capitolone di 16 pagine e mezzo.. è tutto per te :D ti ringrazio di tutto.. e spero che possa apprezzarlo.. con affetto, buona lettura, Peppe :3
P.s. Ale, alcune.. 'piccole cose', le ho rimandate al prossimo capitolo, altrimenti diveniva troppo lungo.. ma tranquilla, non sarà lunga l'attesa :D AH, un grazie particolare, ma davvero Particolare -nel senso di strano, singolare - anche a te, Adri, che, nonostante le tue difficoltà a riguardo, mi sei stata molto vicina in tutto il periodo della battitura :] thanks <3


13. Tre, due, uno: disastro

 

Non ebbi il tempo di svenire, perché un boato fragoroso squarciò la tacita quiete di quell’attimo, rimbombando denso e profondo nei nostri timpani. Il pavimento vellutato cominciò a tremare; le vibrazioni si fecero man mano più vigorose, poi divennero scosse potenti che squassarono la stanza e mi destabilizzarono, facendomi crollare a terra, mentre tutto ondeggiava in quella confusione. Un quadro si staccò dalla parete e andò a sbattere contro un mobile lì a fianco: la cornice si frantumò; il vaso di cristallo posizionato al centro del tavolo, cadde al suolo, fracassandosi in mille cocci aguzzi; perfino Alice aveva perso stabilità, urtando contro la parete. Al buio, in assenza di luci, l’inquietudine e la pericolosità della situazione sembravano moltiplicati per dieci.

La nave fece attrito sulla superficie dell’acqua. I boati erano sempre più energici, sembrava che la nave stesse mugolando.

Poi, il silenzio. Non ci muovevamo più. I nove vampiri davanti a me si guardarono attorno, cercando nello sguardo dell’altro una qualche risposta ai propri interrogativi.

Ero ancora steso per terra, con l’orecchio che poggiava direttamente sulla moquette azzurra. Chiusi gli occhi e mi concentrai. Mi pareva di sentire un vociare indistinto, un cicaleccio lontano, e non capivo da dove provenisse. Nella stanza, tutti si erano richiusi dentro se stessi in un vuoto privo di parole. I suoni divennero più forti, e cominciavo ad accorgermi che giungevano dal basso. Lentamente, salirono su, ed si infilarono nel mio orecchio destro.

Sbarrai gli occhi.

Le urla di migliaia di persone ora erano perfettamente udibili; terribilmente, maledettamente udibili. Quattordici piani più giù, nell’immensa sala del ristorante, i passeggeri della nave gridavano e si dimenavano nel buio, strattonandosi a vicenda, impauriti e inutili nell’assenza di soluzioni; e tra quelle persone, c’erano mio padre, mia madre, la mia sorellina, e la mia migliore amica umana.

Un brivido mi corse lungo la schiena frustandomi come una scarica elettrica, e balzai in piedi, tremando.

"Ditemi cosa devo fare. Subito."

Le mie parole risuonavano perentorie, ma di fronte a quella situazione così assurda, persino i vampiri sembravano spaventati. Li guardai uno ad uno, aspettando che qualcuno si facesse avanti, ma nel caos, non mi ero accorto di una cosa: Edward era improvvisamente sparito.

Perlustrai la camera con lo sguardo, e, nella camera adiacente alla nostra, notai che l’oblò era spalancato. Fissai gli occhi su quel dettaglio, mentre lo scroscio di pioggia persisteva al di fuori, incessante; dopo mezzo minuto, una figura scura, irriconoscibile nell’oscurità, fece uno scatto fulmineo, comparendo dal nulla, e si infilò in quella fessura.

Edward venne avanti nella nostra direzione, fradicio d’acqua dalla testa bronzea ai piedi.

C’era tensione nell’aria. Le urla dal basso si facevano sempre più acute. Ero impaziente.

"I motori sono stati spenti", spiegò d’un tratto Edward. "Quelle scosse sono state causate dal tentativo repentino di bloccare all’istante la nave: stavamo andando a infrangerci contro una muraglia rocciosa alta più di cinquanta metri. Ora siamo fermi, in mezzo al niente, in attesa che la tempesta si plachi e torni la corrente, altrimenti chiameremo dei soccorsi. Hanno anche calato l’ancora. Ho sentito la conversazione tra il capitano e l’ufficiale di bordo. Per il momento, non sono ancora spaventati."

Ascoltare i dettagli della tremenda situazione in cui ci trovavamo, era doloroso e allucinante come immergersi in una vasca piena di ghiaccio.

Alice aveva visto qualcosa di terribile, e serviva una soluzione per metterci in salvo. Tutti.

"Alice, ti prego, dimmi.. dimmi cosa devo fare, cosa posso fare", la supplicai.

Lei si scostò dalla parete, e si piazzò di fronte a me.

"Peppe, credo che avremo ancora più o meno un’ora, prima che accada ciò che ho visto. Devi tentare di avvisare qualcuno, devi far sì che le persone ti credano, almeno i tuoi genitori, perché dovete chiedere aiuto a qualcuno, e subito."

Quelle parole mi illuminarono come uno dei fulmini che squarciavano il manto scuro del cielo. Dovevo correre, avevamo una speranza, e la sentivo palpitare dentro di me come una mistica forza che mi spingesse a fare qualcosa per salvarci.

"Posso usare il telefono cellulare?", chiesi, sperando in maniera utopistica di poter affidamento su una soluzione semplice e più a portata di mano.

"No, è inutile e impossibile; non c’è campo, non può esserci, la tempesta è troppo forte. Devi cercare aiuto nella nave".

"Noi verremo con te, e ti daremo una mano, per quello che possiamo fare", disse Edward, che intanto, in una manciata di secondi, si era già tolto i panni bagnati di dosso, sostituendoli con degli asciutti.

Annuii con forza e decisione, e mi precipitai fuori dalla suite per raggiungere le scale, seguito dall’intera famiglia.

Mentre camminavo, mi accorsi che un fiotto di luce bianca inondava i corridoi, proveniente dall’alto, e verificando con lo sguardo, notai una lunga serie di lampade al neon di emergenza che costellavano tutta la parete. Poi, da un momento all’altro, quel bagliore troppo candido e un po’ fastidioso sparì, e al suo posto, si riaccesero le consuete luci dalla tonalità cerulea che erano proprie della nave.

Mi fermai, meravigliato.

"La corrente", sospirai, come fosse una benedizione divina. Dal basso, le grida si placarono. Mano a mano, la nave riprese vita.

"Fa lo stesso, Peppe, muoviamoci!", esclamò indifferente Alice.

Proseguimmo continuando la nostra corsa, e giungemmo davanti l’ascensore, consapevoli ora di poterla utilizzare. Dopo aver pigiato un pulsante, le porte si spalancarono, e dall’interno, sbucò la testa scura di mio padre.

Non mi aveva ancora visto, per cui cercai lentamente di svignarmela, ma in quel momento fece per uscire, e me lo ritrovai proprio di fronte.

"Oh, Giuseppe!", disse lui con un’enfasi particolare. "Ero così preoccupato, sei sparito, per l’ennesima volta. Quel terribile blackout! Non puoi immaginare il panico che serpeggiava tra i tavoli, di sotto. Fortuna che ora si è sistemato tutto, andiamo!".

Mi trascinò dentro, afferrandomi per il braccio sinistro.

"Noi scendiamo a piedi. Parlaci!", bisbigliò Edward, prima che si richiudessero le porte.

Quando fummo soli io e lui, lo guardai in faccia, per la prima volta da tanto tempo. Aveva un’aria stanca, le folte sopracciglia sembravano pesargli sulla fronte, come quelle di chi è rimasto aggrottato e teso per del tempo, e ora può tornare a rilassare i muscoli facciali. Osservai invece la mia sagoma riflessa allo specchio: era tutt’altro.

"Papà, ascoltami.. devo dirti una cosa", proferii, cercando di assumere un tono grave, consono alla situazione.

"Dimmi, quello che vuoi", mi incoraggiò lui.

Deglutii, cercando di sciogliere il groppo in gola. "Allora.. so bene che io agli occhi di voi tutti posso sembrare un tipo strambo, che ha la testa tra le nuvole, e poco affidabile in ciò che dice.. ma su quello che sto per dirti, devi prestare molta attenzione: ci sarà un incendio".

Presi un pausa di qualche secondo, dandogli il tempo di metabolizzare. "Lo so, è così. Devi credermi. Ti prego. Ci infrangeremo contro quella scogliera dalla quale ci siamo salvati poco fa. E’ una cosa.. matematica."

Cercare di spiegargli ciò che una vampira con poteri preveggenti aveva visto nella sua mente, senza tra l’altro passare per un mentecatto e un paranoico, era troppo difficile, quasi impossibile.

Mio padre tornò ad assumere l’aspetto accigliato che aveva appena abbandonato, e mi rivolse la più sconcertata delle espressioni.

"Come fai a sapere queste cose?".

"Io.. ecco.. non c’è un modo preciso.. ma, insomma.. le so. E devi credermi!".

Trasse profondi sospiri, prima di parlare. "Senti.. tu sei mio figlio, ed io dovrei sostenerti sempre, lo so. Ma in questo periodo sei troppo, troppo strano. Non ti ho mai visto così. Hai passato più tempo da solo in una settimana che in quindici anni. Dammi almeno una sola ragione per cui dovrei crederti, ed io ti crederò".

Mancavano solo due piani al ristorante, e man mano che scendevamo, sentivo una musica classica, di violino e violoncello, riempire quel vuoto silenzioso che si era creato tra di noi.

Poveri, pensai. Maledetti ignari. Ora suonano, non sanno cosa accadrà, ed io non ho alcun modo per convincerli tutti.

Le porte si aprirono con un altro squillo, e questa volta fui io a sospirare. Sentivo lo sguardo di mio padre addosso, e non sapevo cosa dire.

"Mi dispiace", si scusò. Aspettò che uscissi io, e poi mi seguì. Appena mi ritrovai fuori, fui subito investito da quella ridicola melodia che avevano preso a suonare alcuni musicisti su un palchetto appena allestito davanti alla vasca della fontana in fondo alla sala. Era tutto di nuovo totalmente illuminato, dalla minima lampadina, al più sontuoso lampadario diamantato. Pareva essersi ristabilito l’ordine e la tranquillità: tutte le persone sedevano beate ai loro tavoli, sorseggiando liquori pregiati e finissimo caffè, mentre io invece dentro urlavo di disperazione e di terrore, e una parte di me moriva secondo per secondo. Sembrava il gioco degli opposti. Vedere tutti così placidi e rilassati, di fronte al pericolo imminente che avrebbe sconvolto ognuno di loro, era assurdamente paradossale, inverosimile. Anche se, nella loro pacatezza, mi sembrava che stessero cercando di mascherare la paura, dissimulandola.

"..ed è per questo che non c’è motivo di allarmarsi. Ve lo ripeto ancora una volta, signore e signori, abbiamo dovuto interrompere la nostra marcia per una questione di sicurezza, la tempesta è molto, troppo potente, ed è più sicuro restare fermi per un po’, fin quando non comincerà ad affievolirsi. I motori sono stati spenti per questo, e abbiamo anche calato l’ancora. Stando fermi, abbiamo allontanato il rischio di un altro blackout. Ci scusiamo immensamente per i disagi che ne sono derivati."

Il comandante in persona stringeva in mano un microfono, sul palco dei musicisti, mitigando l’ansia dei passeggeri. Stava parlando già da prima, ma non avevo prestato attenzione alla sua voce, confondendola con quella della folla.

Tutto, tutto quanto, era ridicolo, assolutamente ridicolo.

Una mano gelida arrivò a bloccare il mio flusso di pensieri, posandosi sulla nuca. "Siamo con te, ti seguiamo. Avanti". Era Jasper, assieme a tutti gli altri, che tentava di rasserenarmi e infondermi coraggio.

"Ehi, guarda!", disse all’improvviso mio padre. "Eccoli tutti lì, li vedi? Mamma, Pia e Alessia. Ci hai lasciati qui da soli, ma per fortuna stiamo tutti bene. Andiamo, raggiungiamoli!", e di nuovo mi prese per il braccio, trascinandomi a forza verso il tavolo al centro della sala.

"Papà, lasciami. Lasciami subito, ho detto!", urlai.

"No, basta, adesso tu vieni con me. C’è tua sorella che ti cercava, vieni!".

"Ci parlo dopo con Pia, adesso lasciami andare!".

"No, tu sei pazzo, ora stai con noi!".

Lui insisteva; e insistevo anche io.

"Papà, moriremo!".

"Non morirà nessuno, sta zitto!".

Rabbia. Rabbia. Rabbia.
"Non sto zitto, e ora lasciami!".

Fu un sovrapporsi di urla torbide e incandescenti. Lui continuava a tirarmi contro voglia, e la sua presa era salda, rigida. Alla fine, riuscii a svincolarmi dalla sua mano possente, ormai sudata, scivolando sulla sua pelle umida. Lui mi guardò allibito, ma non ebbi il tempo di stare a discutere con lui. Speravo che un giorno avrebbe potuto ringraziarmi per ciò che tentavo di fare.

Corsi via, cercando di raggiungere il comandante, che ora stava scendendo le scale del palchetto. I Cullen seguivano a ruota la direzione della mia corsa. In un lampo fui davanti a lui, un uomo sui sessant’anni, ben tenuto, dai capelli grigi, nascosti da un berretto blu pieno di targhe onorifiche. Il suo orgoglio senile, da esperto e assennato capitano di mare, mascherava quel velo di paura che vedevo crescere anche nei suoi occhi.

"Comandante! Comandante, la prego mi ascolti! Sono qui!".

Lui parve disorientato, e si guardò attorno, cercando di identificare quel richiamo. Quando mi trovò, a qualche metro da lui, la sua espressione si coprì di meraviglia e quasi di scherno denigratorio.

"Ooh si, tu! Ho sentito diverse cose su di te. Sei il ragazzo che ha ‘aggredito’, per così dire, la signorina al cinema?". La sua voce era roca, calda, e nascondeva una risata.

"Si, sono io. Ma lasci perdere questo, e mi ascolti: sta per scoppiare un incendio su questa nave. Lo capisce? Lei mi deve credere, la prego! Un incendio, un incendio mostruoso! E poi sbatteremo contro quella scogliera. Deve assolutamente chiedere aiuto, subito".

Avevo cercato di impormi, ma il comandante sembrava essere solo divertito dalle mie parole lacunose e profetiche.

"Ragazzo mio, non devi preoccuparti tu di questo.. vai a sederti dal tuo tavolo, dalla tua famiglia, e sta sereno..". Quel tono caricato di ostentata premura e finta affabilità mi innervosiva. Mi prendeva poco sul serio, e anzi, si divertiva a guardarmi con quello sguardo irrisorio, come se stesse parlando con uno psicopatico.

"Al diavolo!", gridò infastidita Alice dietro di me.

"Io sono il comandante di questa nave, sono in mare da cinquantacinque anni, e credo di sapere perfettamente cosa fare, sicuro meglio di te, che..".

Mi rivoltai a tal punto che una bestia feroce si impadronì di me, sovrastando la calma. I miei nervi ipertesi non riuscirono più a resistere, e sentii come se nella mia mente fosse scattata la molla che arginava il nervosismo, e avesse liberato così tutta la mia rabbia, straripando oltre i confini dell’autocontrollo. Gli saltai addosso, e lo afferrai per la cravatta. Lo scrollai a destra e sinistra, sbraitando nella mia isteria. Nella sala si sollevò un boato di stupore sconcertato.

"L-e-i d-e-v-e a-s-c-o-l-t-a-r-m-i! Dannazione, le sto dicendo che questa maledetta nave di merda si schianterà e brucerà e lei mi ride in faccia! Cazzo, faccia qualcosa, faccia qualcosa, le sto dicendo di..".

"Sicurezza! Sicurezza!", si sgolò l’uomo in cerca di aiuto.

Continuavo a dimenarmi e scuotere violentemente il comandante, accecato dalla rabbia, offuscato dalla tensione, annebbiato dalla paura, quando, all’improvviso, un paio di possenti braccia mi sollevarono da dosso il corpo dell’uomo: una banda di quattro figure massicce in uniforme era dovuta intervenire per mitigare il mio furore.

"Calmati, ragazzo!", inveì uno di loro. "Stai combinando troppi guai! Adesso ti portiamo nell’ufficio del..".

"No, no, no! Lasciatemi! Ho detto lasciatemi!".

Mi trasportavano, sollevandomi in alto. Qualcuno mi teneva per le braccia, qualcuno per le gambe, qualcuno per il busto, qualcuno per la testa. Era terribile.

"Aiuto, aiutatemi!", invocai un soccorso che credevo non sarebbe mai arrivato.

Qualcuno piangeva. Forse mamma. Chissà quanto potessero essere delusi i miei genitori di me.

"Aiuto, aiut..", illuminazione. "Edward!", gridai, disperato, allo tremo, costretto. Ero sicuro che tutti mi avessero sentito. Allungai la mano, sperando che il mio amico vampiro la stringesse.

Chiusi gli occhi, serrandoli con forza, e mi caricai di tutta la speranza che avevo in me che Edward venisse a salvarmi.

Poi...

Fu una sospensione nel vuoto, un equilibrio instabile nell’aria, in attesa di atterrare al suolo. Ricaddi nello stesso vortice turbinoso di qualche giorno prima, che mi fece roteare come in una centrifuga.

Sfuggii alle braccia di quei terribili accalappiacani, e mi ritrovai avvolto in quella meravigliosa patina azzurra, irraggiungibile, eterea. Fui investito dagli stessi raggi argentei che filtrarono anche attraverso lo spessore delle mie palpebre. Lì la temperatura era scesa di almeno una decina di gradi.

Ero di nuovo invisibile. Cercai il volto di Edward, mentre gli stringevo la mano, e vi trovai solo costernazione e paura. Un brivido – non so bene se di freddo, o di paura – mi fece contorcere lungo la spina dorsale.

Più di mille persone ispezionavano la sala cercando qualche indizio che rivelasse la mia presenza. Ma nulla. Tutti si coprivano la bocca per nascondere quell’espressione esterrefatta che ormai accompagnava qualsiasi cosa mi riguardasse. Nessuno poteva vedermi, ma io potevo vedere loro. Perfino i musicisti di violino e violoncello avevano interrotto la loro melodia per seguire la vicenda. C’era molto silenzio, un silenzio quasi imbarazzante.

Al tavolo della mia famiglia, Alessia era stata raggiunta dai genitori e dal fratello più piccolo. Il suo viso era quello più serio e titubante; non diceva una parola, ma era zitta e concentrata ad elaborare i suoi pensieri, a collaudare pezzi di un puzzle che forse le stava diventando via via più chiaro.

"Peppe, dobbiamo andare, abbiamo poco tempo, dobbiamo cercare una soluzione", cercò di smuovermi Alice, anche lei incapsulata in quella cortina evanescente.

In quel momento, il comandante si alzò da terra, dove l’avevo buttato io; si sistemò il berretto e la cravatta, con una calma solenne ed ermetica, quasi non si curasse di ciò che era appena accaduto, e anzi, quasi non desse alcun conto al fatto che un ragazzo fosse sul serio sparito davanti ai suoi occhi, e si avviò con un’aria decisa e risoluta verso una finestra sul lato destro della sala.

"Aspetta Alice, un secondo..".

Volevo appurare cosa avesse in mente.

Il capitano scosto le tende di seta, e guardò fuori. Esaminò a lungo la tempesta, i tuoni, il vento. Poi, tornò verso il gruppo di poliziotti, che intanto erano rimasti con un’aria sconvolta e turbata, e quando fu proprio davanti a loro, riferì un ordine secco e determinato.

"Dite pure all’ufficiale Mardock, di levare l’ancora, e di fare accendere i motori."

La gola mi si strinse come se qualcuno mi ci avesse attorcigliato un cappio attorno, con l’intenzione di strangolarmi. Mi mancava il respiro. Sentivo che le forze mi stavano abbandonando. Ricordai anche che circa un’ora fa, seduto al mio tavolo a mangiare placidamente mousse al cioccolato, avevo pensato di esser stanco e voler dormire un po’. Ormai, non riuscivo più a convincermi che in qualche modo ce l’avrei fatta a cambiare l’esito sfortunato di quella crociera. Anche la fiducia mi veniva meno.

Com’era possibile che proprio il comandante della nave ordinasse di far accendere i motori? Credeva forse che il temporale si stesse mitigando? O era puro orgolio?

"Peppe! Peppe, ti prego, riprenditi!", Alice mi scrollò vigorosamente le spalle, nel tentativo di scuotermi emotivamente.

Il mio sguardo era attonito, assente.

"Peppe", intervenne Edward, "il capitano ora vorrà provare ad attraversare il canale perché non manca molto, non è convinto di farcela, ma lo spera profondamente, confidando anche nella grandezza della nave, si siederà a un tavolo a sorseggiare caffè e lascerà la sua cabina vuota. Vuota, capisci?". Alice calcò quella parola come se contenesse miliardi di significati. Ma non ne coglievo neanche uno. Mi sentivo un fantasma. "Sicuramente ci sarà una radio, o qualche apparecchio nautico per i segnali di SOS", riprese Alice. "Dobbiamo andare, corri!".

Cominciarono a sfrecciare uno ad uno tutti e nove, mentre io rimanevo immobile, di piombo, davanti ad Edward. Ci guardammo di rimando; mi accorsi che nel suo volto c’era tanta comprensione, oltre che timore e dispiacere.

Senza che neanche me ne accorgessi, compì due o tre mosse fulminee, sollevandomi e spostandomi come se fossi una piuma. In mezzo secondo, fui sulle sue palle, ancora una volta, mentre lui volava tra i tavoli.. poi per le scale.. poi per i corridoi..

Mi concessi di chiudere gli occhi, poggiando sulla sua spalla la testa ormai troppo pesante per i miliardi di pensieri che l’affollavano. Le immagini nella mia mente si appannarono, come viste dietro un vetro velato dal vapore. Non avevo più energia in nessuna parte del mio corpo, ed Edward, accorgendosene, mi manteneva stretto sia le braccia che le gambe.

Il mio sonno fu tanto breve da durare meno di due minuti, ma per il mio cervello in tilt sembrò essersi protratto per ore.

"Ehi tu, apri gli occhi, su..". Edward sussurrando, mi posò per terra. Mi tenne sempre la mano, e mi sosteneva il busto, aspettando che mi riprendessi.

Seppur ancora troppo intorpidito, mi resi conto della situazione e imposi al mio corpo di compiere l’ultimo sforzo, prima di dover affrontare la morte.

Aprii gli occhi, e vidi tutti i Cullen affianco a me. Davanti, attraverso la patinatura azzurra che mi rammentava di essere ancora invisibile, al centro di una larga parete si ergeva una porta con su scritto:

CAPITANO M. PERICOLI’.

"Gran bel nome..", osservò Rosalie.

Le sue parole mi servirono ad aggrapparmi alla dimensione del reale. Mi diedi qualche schiaffo in faccia, svegliati, pensai. Ripresi un po’ di animo e di coraggio. "Entriamo".

Emmett spalancò la porta, e ci intrufolammo tutti dentro quella stanza. Era abbastanza spaziosa, rettangolare. Il soffitto era di cemento, ma davanti c’era una grande vetrata che affacciava sul ponte della nave e poi sul mare. Rivolsi attentamente lo sguardo alla tempesta, lì fuori: sembrava stesse peggiorando, se fosse possibile; i venti soffiavano intensi e veloci, urtando contro la superficie del vetro, quasi volessero infrangerlo; la pioggia non assomigliava più a uno scroscio incessante e violento di grosse gocce d’acqua, ma piuttosto a un’enorme cascata che si abbatteva dal cielo sulla terra e sul mare; i tuoni dilaniavano il cielo una volta ogni cinque secondi. Sentivo il pavimento tremare.

Sulle mura, quadri, foto, premi, oggetti di ricordi. Ma la parete di destra era tutta occupata da una lunga scrivania, sulla quale brulicavano cartine, fogli vari, penne, goniometri, e.. un’enorme radio rossa. Era una cassa quadrata di circa un metro e mezzo per lato; aveva una quindicina schermi sui quali comparivano le frequenze, e innumerevoli bottoni, pulsanti, di svariate dimensioni e colori.

Senza pensarci, mi staccai dalla mano di Edward e corsi verso l’apparecchio, attraversando la cortina azzurra. Sentii un ‘pop’, come quando buchi un palloncino con un ago, ma niente di più.

Ero di nuovo visibile. Ispezionai quella grande macchina elettronica, cercando di capirci qualcosa, ma invano.

"Ragazzi!", invocai aiuto.

Carlisle si diresse verso di me, e mentre si accingeva a premere qualche tasto, sentimmo dei rumori assordanti provenire dal fondo della nave; rumori che mi ricordarono un suono di catene pesanti e arrugginite che strisciano per terra.

Ci bloccammo tutti.

Appena quel frastuono terminò, ne cominciò un altro, più potente; non ci furono solamente rombi assordanti, ma sembrò che la nave si stesse muovendo, facendoci perdere l’equilibrio; una forte trazione portò la nave in movimento.

Avevano levato l’ancora, e acceso i motori.

Con un’aria sgomenta, mi precipitai alla grande finestra, constatando con un lacerante urlo di disperazione, che la nave aveva effettivamente ripreso la sua marcia sulla superficie increspata e agitata del mare. Riuscivo persino a scorgere la scogliera, a ovest, non più distante di qualche centinaia di metri.

Pericolo. Enorme, fottutissimo pericolo.

"Peppe, vieni qua, ho preso la frequenza giusta!", urlò Carlisle. "Ascolta se risponde qualcuno, parlaci!".

Tornai davanti la radio, e afferrai una specie di cornetta che mi aveva allungato il vampiro, e la sistemai tra l’orecchio e la bocca.

Sentivo fruscii, onde che squillavano acute, vibrazioni. Poi, mi parve di riuscire a distinguere una voce maschile. Diventava sempre più nitida.

"Pronto..? Pronto? Qui Robert Brennett, della Galaxia. Qualcuno mi sente? Mi ricevete? Mi ricevete?", diceva.

Infervorato, colsi subito l’occasione. "Si, si, pronto! Mi ascolti, abbiamo bisogno di aiuto! Ci serve aiuto, aiuto, mi sente?", cercavo di scandire le parole quanto più chiaramente mi fosse possibile.

"Con chi parlo?", rispose la voce sconosciuta, con un accento straniero, italianizzato. "Su quale imbarcazione vi trovate? Mi dica la vostra posizione".

"Si, si, siamo.. siamo su una nave da crociera della ‘White Star Corporation’, nel canale di Suez.. Non so dirle precisamente la posizione, ma la prego, mandi qualcuno a salvarci, la situazione qui è critica.. io.. io..".

La paura mi attanagliava a tal punto che le parole mi si impiastricciavano in bocca.

"Io.. per piacere, ci aiuti..".

Sospirai, sull’orlo di una crisi di pianto.

"Ho paura".

"Ascolti", replicò seria e apprensiva la voce, "non so con chi sto parlando, non so lei chi sia, ma posso dirle chi sono io: sono il comandante della Galaxia; la mia nave è partita dall’Australia tre settimane fa per una crociera verso il Mediterraneo, abbiamo attraversato il canale di Suez proprio ieri, ma siamo capitati nel bel mezzo di questo terribile temporale, e siamo stati costretti a fermarci ad un porto egiziano. Ora mi trovo nella cabina radiofonica del complesso nautico portuale, dove vengono captati segnali radar delle radio a più di mille chilometri di distanza: sto aspettando di avere notizie dalle vostre zone, per accordarmi la partenza per il ritorno, ma a quanto vedo la situazione è pessima".

La voce si interruppe per qualche secondo. Poi riprese.

"Senta, qui non parte nessuna nave, sono tutte bloccate nel porto, in attesa che il cielo schiarisca e acqua e pioggia si fermino. E’ stata vietata la partenza a qualsiasi tipo di imbarcazione. Vi trovate in un gaio grosso. Ma vedrò cosa posso fare per mandarvi un soccorso quanto più presto possibile". Un’altra pausa.
"La prego di far presto, perché qui..".

Tu-tu-tu-tu-tu-tu, fruscii, onde, vibrazioni. Silenzio.

Mi sentivo il viso troppo contratto, come se si fossero pietrificati i miei muscoli facciali.

"Abbiamo sentito abbastanza, Peppe", interagì una voce più vicina e reale, quella di Carlisle, che mi staccò la cornetta da mano e la mise al suo posto. "Verranno. Vedrai". Cercava di rasserenarmi, ma in quelle condizioni, era difficile.

Mi voltai verso di loro, e scoprii che come me erano affranti e nervosi.

"Alice, vedi niente?".

Lei si mise le mani tra i capelli, quasi volesse stracciarseli. "No, niente, niente, niente!".

Sospirai.

"Che cosa possiamo fare?".

Chiederlo ancora una volta forse era da stupidi, ma cercando di scovare nella mia mente una soluzione per scampare al disastro che incombeva su di noi, non vedevo altro che un grande vuoto, denso e assoluto, dentro cui sconfinavano le mie paure. E il pensiero di non poter fare a meno di soggiacere impotente allo scorrere funesto del tempo, e di dover affrontare a mani vuote, senz’armi e vie d’uscita, un simile flagello, questo pensiero mi straziava la mente.

"Possiamo solo aspettare", rispose Carlisle, scoraggiato quanto me.

"No, non è vero!", intervenne feroce Emmett. "Potremmo provare a spegnere i motori di nascosto!".

"Ma come?", ribattei esasperato. "Dove dovremmo andare, come faremmo a spegnerli? Non siamo dei marinai, io non ne so niente di navi, e ancor meno di motori in generale!".

"Ehi, voi tutti, guardate qui fuori!". La piccola Renesmee si trovava di fronte alla vetrata, e guardava all’esterno con occhi sconcertati. I lampi le illuminavano il volto cereo, facendola sembrare una bambola di porcellana.

Corremmo nella sua direzione, e osservammo assieme a lei lo sfacelo della natura. Sul mare, si stavano alzando onde di una decina di metri, che si infrangevano rumorosamente sulla fiancata sinistra della nave, spingendoci sempre più verso la scogliera. Rimanemmo lì impalati qualche secondo.

All’improvviso, qualcosa di molto simile ad un’onda anomala alta quasi venti metri, si abbatté con una forza spaventosa su di noi. L’impatto fu molto violento; una pesante scossa fece traballare tutta la stanza, e urtai contro la superficie spessa del vetro. La nave ondeggiava come in bilico su una corda da equilibrista, se era possibile che un colosso di venticinque piani oscillasse.

Ne arrivò un’altra, ancora più alta, e poi un’altra ancora, e tutte si infrangevano sulla nave. In pochi secondi, anche il mare si rivoltò, e sembrò essersi creato un maremoto.

La scogliera sembrava sempre più vicina.

Non avevo il tempo di pensare, di ragionare, di immaginarmi quanto sarebbe stato doloroso morire, e abbandonare così tragicamente i miei sogni venuti a contatto con la realtà.

La testa mi faceva male; tastai con la mano destra la fronte, e sentii un gonfiore spuntare come un’escrescenza da dentro la pelle; mi accorsi che era umido, quasi bagnato. Portai la mano davanti il volto, e la vidi rossa; poi, da sopra gli occhi cominciarono a colare gocce di sangue, che si invischiarono tra le ciglia e le palpebre, offuscandomi la vista.

Quando mi resi conto che stavo perdendo diverso sangue da quella ferita alla testa, zompai in piedi, e cercai di asciugarmi la fronte con la maglietta. Quando l’avevo indossata afferrandola distrattamente dal guardaroba, era bianca; ora chiazze scarlatte la coloravano qua e là, impedendo quasi di vedere il bianco originario.

"Non è niente, tranquilli. E’ solo un taglietto, non vi preoccupate", esclamai allarmato. Cercavo convulsamente di bloccare l’emorragia.

"Stai cercando per caso di imitarmi?", sdrammatizzò Bella. In un altro momento magari avrei sorriso. Ma il frastuono della tempesta che ci avrebbe condotto nel vuoto arrestava qualsiasi tipo di emozioni o di reazioni, al di fuori del panico e della disperazione.

"Tranquillo Peppe, il tuo sangue è l’ultimo dei nostri problemi", mi rasserenò ancora Bella. "Più che altro, spero che tu stia bene e che quella ferita non sia grave".

"Si, davvero, non mi fa male", controbattei tutto d’un fiato.

E senza che neanche me ne accorgessi, Edward mi prese di nuovo sulle spalle, riportandomi all’interno della barriera blu dell’invisibilità. Sfrecciavamo di nuovo tra i corridoi, assieme agli altri Cullen. Seppur con me in braccio, Edward correva più veloce degli altri. Questa volta il terrore ancora più vivido mi proibì di addormentarmi.

Otto secondi più tardi ci trovavamo di nuovo nella sala del ristorante. Edward mi fece scendere; eravamo ancora vicino le scale. Osservai più attentamente ciò che mi circondava.

Questa volta, la scena era cambiata.

Tutte le persone avevano abbandonato il proprio tavolo, e ora si erano ammucchiate in grandi matasse, sparse ovunque. Le sedie giacevano al suolo, capovolte, spezzate. Gran parte dei servizi di porcellana si erano frantumati, e i cocci affollavano il pavimento ricoperto di lunghi tappeti. Il panico e lo sconcerto erano tracce visibili sui volti di ognuno di loro. I loro lunghi e pregiati vestiti di seta, e gli smoking perfetti, ora erano maltratti, qualcuno bagnato, o sporco di caffè, alcuni anche stracciati. I violini dei musicisti erano stati lasciati per terra; la gente, scappando senza meta, talvolta li calpestava. Qualche bambina piangeva. Sperai con tutto me stesso che non fosse mia sorella, ma con relativa e parziale fortuna mi accorsi che era avvinghiata al collo di papà senza dire una parola.

"Giuseppe! Giuseppe! Dove sei?". Mia madre urlava, dilaniata dall’orrore, tormentata da quella sofferenza che la mia assenza le causava. Si accasciava su mio padre, piangendo.

A vedere tutto ciò, mi venivano i brividi.

"Ma come? Come diavolo è possibile?!". Delle urla feroci irruppero sulle altre. Provenivano dal lato sinistro della sala, dove il capitano sbraitava indemoniato, braccato anche lui dalla paura.

"Comandante, è impossibile fermare i motori, glielo ripeto"; gli rispose un ufficiale, completamente grondante d’acqua. Ansimava. "Tutti i circuiti della nave sono andati in tilt, sembrano impazziti, non rispondono più a nessun comando."

"Virate, almeno, provate a virare, a invertire la rotta!".

"Non riusciamo a virare, perché la corrente è troppo forte, ci spinge nella direzione opposta!".

Il capitano sembrò esplodere in tutta la sua rabbia. Anche i suoi cinquantacinque anni in mare, adesso apparivano inutili e impotenti di fronte alla grandezza di quel disastro. Afferrò urlando tutto ciò che gli capitò sotto mano: ceneriere, piatti, tazze, vasi, sedi, mandando tutto in frantumi contro la parete.

"Dovete fermare i motori, dannazione! Fermateli! Cristo santo, i motori, i motori, i motori! Spegneteli!".

L’ufficiale cercò di immobilizzarlo, per evitare che creasse altri importuni. "Mi dispiace, signore, ormai è inutile! Cazzo, poteva pensarci prima! E’ stato lei a volerli accendere!". Anche lui ora non riusciva più ad arginare la sua ira. "Vorrei provare a calare l’ancora, ma ho paura che non regga, la tempesta è troppo forte!".

Udendo quelle parole, il comandante sembrò riacquistare un barlume di raziocinio e di lucidità. Si calmò, poi riprese a parlare. "Si, ufficiale Mardock. Presto, presto, presto, dobbiamo calare l’ancora. Dobbiamo.. dobbiamo provarci.. Si, si.. si! Andiamo!". Balbettando, afferrò l’ufficiale per il colletto della camicia, e insieme si precipitarono verso un’uscita secondaria.

Io, i vampiri, e gli altri passeggeri, avevamo osservato in silenzio, attoniti, quella scena.

Quando riuscivo a far defluire qualcuno dei pensieri rimasti ibernati nella mia mente, ancora non mi era possibile capacitarmi del fatto che una simile tragedia stesse capitando proprio a me. Ogni giorno, tutte le volte che seduto a tavola, a casa mia, a pranzare davanti la televisione, sentivo scorrere profluvi di notizie che annunciavano crolli di aerei, migliaia di incidenti autostradali, deragliamenti di treni, esplosioni di bombe in luoghi pubblici, pensavo a quelle sciagure come a un qualcosa lontano dalla realtà quotidiana della mia vita, come se fossi destinato a viverne sempre al di fuori, senza che potessero mai lambirmi. Invece ora, stando a contatto diretto con l’esperienza più drammatica e spaventosa della mia esistenza, mi rendevo conto che la morte, famelica, ingannatrice era appostata sempre dietro l’angolo, pronta a trascinarmi via con sé.

Il capitano Pericoli e l’ufficiale Mardock si erano ormai dileguati, con la loro corsa tumultuosa, con la speranza –forse vana- di poter calare l’ancora. La nave continuava a vacillare e a tremare, sotto le sferzate del cielo e del mare; dalla calca di persone che si trovavano ancora nella sala, si levavano folti brusii, grida, pianti.

Ormai mi rimanevano solo gli occhi per osservare la fratta di immagini che mi scorrevano davanti, e la mente per trattenerle vivide nella memoria; per il resto, cosa potevo fare? Sperare che il comandante e l’ufficiale riuscissero ad arrestare i motori e a calare l’ancora? Confidare in un’improvvisa mitigazione del temporale? Forse.

Mentre avvertivo la scogliera diventare sempre più vicina e minacciosa, e sentivo il rumore della pioggia, dei tuoni e delle onde che si abbattevano sulla nave come demoni che volessero trascinarla sul fondo dell’abisso, auspicavo a me stesso di poter un giorno rievocare quei momenti, come quando racconti a un figlio o a un amico l’esperienza più terribile della tua vita alla quale sei riuscito miracolosamente a scampare, anni e anni prima.

La stretta di Edward sulla mia mano divenne d’un tratto più forte, e sembrò quasi che volesse stritolarmi le dita. Non provai dolore, ma mi distolse dalle mie elucubrazioni. Voltai lo sguardo verso i miei Cullen, soffermandomi sui dettagli del viso di ognuno di loro; cercai di infondere il mio cuore di tutto lo splendore che irradiavano come diamanti al sole, e di carpire ancora una volta quella meravigliosa sensazione di avere un sogno da poter ammirare nella realtà, nel timore che tutto ciò non sarebbe più stato possibile.

I secondi trascorrevano prima lenti, poi veloci, impregnando ogni attimo di un tipo di paura ormai condivisa, accompagnata dalla desolazione.

Nell’esatto istante in cui i miei occhi bagnati di lacrime si posavano su di Alice, lei sussultò, palpitando. La sua espressione si tinse di tetro terrore. Emanò un terribile urlo, poi un altro, poi un altro ancora. Le sue grida penetravano la mia mente, erano talmente forti che quasi mi meravigliai che le persone che ci circondavano non potessero sentirle. Ero sicuro che fosse riuscita a vedere qualcosa, un altro squarcio di visione, magari di un microsecondo, ma che bastava a ricordarmi che il momento era vicino.

"Ehi! Ehi! Venite qui! Guardate, guardate là!". Un uomo shoccato e farneticante, ricoperto di pioggia, entrò dalla porta in vetro che dalla sala del ristorante accedeva al terrazzo e al ponte del primo piano. Era rimasto fuori, sotto il temporale, a cercare di intravedere qualcosa sotto la patina d’acqua e la foschia che avvolgeva tutto. E forse, c’era riuscito.
"Venite, venite fuori!", strillò sovrastando il boato della gente nella sala. Formicolava per il panico e lo sconcerto. Da lontano, vedevo riflessi nei suoi occhi allucinati quei lampi che fuori dilaniavano la notte. ‘Aiuto’, ‘aiutateci’, ‘che Dio ci aiuti’, diceva. Le stesse parole erano sulla bocca di tutti. Corse via, uscendo dalla stessa porta dalla quale era entrato, nascondendosi di nuovo nel nubifragio.

La massa di persone che si accalcavano le une sulle altre, tra i tavoli rovesciati, cominciarono a scorrere come un fiume defluisce alla sua foce, e si precipitarono fuori, ad osservare tutti insieme sotto il diluvio, tra urla, pianti.. urla e pianti.. urla e pianti che mi foravano il cranio, e rimbalzavano contro le sue pareti, facendomi impazzire.

"Andiamo", mi imposi, contro la nevrosi che cercava di impossessarsi di me. "Raggiungiamo la mia famiglia. Vi prego, state vicino a me, e a loro".

Edward annuì, con un volto di pietra inflessibile, e continuò a tenermi stretto la mano, come se quel gesto potesse impedire a qualsiasi cosa di separarci. Conoscevo ormai il suo senso di tutela e salvaguardia, sapevo quanto era capace di essere protettivo, e speravo di poter contare su di questo, per me, mio padre, mia madre e mia sorella. Strinse a sé Bella e Nessie, e tutti insieme ci accostammo alla folla. Tra tutte quelle teste e quei corpi, riconobbi il viso esile e mansueto di mia sorella, forse l’unica a non piangere né a urlare, che in piedi dava la mano a mia madre e mio padre, che erano rimasti dentro; lui si guardava attorno, sperando di vedermi arrivare, e avermi con sé in un momento come quello, ed ero sicuro che si stava tormentando dal pensiero di volermi venire a cercare, e al tempo stesso di non poter abbandonare lì mia madre e la bambina. Gli fummo vicino in pochi secondi, essendo quella parte della sala vuota e deserta. Accanto a loro, trovai Alessia, impaurita e indifesa come tutti gli altri, assieme alla sua famiglia.

Fuori, sul pontile, vedevo centinaia di persone che scivolavano sul legno bagnato, sbattevano contro i muri, si avvinghiavano alla ringhiera, si abbracciavano, e guardando davanti a sé, non potevano fare altro che urlare e disperarsi.

"Edward, ti prego, lasciami la mano, devo tornare visibile", gli dissi.

Parve sconcertato, spaesato da quella mia richiesta. "No, Peppe, è troppo pericoloso".

"Edward, non posso accettare il fatto che i miei genitori rischino di morire senza avermi più visto e senza avermi accanto".

Sospirò, socchiuse gli occhi, e seppur ancora un po’ restio, allentò la presa. "Sarò sempre dietro di te". In un attimo fui espulso fuori da quel vortice, e mi ritrovai di fianco a mio padre.

Appena tutti e tre mi videro, smisero di respirare, e sembrò che si fossero quasi dimenticati della situazione in cui ci trovavamo, e che si fossero immersi nella contemplazione di un attimo di pace perfetta, eterea, facendosi scorrere davanti tutti i momenti felici trascorsi in quindici anni di vita assieme; fecero passare qualche secondo, per metabolizzare. Osservarono imperturbabili la mia ferita e la maglia cosparsa di dense chiazze di sangue. Poi, senza dire una parola, si schierarono, e si prepararono ad affrontare il pericolo insieme a me; un pericolo del quale io li avevo avvertiti -o almeno ci avevo provato; e sapevo che si sarebbero sentiti terribilmente in colpa per non avermi dato ascolto – pur non riuscendo a spiegarsi come fossi stato in grado di prevederlo -, e che d’ora in poi sarebbero stati molto più comprensivi nei miei confronti, senza fare domande sui comportamenti e gli atteggiamenti anomali.

Mi girai un attimo indietro, e vidi Edward incollato a me - quasi mi respirava sul collo-, e tutti gli altri, come una scorta, mi stavano a ridosso, pronti ad aiutarmi; lo sguardo di Alice era completamente vuoto, assente, perso.

"Usciamo, qui c’è rischio che possa crollarci qualcosa addosso, o che ci sommergano tavoli e sedie", disse Edward. Era strano e agghiacciante dover considerare certe ipotesi.

Senza servirmi delle parole, guidai con lo sguardo i miei genitori al di fuori della sala, ormai disposti a fidarsi di me; ci facemmo spazio tra le persone infuriate, spingendole e strattonandole. I Cullen passavano attraverso i corpi delle persone come fantasmi immateriali. Appena riuscimmo a varcare la soglia che sconfinava in quel temporale, fummo investiti da vigorose sferzate d’acqua e di vento, che mi frustarono violentemente, per la loro potenza. Erano gocce d’acqua, ma sembravano pietre; era vento, ma sembravano cinghiate.

Il sangue della mia ferita alla fronte che si era aggrumato seccandosi sulla pelle, cominciò a diluirsi insieme alla pioggia, cadendomi davanti agli occhi; la mia vista si tinse di rosso per qualche secondo.

Papà avvolse mia sorella nel suo giaccone. Sotto quella cateratta, le urla giungevano più ovattate e tardive, perché il frastuono della pioggia, dei tuoni e delle onde del mare, era più poderoso.

Ci aggrappammo tutti alla ringhiera bianca. I Cullen erano sempre dietro di me, guardinghi; con la nave che vacillava e il pavimento bagnato, era difficile stare in piedi.

Tentammo anche noi di aprirci un varco di visuale attraverso quel folto strato di pioggia e nebbia, per capire cosa avevamo di fronte; anche se sapevo benissimo cosa avevamo di fronte, ma almeno cercavo di comprendere quanto fosse distante quella maledetta scogliera.

Poi, la nebbia sembrò scomparire per qualche attimo. La pioggia forse si alleggerì.

All’improvviso, si delineò davanti ai miei occhi alta e imponente quella parete di roccia che in qualche secondo avrebbe distrutto una parte dei miei sogni. La sua superficie era frastagliata, irregolare, con enormi lance di pietra che sbucavano prorompenti. Avevo sperato che potesse essersi dissolta nel nulla, ma invece, eccola lì, a meno di venti metri, pronta ad accogliere l’urto violento della nave.

"SI SCHIANTERA’!", urlarono tutti.

Mamma mi strinse la mano, fredda, bagnata, tremante. "Si schianterà", ripeté, con un terrore che si esprimeva sottovoce.

Le mani di Edward arrivarono a fasciarmi i fianchi, duramente.

La nave riempiva la distanza tra noi e la scogliera trasportata dalle onde e dalla corrente.

Non c’è scampo, pensai. Non c’è nulla da fare. Vorrei che tu, Edward, ora potessi leggermi nel pensiero, perché non ho la forza di parlare. Poche parole, semplici, sono quelle che riesco a elaborare. Vi voglio bene, e vi ringrazio per tutto quello che avete fatto per me, perché in una sola settimana avete cambiato la mia vita; qualsiasi cosa dovesse accadere, anche se dovessi morire tra tre secondi, non rimpiangerei mai di aver visto quel film, in camera mia, sul mio letto, lì dove vorrei essere proprio ora, a vederlo da capo. E anche in questo momento, mentre sento le tue mani fredde che mi stringono, davanti alla scogliera su cui sono destinate a spegnersi le mie emozioni e i miei palpiti, mi rendo conto che voi siete esistiti per davvero, e nulla mi farà mai pensare il contrario.

3 secondi..

2 secondi..

Chiusi gli occhi.

1 secondo..

Schianto.

Un terremoto percosse tutta la nave.

Fui sollevato in aria, e scaraventato brutalmente contro la parete.

La prua colpì le rocce in piena faccia. Si accartocciò demolendo le lamine di acciaio con la facilità con cui si straccia un foglio di giornale. Il ponte davanti a noi si squarciò con lunghi e densi boati; le crepe della lacerazione divennero solchi profondi, su cui poi vidi le tavole di legno incresparsi e saltare in aria come un’esplosione; si aprì un’enorme voragine, scura e abissale, che stracciava uno ad uno tutti i legamenti dell’imbarcazione. Quella parte avanzata della nave si tranciò e si staccò dall’altra su cui ci trovavamo.

Osservavo quelle immagini facendole filtrare attraverso un sottilissimo spazio lasciato dalle palpebre semichiuse. Avevo sbattuto con la testa, sopra la fronte, all’attaccatura dei capelli, e questa volta il dolore mi dilaniava tutto il corpo, espandendosi dappertutto; il sangue ora fluiva a fiotti, colandomi pesante sul naso e sulla bocca. Gli occhi mi si appannarono; steso per terra in un angolo, con la faccia per terra, non vidi più niente e nessuno; non avevo idea di dove fossero i miei genitori e mia sorella, né di dove fossero i Cullen, né di dove fosse Alessia. La nave – o meglio, quel che ne rimaneva – continuava a muoversi alla deriva, vibrando e ondeggiando violentemente. Mi fischiavano le orecchie, non sentivo più nessuno urlare e gridare, e il frastuono della nave che guaiva e gemeva sembrava essersi affievolito. Lottavo con tutta la mia volontà per non perdere i sensi e per non svenire; tutto ciò che riuscivo a capire, nel mio dolore, era che non ero morto. Non ancora, morto.

Mossi le braccia lentamente. Riuscii a piantare al suolo il palmo delle mani, e tentai di far leva per alzarmi. Ma ricaddi a terra, con un tonfo; il dolore era troppo forte, e l’energia che avevo troppo poca. Riprovai una seconda volta, ma proprio quando le braccia stavano per cedere, fui sospeso dal terreno e venni issato in piedi da qualcuno che era venuto ad aiutarmi.

"Peppe! Peppe!", vociò quel qualcuno. Ero ancora annebbiato, confuso, non riuscivo a spalancare gli occhi per bene.

Mi scossero, per farmi riprendere, e acquistai un po’ di lucidità. "Peppe.. ti prego, dimmi che stai bene", riconobbi la voce preoccupata di Edward.

Aspettai qualche secondo di riprendermi del tutto, poi parlai, deglutendo saliva e sangue. "Si.. sto bene.. Sto bene, più o meno".

Nove paia diverse di braccia mi strinsero, sotto lo scroscio di pioggia che persisteva imperterrito.

"Tu.. non puoi capire la paura che abbiamo avuto..", continuò Edward. "Non dovevi lasciarmi la mano, lo sapevo, non sono riuscito a trattenerti stretto dopo quell’impatto così forte..".

"Sto.. sto bene, Edward, tranquillo.. Mi fa solo male la testa".

Ora che avevo gli occhi ben spalancati, mi guardai attorno, per constatare la situazione.

La nave era tutta spenta, la corrente l’aveva abbandonata del tutto, non rimaneva una luce accesa. Dalla vetrata, vidi all’interno della sala del ristorante mucchi di persone accasciate gli uni sugli altri, qualcuno morto, altri feriti o illesi, chi per terra, tra tavoli, resti di sedie, cocci di bicchieri e di tazze, chi in piedi, aggrappato alla parete; le tele dei dipinti erano tutte stracciate; le piante giacevano al suolo spezzate, e i divani di pelle nera erano tutti lacerati e si erano rovesciati.

Ciò che rimaneva del ponte, invece, all’esterno, era deserto; tranne che per un paio di individui stesi inermi a pancia in giù, a venti metri da me. Cominciai ad accostarmi per constatare se fossero ancora vivi, ma appena ebbi compiuto qualche passo, riconobbi subito i miei genitori, e colmai quella distanza tra me e loro correndo vacillante e precipitoso, con i Cullen a fianco a me.

No, no, no, non loro, pregai.

Mi piegai allarmato sulle ginocchia; da sotto la giacca di mio padre, spuntò la testolina bagnata di mia sorella, che mi guardava con occhi ingenui e inconsapevoli, senza piangere, senza lamentarsi. La presi subito in braccio e la strinsi al mio petto.
"Esme, Carlisle, potete proteggerla voi? Intendo.. è possibile? Riuscireste a diventare reali almeno per lei?", chiesi.

"Certo, se tu lo vuoi, tutto è possibile", rispose Carlisle, che, guardando mia sorella, sembrò invigorirsi e diventare più duro; si allungò e accolse la bambina tra le sue braccia. Ora anche lei era invisibile agli occhi degli altri, ma non ai miei. La sua espressione trapelava un po’ di meraviglia e di stupore privo di risposte.

Mi voltai nuovamente di scatto verso i corpi proni dei miei genitori. Convulsamente, cercai di infilare la mano sotto i tessuti bagnati dei loro vestiti, per arrivare sino al petto. L’ansia mi saliva in gola, divorandomi.

La mano sinistra sul cuore di mia padre, quella destro sul cuore di mio padre.

Cercai di concentrarmi e di ravvisare il minimo palpito. Poi, sentii delle lieve pulsioni vibrare contro il palmo delle mie mani, e secondo dopo secondo il battito divenne più regolare e percepibile.

Sospirai, parzialmente sollevato.

Li osservai per bene: delle calcate lividure violacee macchiavano la tempia di mamma; papà perdeva sangue un po’ sopra la nuca.

"Emmett! Jasper!", vociai. "Sono feriti, ma sono solo svenuti. Occupatevi di loro due, vi prego".

Loro si limitarono ad annuire con decisione, e presero il mio posto, inginocchiati davanti a loro.

Mi rialzai. Vidi Edward, Alice e Rosalie affacciati alla ringhiera. Il temporale non sembrava voler cedere, persisteva in tutta la sua temibile mostruosità, imperversando sulla nave ridotta a brandelli, ancora relegata davanti alla scogliera.

Raggiunsi gli altri vampiri. Nessie era ancora in braccio ad Edward."Ehi, voi! Ma.. tutti gli altri.. tutti quelli che erano qui fuori sul ponte.. dove sono?", domandai, tremulo.

Alice voltò la faccia verso di me. Stringeva i denti. I madidi capelli corvini le scendevano sulla fronte. Muta, smarrita, impressionata, di tutta risposta mi prese per il braccio, e mi fece spazio davanti alla ringhiera, affinché potessi guardare quello che guardavano anche loro.

Centinaia e centinaia di corpi affollavano il mare tumultuoso, in tempesta. La gente sommersa dalle onde sguazzava incapace di nuotare con quella corrente così forte; le loro urla erano soffocate dall’acqua. Alcuni corpi galleggiavano, trasportati senza meta dalla marea: erano quelli di chi era stato costretto a soggiacere impotente alla forza distruttiva del mare, ed era morto tra le sue crespe alte e spumose. Tanti altri strepitavano agitando le braccia, cercando aiuto; dalla superficie dell’acqua spuntavano teste che venivano affondate dalle onde, risalivano, e venivano buttate sotto subito dopo da altri marosi, senza possibilità di prendere aria e respirare.

Quello scenario di orrore, di morte, mi raccapricciò, e la pelle mi si raggrinzì come quella di un anziano. Strinsi agghiacciato il braccio di Alice.

All’improvviso, dei rombi assordanti irruppero sopra il frastuono deflagrante del temporale, e mi costrinsero involontariamente a voltare lo sguardo in quella direzione: provenivano dalla parte di nave che si era squarciata e recisa. Osservando bene quei dettagli sconcertanti per la prima volta, mi accorsi che la parte su cui ci trovavamo noi era ancora unita, sul fondo, alla prua che si era scontrata con la scogliera; i legamenti d’acciaio in profondità continuavano a tenerci saldi; eravamo confinati di fronte alla scogliera, senza soluzioni, e intanto, l’imbarcazione ancora barcollava.

Cercai di regolare il respiro e il battito del cuore alla stessa velocità, di acquistare la calma per ritrovare un po’ di raziocinio. Io ero ancora vivo, la mia famiglia era ancora viva, i Cullen erano ancora vivi. Forse, rimaneva una piccola speranza.

Buttai la testa indietro, sollevando lo sguardo verso l’alto; lasciai che la pioggia mi grondasse in faccia.

Poi, d’un tratto, il cielo subì uno squarto, tra le pesanti nubi cariche d’acqua, e sembrava che venisse spalancata una porta. Un fulmine, una saetta, la più grande che mai avessi visto, fu scagliata verso il basso come un dardo rovente; la folgore mi abbacinò, e irradiò tutto il paesaggio rivelando i dettagli più oscuri e nascosti. Come uno scudiscio venne giù ingrossandosi, e andò a infrangersi proprio in quell’insenatura profonda che divideva la nave in due parti; fu seguito da un tuono assordante, che mi rintronò nelle orecchie e nella mente.

La pioggia e il vento, in un attimo, si affievolirono.

Qualche istante dopo, si spanse nell’aria un odore acre di carburante; dal solco dinanzi a noi, cominciò a salir su, aleggiando, una patina di fumo, che mi inondò le narici di una terribile puzza di bruciato.

Tutti i Cullen puntavano lo sguardo allarmato nella mia stessa direzione.

Aspettammo, e dopo due secondi, spuntò dal basso una fiamma, che si espanse, divorando pezzo per pezzo le tavole di legno del pontile. A meno di cento metri da noi, si alzò in piedi una bestia di fuoco, alta il doppio di me, che pur sotto la pioggia, avvampava crudele e famelica nella nostra direzione.

Le persone all’interno della sala ripresero le loro urla di disperazione, la loro fuga senza punto d’arrivo; corsero da una parte all’altra; molti, di fronte a quell’incendio che avvolgeva la nave, si gettarono in mare, credendo che l’acqua potesse significare salvezza.

Le lingue di fuoco, arancioni, rosse, gialle, ardevano mostruose, logorando nelle fiamme tutto ciò che incontravano.

Mi guardai attorno, al limite dell’esasperazione. Buttai lo sguardo verso il basso, e vidi, ai piedi della parete di roccia, proprio sotto di noi, a una ventina di metri, degli scogli isolati, alcuni aguzzi e frastagliati, altri più larghi e piatti; erano alti, le onde, in tutta la loro grandezza, non arrivano fin lassù. La nave non era più un posto un sicuro, l’incendio infiammava e si avvicinava; venimmo circondati da spesse nubi di fumo, li occhi lacrimavano, la gola bruciava.

"Edward!", urlai, strattonandolo. "Dobbiamo andare su quegli scogli laggiù, dobbiamo saltare! Non possiamo stare qua sopra, moriremo carbonizzati!".

Lui mi guardò fisso in volto; sembrava dovesse ancora rendersi conto se tutte quelle cose stavano accadendo per davvero, o se invece fossi io il pazzo visionario. Dopo un po’, riprese vita, e, afferrando il mio consiglio, vi si aggrappò come ad un’ancora di salvezza, e annuì con furore.

"Si.. si, andiamo, andiamo presto! Emmett, Jasper, prendete in braccio i suoi genitori, dobbiamo saltare su quegli scogli! Carlisle, tu tieni sua sorella! E.. Bella", le si rivolse con più dolce apprensione, "credi di farcela a portare Nessie, se io prendo Peppe?".

"Certo.. si, si, certo", gli rispose sicura Bella. "Muoviamoci! Nessie, tesoro, tieniti stretta a me". La bambina vampiro si aggrappò saldamente alla madre, mentre Edward, di fretta, mi caricò nuovamente sulle sue spalle. Affianco a noi, gli altri membri della famiglia si posizionarono in posizione di lancio.

Lanciai un’occhiata terrorizzata alle fiamme: il fuoco ormai, era a pochi passi da noi.

Edward, per primo, prese la rincorsa dalla zona vicino alla vetrata. "Sii pronto".

Tenni gli occhi serrati con forza.

La sua corsa fu fulminea come sempre. In prossimità della ringhiera bianca, la scavalcò, e spiccò in volo.

Eravamo in aria, e precipitavamo verso il basso. Sentivo un vuoto nello stomaco, e il cuore mi era salito in gola. Sperai che avesse calcolato bene la traiettoria.

Dopo due secondi, atterrammo con un tonfo secco su una superficie dura; aprii gli occhi infossati nella spalla di Edward, e riconobbi lo scoglio che avevo adocchiato in precedenza. Il vampiro mi fece scendere, e mi adagiò per terra. Senza un briciolo di forze, caddi sdraiandomi disteso sulla roccia.

Sapevo di essere vivo, ma temevo che la sfortuna, perseguitandomi, potesse avere ancora in serbo qualcosa per me. Non finisce mai.

Avevo lo sguardo verso l’alto. Non diluviava come prima, cadevano solo leggere gocce di pioggia; lampi e tuoni erano spariti; la foschia si era diradata.

La vista mi si annebbiava. Dopo ore passate ad ondeggiare sotto la forza del mare e del vento, ora ero fermo, immobile, ma sentivo la mia mente girare, vagheggiando. Stavo per perdere i sensi. Un rivolo di sangue mi rigò il volto, scorrendo lento e caldo sopra il naso e poi sulla guancia, e solo allora mi ricordai della ferita ancora fresca, sopra la fronte.

La nave era totalmente avviluppata in quelle falde di fuoco, non si riusciva più a scorgere nessun dettaglio di com’era qualche giorno prima, di quello splendore iniziale; da lassù, vedevo ombre scure saltare, volare, e piombare verso il basso, come stelle cadenti.

In poco tempo, lo scoglio divenne affollato, ma non riuscivo più a capire chi fosse lì con me. Sentivo delle voci, ma parevano distanti, confuse. La mia testa prese a volare come quelle comete nere che avevo visto appena qualche attimo precedente.

Qualcuno mi chiamava, invocando il mio nome, credo, ma non rispondevo. Mi sembrava di essere in un’altra dimensione; una meteora irraggiungibile, dispersa nel vuoto, non so dove. Lontano.

Sognai di essere nella mia camera, sotto il tepore avvolgente delle coperte, con la testa poggiata sulle piume del cuscino, e di stare steso sulla sabbia calda, a prendere il sole, sul bagnasciuga, con i piedi immersi in uno specchio d’acqua cristallina.

Poi, all’improvviso, dall’alto, il rumore di uno sbattere d’ali, come quelle di un elicottero..

 

 

 

 

  
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