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Autore: Cheche    29/08/2011    4 recensioni
Immaginiamo che i nostri eroi siano nati circa ottocento anni fa invece che nella nostra epoca, proprio quando la Strega Eretica Arachne creò le prime Buki. Maka e i suoi amici si ritrovano nell’Alto Medioevo, su un’isola nell’Oceano Pacifico che oggi non esiste più, divisi tra loro dalle classi sociali: principi, giullari, briganti… Cosa succederà?
[SouMa - TsuStar - Kidx?] [Lievi OOC per rendere i personaggi più coerenti col periodo storico]
Sospeso per mancanza di ispirazione fino a data da destinarsi.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1: Uccello in gabbia
 
 
 
Death Island è una grande isola nell’Oceano Sconfinato. Le sue dimensioni raggiungono quasi la notevole estensione dell’Oceanica, nell’Oceano Interno, un’isola grande quanto un continente. Death Island è molto montuosa. Il dato è ancora incerto, ma non si esclude la presenza di vulcani. Le coste dell’isola sono alte e rocciose: narra la leggenda che una principessa, per sfuggire a un matrimonio imposto dal padre, si sia gettata da una rupe sulla scogliera. Oggi quella rupe porta il nome di “Picco del Cattivo Esempio”, nome che invita principi e principesse a non agire con egoismo come fece la loro predecessora, ma a pensare prima di tutto al bene del loro regno e ad accettare il loro destino.
[F. Stein, Storia di Death Island, Frammento]
 
Il popolo di Death Island viveva, ottocento anni fa, in totale isolamento dal resto del mondo. L’unica eccezione era rappresentata da un giovane dottore, un luminare in tutti i suoi campi di ricerca, l’illustre professor Franken Stein, autore del frammento riportato sopra. Egli era curioso e avido di sapere. La maniera febbrile e ossessiva in cui cercava le risposte alle domande dell’epoca aveva fatto diffondere la diceria che il dottore non avesse tutte le rotelle al loro posto.
Visto che in quegli anni gli abitanti di Death Island ignoravano qualunque cosa del mondo esterno, Stein compiva numerosi viaggi di ricerca. Alla giovane età di trent’anni aveva già scritto numerosi trattati sui paesi stranieri, che venivano largamente consultati da chiunque avesse un minimo di curiosità su ciò che era arcano, sconosciuto (all’epoca non esisteva la stampa, quindi ad essere sfogliati e consumati erano nientemeno che gli scritti originali di Stein). Nei suoi viaggi aveva dato un nome a tutti i paesi del mondo, ignorando come li chiamassero all’estero. Per fare degli esempi, nel testo di cui sopra sono riportati dei nomi a noi sconosciuti: quello che per Stein è l’Oceanica sarebbe la nostra Australia, così come l’Oceano Interno è l’Indiano e l’Oceano Sconfinato è il Pacifico. Fu proprio Stein a inventare la prima cartina che Death Island avesse mai visto, e la sua mappa era la più completa che esistesse in tutto il mondo, sebbene fosse un po’ imprecisa (in fondo il professore aveva solo trent’anni, non aveva avuto quindi il tempo materiale per vedere bene tutto il mondo nell’insieme).
La cultura di Stein era talmente ampia che il sovrano di Death Island, Re Shinigami, l’avrebbe voluto come mentore per suo figlio, il Principe Death the Kid. Ma Stein rifiutò l’invito del Re, suscitando scalpore, incentivando la teoria della presunta follia di Stein. In realtà l’uomo era un tipo abitudinario, era legato alla sua terra natale, la Contea di Alamar, e non avrebbe mai voluto lasciarla per andare nella capitale che ospitava la reggia di Shinigami, la caotica Death City. Shinigami era un re magnanimo, e capì le ragioni di Stein.
Ma quest’ultimo fu comunque mentore della contessina di Alamar, la giovane Maka, figlia del conte Spirit Albarn di Alamar. Maka era una ragazza che amava trascorrere molto tempo a leggere. Si può dire che amasse i libri e la cultura più di ogni altra cosa. Gli insegnamenti di Stein contribuirono, negli anni, a fare di lei una giovane donna di classe, oltre che una fine poetessa. Alla giovane età di sedici anni, Maka aveva già scritto una raccolta di poesie, che circolavano in tutto il regno di Death Island, suscitando meraviglia anche nei lettori più colti e critici.
Stein era molto affezionato a Maka, anche se non sembrava: era suo mentore da appena tre anni, ma l’aveva vista crescere. Dall’acerba tredicenne introversa che era all’inizio, si era trasformata davanti ai suoi occhi in una raffinata e bella sedicenne amante della cultura e delle arti.
Oramai Maka aveva raggiunto quella che allora era l’età da marito. Il conte Spirit adorava la sua prodigiosa figliola, ed era molto geloso di lei. Fino ad allora si erano fatti avanti moltissimi pretendenti alla mano di Maka, ma Spirit li aveva respinti tutti, senza eccezione alcuna.
Maka era più contenta così. Non le erano mai piaciuti troppo gli uomini. In tutti quei pretendenti vedeva solo ipocrisia, nessun reale interesse nei confronti di Maka, ma solo bramosie di potere.
Maka era convinta che non le mancasse nulla, non le serviva affatto l’amore. Aveva cultura, fama, soldi, potere e una grande amica, la sua dama di compagnia, Tsubaki Nakatsukasa.
Questa era una ragazza di umili origini contadine. Veniva da quello che Stein chiamava l’Arcipelago di Fuoco (ovvero il Giappone), dove viveva in un piccolo podere con i suoi genitori e il fratello maggiore. Era stata notata dal conte Spirit in uno dei suoi viaggi all’estero, e lui era rimasto colpito dalla bellezza gentile, ma al contempo sensuale, della giovane. Non era un mistero che il conte fosse un gran dongiovanni e che apprezzasse particolarmente la bellezza femminile, quindi pensò ad un modo per poter ammirare la ragazza anche dopo il suo ritorno ad Alamar. Le offrì quindi di diventare la dama di compagnia della figlia, un onore veramente grande per un’umile campagnola del tredicesimo secolo.
Da una parte Tsubaki fu molto onorata dalla proposta di quell’affascinante conte straniero ed era tentata di accettare, ma era anche timorosa nel lasciare la famiglia che tanto amava. I genitori erano molto felici per la fortuna toccata alla loro figliola, e la incitavano ad accettare, anche se a malincuore, poiché loro stessi avevano difficoltà a lasciare andare la loro figlia. Il fratello Masamune invece non vedeva l’ora di liberarsi della sorella, di cui provava una certa invidia per la sua buona sorte. Quindi la incoraggiò ad andarsene, dicendole che una donna come lei in campagna è inutile, che per mandare avanti una fattoria servono le braccia forti di un uomo, e che faceva meglio ad andare con il conte: sarebbe diventata una fanciulla raffinata, avrebbe vissuto in un ambiente denso di cultura e avrebbe indossato abiti di tessuti pregiati tutti i giorni.
Le parole di Masamune convinsero Tsubaki. Lei provava molto affetto per il fratello, e credeva ingenuamente che lui avesse detto quelle cose per il suo bene. Ma nonostante tutto, Tsubaki aveva fatto la scelta giusta, se lo sentiva ancora prima di incontrare Maka e questo le fu confermato anche dopo averla incrociata per la prima volta. Le due ragazze si piacquero fin da subito e divennero amiche nel giro di un anno. Tsubaki si sentiva onorata di avere un’amica così illustre, mentre Maka era molto felice di avere un’alleata di due anni più grande.
All’inizio della nostra storia Tsubaki aveva diciotto anni. Anche lei, essendo una dama, avrebbe potuto trovare marito. Vista la sua indubbia bellezza, i corteggiatori non mancavano di certo, ma Tsubaki non si sentiva pronta a prendere marito, e per questo li rifiutava tutti.
Una sera, Maka, Tsubaki e il conte Spirit erano seduti alla tavola insieme ad alcuni ospiti illustri, tra cui Stein. I ricevimenti formali si davano quasi tutte le sere a Palazzo Albarn, e ormai anche Tsubaki ci stava facendo l’abitudine. I suoi modi diventavano sempre più raffinati di serata in serata. Da rozza contadinella quale era, si stava trasformando sempre di più in una bella donna d’alta società, seppure manteneva un contegno umile e per nulla altezzoso.
Il salone in cui si celebravano le serate era sempre la solita sala da pranzo, con la tavola imbandita lunga una quindicina di metri e posta esattamente al centro della stanza. Nella sala il soffitto di pietra era abbastanza alto da far riecheggiare le voci dei presenti nei momenti di allegria e il rumore delle stoviglie nei lunghi istanti di silenzio.
Lo spazio libero nel salone era lasciato non a caso, perché dopo la cena avveniva tradizionalmente l’esibizione dei giullari. Quella sera c’era grande attesa, perché si sarebbe esibito un nuovo, giovane artista al suo debutto. Gli astanti nutrivano grandi aspettative nei confronti del nuovo giullare, anche perché era il fratello minore del famoso Wes Evans, una vera celebrità nella contea di Alamar. Tutti erano sicuri che il fratellino non sarebbe stato da meno. In fondo, la sua era una famiglia di artisti.
“Hai sentito, signorina? Pare che stasera vedremo all’opera il nuovo giullare, il fratello minore di Wes…” Fece Tsubaki, addentando con grazia una coscia di pollo.
“Ah, si? E cos’altro sai di lui?” Chiese la contessina, non troppo interessata.
“Beh, non l’ho mai visto di persona, ma pare che abbia diciassette anni e che si chiami Soul… ehm… qualcosa.”
“Soul? Sembra un nome sciocco. Bah, comunque sia non credo potrà eguagliare la classe di Wes, e sicuramente è anche meno carino.”
“Non giudicare prima di vedere!” Ridacchiò Tsubaki, che trovava facile rimproverare la sua amica col sorriso sulle labbra.
Detto fatto, nella sala calò il silenzio. Maka si era finta disinteressata per tutto il tempo, ma ora che quel Soulqualcosa stava per fare il suo ingresso, la contessina tratteneva il respiro. Era chiaro che la curiosità le stesse rodendo il fegato, tanto che le parve di sentire una lieve fitta proprio sul fianco.
Il silenzio regnava, vero sovrano di quella stanza, schiavizzando nobili e conti che non potevano fare altro che subirlo. L’attesa era asfissiante, le aspettative soffocanti. In fondo si parlava del fratello di Wes, uno dei più grandi artisti del secolo. Mica si trattava di uno qualunque.
E così, nel silenzio più assoluto, i passi di Soul Eater Evans risuonarono sul pavimento di pietra al suo ingresso, disarmonici e pesanti.
Maka lo guardò bene. Era buffo, bassino, con quegli abiti ridicoli e bicolori e quel cappello munito di campanelli così grossi che quasi ricadevano sui capelli, candidi come quelli del fratello maggiore. Le veniva da ridere, ma si trattenne per non complicare le cose. Non guardò gli altri, ma dentro di sé Maka aveva l’intima consapevolezza che tutti provassero il suo stesso sentimento di scherno. Ma si sarebbe permessa di ridere solo dopo aver visto la sua esibizione, che già si preannunciava disastrosa.
Infatti, il giullare aveva iniziando spiccando un balzo, per arrivare così al centro della sala, ma il pesante cappello era caduto miseramente sul pavimento producendo un fastidioso tintinnio di sonagli e campanellini. Il giovane non si prese la briga di raccoglierlo.
Ma questo fu all’inizio. Quando il ragazzo estrasse dalla tasca un’armonica e cominciò a suonare, guadagnò davvero parecchi punti agli occhi di Maka. La melodia era strana, poco orecchiabile, ma bella come poche. Non la posso descrivere, tanto questa era particolare, ma voi immaginate una musica talmente meravigliosa che ogni parola su di essa sarebbe sprecata. Solo questo si può dire su quella melodia, null’altro. Non esistono parole adatte.
Finita la musica, ad un cenno impercettibile di Soul, subentrò dietro di lui Wes, con in mano una grande lira dorata. Wes era veramente bello: i suoi capelli brillavano come filamenti di platino sottili, i suoi occhi profondi erano adombrati dalla leggera piega delle lunghe ciglia, le sue labbra chiuse erano sottili e lisce, le sue meravigliose mani pizzicavano le corde della lira con le dita lunghe e bianche. Ma Maka non riusciva a guardarlo. I suoi occhi erano rapiti dal suo buffo fratellino, che si muoveva a ritmo di danza. Era un po’ fuori tempo rispetto alla musica della lira, ma la contessina rimase comunque affascinata dal suo stile. Le sue movenze non erano pesanti, eppure lui si muoveva senza rispettare il ritmo della musica, ma… caspita, se non comunicava con quel corpo! Sembrava voler mandare un messaggio agli astanti, che solo i più sensibili avrebbero potuto afferrare. La sua arte non era per tutti, insomma.
Maka analizzò a lungo i suoi movimenti. Istintivamente lo paragonò ad un uccello in gabbia. Si muoveva in uno spazio ristretto, come se avesse segnato per terra delle linee che non poteva assolutamente superare. In poche parole, la sofferenza emanata dalle sue movenze era quella di uno che si è imprigionato da solo. Era strano, ma era questa la sensazione che Maka provava guardandolo. La situazione le sembrava talmente assurda che non riusciva ad intenderlo, ma era proprio questa incomprensione a coinvolgerla. Realizzò improvvisamente: aveva voglia di conoscerlo meglio, di parlare con lui per ore. Desiderò di chiedergli la sua storia, sperando che lui avrebbe accettato di raccontargliela.
Quel Soul Eater Evans era il tassello che avrebbe completato il puzzle della sua vita.
L’aveva solo visto muoversi e Maka aveva capito: in qualche modo, aveva bisogno di lui.



Ho iniziato questa fanfiction circa un anno fa, e un anno fa ho smesso di scriverla. Per questo ero indecisa se mettere o no "incompiuta" tra gli avvertimenti, insieme a quell'AU che ci sta a pennello. Potrebbe rimanere incompiuta, oppure potrà continuare. Tutto dipende da come l'accoglieranno i lettori. Odio dipendere così dalle opinioni altrui, ma per una fanwriter alle prime armi è fondamentale!
Ho postato questo capitolo spinta da chissà quale forza oscura, e non ho neppure controllato se ci sono imprecisioni o errori nello stile. Se ci sono, vi prego di farmeli notare!
Grazie di aver letto fino a qui, commentate in tanti!

  
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