Capitolo 15
You are my sister
soundtrack
Mi chiusi la porta alle spalle,
lasciando che Allie si godesse la sua nuova stanza un po’ da sola, riordinando
le idee dopo la mezz’ora trascorsa a parlarmi di sé e a far riaffiorare un
passato doloroso e spiacevole. Non sapevo cosa fare, più che abbracciarla e
farle sentire quel calore che negli ultimi tre anni le era evidentemente
mancato, ma ero anche cosciente che tre anni di disattenzioni e angherie subìte
non potevano essere spazzati via da una buona colazione ed una stanza tutta
nuova, né sarebbero bastate una seduta dal parrucchiere o una mattinata a
spasso tra i migliori negozi della città.
Nonostante avessi provato sulla mia
pelle cosa significasse essere ignorati nel momento del dolore, non concepivo
come dei genitori potessero davvero comportarsi così con i propri figli; avevo
solo voglia in quel momento di stanare quella donna dovunque fosse e guardarla
negli occhi, capire come potesse anche solo respirare sapendo a quale vita
aveva costretto il sangue del suo sangue e poi sputarle in faccia,
letteralmente, tutto lo sdegno che provavo per lei.
Era una cosa che mi ero ripromesso di
fare prima o poi; tuttavia ora dovevo invece solo concentrarmi a far star bene
la mia Allie in questa nuova situazione, ospite in casa di sconosciuti, che pure
la stavano trattando come se fosse una di famiglia.
La mia Allison, che mia non lo era per
niente. Fingevo che lo fosse, ma chiaramente era un’illusione bell’e buona, e
per di più dolorosa, destinata a svanire e distruggermi. Non era interessata a
stare con me, ma aveva dimostrato di essersi affezionata e di non voler
rinunciare a ciò che di me potevo offrile senza creare troppe complicazioni tra
noi. Mi accontentavo, sperando di farle cambiare idea, prima o poi.
Al momento però, tra i molti pensieri
che affollavano la mia mente, c’era anche un piccolo comparto dal nome
Caroline. Da quando avevamo messo piede in casa non si era fatta sentire, né
tantomeno vedere e conoscendola sapevo che non avrebbe fatto la prima mossa.
Era troppo timida per presentarsi ad un estraneo di sua spontanea volontà e le
sue difficoltà di relazione con gli altri si amplificavamo ogni volta per via
del timore che la trovassero strana, come non mancavano mai di ricordarle
quelle stupide oche che si ritrovava come compagne di scuola, o che scoprissero
dei suoi momenti di distrazione dal resto del mondo. Nessuno di noi, a casa,
gliel’avrebbe mai fatto pesare, ma era terrorizzata da chiunque non la
conoscesse e avrebbe potuto etichettarla come uno scherzo della natura.
Mi avvicinai alla sua stanza sperando
di sentir risuonare qualche pezzo di musica classica, segno inconfondibile
della sua produttività artistica. Era molto abile nella ritrattistica,
prediligendo in particolar modo l’uso delle matite e del carboncino al posto
dei pennelli ed ogni volta che ritraeva qualcuno, fosse un estraneo o un amico
di lunga data riusciva con pochi semplici tocchi e particolari a coglierne la
più vera essenza.
Ma in quel momento lo stereo non stava
funzionando e, aprendo la porta, la trovai stesa sul letto. Non appena mi vide voltò
le spalle e, nel breve attimo in cui incrociai il suo sguardo, non mi fu
difficile scorgere astio e dissenso; evidentemente era già a conoscenza degli
eventi di quella giornata e non sembrava essere d’accordo.
Mi sedetti sul letto, al suo fianco,
lasciando che mi desse le spalle e mantenesse il broncio ancora per un po’, ma
le schioccai un bacio sulla guancia, sapendo che a quello non sapeva proprio
resistere. Ma sembrò per la prima volta non riuscire a perdonarmi, pulendosi con
il dorso della mano laddove l’avevo baciata, schifata.
“Che c’è?!” cantilenai, richiamandola “non
ti piacciono più le coccole del tuo fratellone?”
Tuttavia sembrava che le mie moine per
ingraziarmela avessero addirittura sortito l’effetto contrario, facendola
risentire ancora di più. Immaginavo che ce l’avesse con me per averle portato
Allison in casa, ma dovevo capire il perché.
“Allora?!” incalzai “vuoi dirmi perché
fai l’offesa? Mmh?!”
Si girò, lentamente, tirando su il
naso, sperando forse che io non capissi che avrebbe volentieri pianto. Era
davvero una bambina, ma il più delle volte, purtroppo tendevo a dimenticarlo.
“Chi è quella lì?” frignò. Bingo! C’avevo
preso, chiaramente.
“Te l’ha detto mamma che abbiamo fatto
venire una ragazza a stare qui?” chiesi; lei scosse la testa, spiegando che ci
aveva visti arrivare e dal pianerottolo aveva spiato la nostra conversazione al
piano di sotto.
“Si chiama Allison, è una mia amica”
chiarii “ non ha più un posto dove stare e mamma ha suggerito di farla
trasferire qui fin quando non troverà una sistemazione per conto suo”
Mi sembrava la spiegazione più
semplice e comprensibile, che non implicasse parole difficili e situazioni che
non avrebbe dovuto conoscere alla sua età, risparmiandomi una montagna di
domande scomode a cui rispondere.
“Non sta bene lasciare senza una casa
le persone a cui vogliamo bene, soprattutto con questo freddo, non ti pare?” le
dissi.
Eppure, testarda come un mulo, affilò
la lingua e rispose: “Questo varrà per te ma non per me, Tyler. Io nemmeno la
conosco …”
“Se non fossi così difficile l’avresti
già conosciuta” mi sentii ribattere.
“Sono in casa mia” mi contraddisse “sta
a lei presentarsi!”
Restai con un palmo di naso. Dov’era
finita Caroline, la mia timida, dolce, sensibile ed adorabile sorellina? Non
ricordavo di avere un serpente dalla lingua biforcuta come sorella!
Quella sua risposta pronta, quel suo
cipiglio fiero e battagliero mi fecero pensare ad un felino che difende il suo
territorio. E per questo c’era una parola ben precisa: GELOSIA.
Solo che in ballo non c’erano solo
quelle quattro mura, bensì qualcosa di più grosso e più importante: i suoi
affetti.
Non era abituata a dividere ciò che le
apparteneva, né tantomeno le nostre attenzioni, con nessuno altro e, anche se
non l’aveva dichiarato apertamente, il suo atteggiamento parlava da sé.
“Non fare la bambina” la rimproverai “Allison
ha i suoi buoni motivi per rimanere sulle sue, credimi. Ogni tanto si tratta
anche di venirsi incontro. Non puoi sempre fare come se tutto ti fosse dovuto”
D’altro canto, pensai, quel suo
atteggiamento, alle volte vittimistico, era dovuto al trattamento da cocca di
casa che noi tutti ci ostinavamo a riservarle e che aveva inevitabilmente
portato a tirarla su viziata ed egoista.
Ma come risultato ottenni solo la
reazione inversa, un plateale broncio accompagnato da sbraiti e grandi
sceneggiate per buttarmi fuori dalla sua camera. Avrei potuto fermarla con una
mano o zittirla con un semplice richiamo ben assestato, che mia madre non era
mai stata in grado di farle, ma preferii non obiettare oltre alle sue
rimostranze, ero pur sempre suo fratello maggiore, e se ora il muso le sarebbe
passato con una coppa di gelato o un pomeriggio insieme nel suo museo
preferito, se avessi tentato di impormi avrebbe cominciato ad odiarmi per
essere l’ennesima figura autoritaria nella sua vita che cercava di imporle le
sue regole. A me non sarebbe piaciuto, figurarsi a lei.
“E ti ricordo” mi urlò, una volta
cacciatomi dalla stanza “che ho 10 anni e mezzo … sono ancora una bambina!”
“Caroline dai …!”
In quel momento, mentre Caroline mi
sbatteva la porta in faccia, un’altra si aprì alle mie spalle. Allison fece
capolino timidamente dalla sua stanza ed io mi avvicinai, impacciato. La mano
corse ai capelli, ma era diventato nel corso degli anni un gesto talmente
incondizionato, da non farci quasi più caso.
“Non devi litigare con lei per me” mi
disse, accennando a quella porta irrimediabilmente chiusa.
“Nnn …” obbiettai, borbottando “non ci fare caso. Stasera o al più tardi domani
sarà tutto passato.”
“Ed invece no” si impose “non ne vale
la pena. È tua sorella, ti vuole bene … le vuoi bene e non devi sprecare neanche
un secondo del tempo che passate insieme.”
Capii in un battibaleno il sottile
riferimento a sua sorella e compresi che forse aveva ragione. Del resto, se
Michael fosse ancora vivo o se solo mi fosse data l’opportunità di trascorrere
con lui ancora poche ore, certo le sfrutterei al meglio. Ma il tempo che ci
viene concesso non è mai abbastanza e puntualmente lo sprechiamo,
concentrandoci su futili litigi e chiacchiere inutili.
“Le parlerò” promisi, sapendo che
tanto bastava poco per fare pace con la mia sorellina. “A te invece come va nella
nuova stanza?” le chiesi, alludendo in realtà alla nostra conversazione di
prima. Ci capitava molto spesso di parlare per traslato e, per fortuna,
riuscivamo ad intenderci sempre alla perfezione.
“Bene, grazie”. Sperai che avesse capito
a cosa mi riferissi, ancora una volta.
La neve si era quasi totalmente
sciolta, nonostante un’ulteriore bufera ci avesse colpiti di nuovo quella
notte, ma il gelo tra mia sorella ed Allison persisteva ancora dopo due giorni.
Ormai ero diventato ospite fisso di
pranzi e cene da mia madre, per l’invidia di Aidan a cui ancora dovevo rendere
conto del nuovo ordine in cucina e del perché Allison si era trasferita da mia
madre: “una cosa per volta” mi sbrigavo ogni volta per affrontare quella
conversazione, cambiando velocemente stanza o fingendomi impegnato in altro; lui
sembrò per una volta abbastanza rispettoso da non mettersi in mezzo.
Non che mi lamentassi di quella nuova routine,
economicamente favorevole e salutare per la mia dieta oltre che per l’ottima compagnia,
ma il ruolo di mediatore mi andava alquanto stretto. La piccola di casa si
rifiutava di scendere a mangiare finché ci fosse stata quella ed Allison andava rincuorata ogni volta che questo
sprezzante accanimento si ripresentava.
“Non è giusto” diceva “non è giusto
che in casa sua Caroline si comporti da estranea per favorire me.” Si offrì di
cenare in camera per tutto il tempo della sua permanenza, a parte cercare di convincerci,
invano, che fosse il caso di non trattenersi oltre.
“Allison” le ripeteva mia madre “Caroline
deve imparare che non sempre si deve fare come dice lei”
Straordinariamente mia madre sembrava
essere in accordo con me sulla questione, eppure Allie ribadiva quanto l’ostruzionismo
di Caroline fosse legittimo e lei non aveva il diritto di insistere oltre. A
dirla tutta aveva anche provato ad avvicinarla, ma Caroline aveva sfoderato un
lato di sé che non conoscevo; sembrava un gatto furioso e prepotente, pronto a
sguainare gli artigli in ogni momento.
Non sapevo più come affrontare l’argomento
con lei; cercavo di farle sputare il rospo su ciò che non andava, ma il mutismo
era la sua arma prediletta.
Avremmo dovuto trovare un soluzione al
più presto, perché non volevo che Allison lasciasse quella casa; per quanto la
proposta di una convivenza (amichevole) con me era sempre valida, anche un
cieco avrebbe notato i benefici che la permanenza in casa di mia madre, vivendo
con delle persone che avevano per lei un aspetto vagamente genitoriale, le
aveva ridonato quella quotidianità preziosa e semplice di cui aveva bisogno. Se
solo l’avesse capito anche Caroline.
Probabilmente un altro genitore, con
un altro figlio, si sarebbe comportato diversamente e l’avrebbe costretto a
stare a tavola comunque. Ma con Caroline non era possibile adottare certe
misure ferme: non dopo il divorzio di mia madre ed il suo secondo matrimonio, non
dopo la morte di nostro fratello, non con un padre-fantasma come il nostro.
“Maestro!” la salutai, dopo aver
cenato, andando a ritirare il vassoio con la sua cena. Mi salutò di rimando con
la sua risata appena accennata, ma che per noi parlava più di centro frasi
fatte o parole di convenienza. Ma invece di lasciarla ai compiti che il
pomeriggio aveva sostituito con la pittura, decisi di farle un po’ compagnia,
aiutandola con i problemi di aritmetica e gli esercizi di grammatica. Di tanto
in tanto cercavo di punzecchiarla con il solito argomento, che iniziava a dare
la nausea un po’ a tutti. Ma era più scaltra di quanto desse a vedere e, grazie
alla sua capacità manipolativa o, per meglio dire, alla mia malleabilità, non c’era
verso di dirigerla verso una riconciliazione (a dir la verità, si trattava di
un vero e proprio primo incontro) tra lei ed Allison.
Il giorno seguente, approfittando del
mattino libero dal lavoro e dei corsi universitari senza frequenza
obbligatoria, mi recai a casa di mia madre, secondo la versione ufficiale, per
preparare gli esami della sessione invernale.
Les non poté fare a meno di alzare gli
occhi al cielo vedendomi arrivare di buon mattino a casa sua, con caffè e
ciambelle per tutti. Casa mia non era certo il luogo migliore per concentrarsi
e studiare, su questo eravamo d’accordo, ma la biblioteca dell’università era
molto più vicina e c’erano altri mille posti in cui andare, come la caffetteria
sul posto di lavoro o altri che comunque avrei preferito, fino a qualche giorno
prima, secondo il marito di mia madre.
“Ma di tutti hai scelto questo” ribadì
il concetto Les, ironico, strizzando l’occhio. “Ma non ce l’hai un lavoro Les?”
gli chiesi, fintamente offeso, nel nostro gioco, ormai quotidiano, di provocazione
e battutine punzecchianti.
Rise sornione, addentando una delle
ciambelline e brandendo una tazza di caffè che gli avevo portato, con la
ventiquattrore ciondolante nell’altra mano. Uscì e mi lasciò solo in casa,
visto che Caroline era a scuola ed Allison era con mia madre da qualche parte,
visto che mi nascondevano tutti i loro progetti e acquisti.
Fui costretto a mettermi a studiare
sul serio, distratto però ogni 5 secondi dai dettagli nuovi che arricchivano ora
quella che era la mia camera e in cui mi ero piazzato, a detta di Les, “proprio
a caso”. Oltre alle chitarre ed alcuni cimeli musicali di mia proprietà che
aveva conservato, Allison aveva aggiunto un mobile da toilette antico in legno (sicuro
opera di mia madre e della sua mania per l’antiquariato), una riproduzione
della “Classe di Danza” di Degas impreziosita da una cornice in oro, finemente
lavorata e lasciata volutamente per terra, in piedi, addossata delicatamente ad
una parete ed invece, sulle pareti, alcune locandine di spettacoli di danza
leggendari, dai Balletti Russi di Balanchine allo Smuin Ballet di San Francisco,
a dimostrazione che la danza era parte integrante della sua prima vita. Magari
il suo sogno era quello di diventare una grande ballerina, e lo sarebbe stata
se non avesse scelto di abbandonare sua madre e la sua famiglia; ma con i se e
con i ma non si combina granché …
Così, alzandomi e distraendomi per la
cinquantesima volta nel giro dell’intera mattinata, lasciai la stanza di
Allison per andare a farmi un caffè, visto che quelli che avevo portato li avevo
ormai finiti; passai di fronte alla stanza di Caroline e non ci pensai due volte
ad entrare. Mi dava un gusto particolare sbirciare le sue creazioni quando lei
non era presente, soprattutto perché puntualmente finivo col cercare quelle che
lei scartava o nascondeva finché non fossero concluse: non per morbosa
curiosità o invadenza, ma era come entrare in un museo di work in progress. Mi
guardai un po’ intorno e, oltre ai miei ritratti, di cui oramai ne aveva
collezionati una dozzina, c’era qualche paesaggio innevato di New York, scorci
dalla sua stanza o vedute immaginarie di Central Park e Times Square, ricordo
dei giorni passati. Infine, ben nascosto tra gli altri fogli, trovai un
ritratto che mi colpì. Riconobbi subito i tratti del soggetto: era Allie,
seduta tra morbidi cuscini sul davanzale interno della sua camera, intenta ad
osservare qualcosa fuori eppure con lo sguardo perso nel vuoto, un libro aperto
sulle ginocchia.
Doveva averla spiata parecchio, doveva
averla osservata con attenzione per aver trovato in lei così tanti particolari
degni di nota: le labbra sempre leggermente dischiuse, i capelli mai in ordine
e la testa appoggiata sul freddo vetro; neanche una leggera escoriazione sul
collo le sfuggì, cicatrice della notte in cui era scappata dalle mani violente e
lerce di gente straniera e violenta. Trovai con sorpresa che nonostante lo
shopping con mia madre Allie non si era più staccata dalla mia felpa grigia,
vecchia e slavata, che usava più come camicia da notte per quanto era grande,
le sue belle gambe, bianchissime e perfette, in vista ed i suoi piedi delicati
da ballerina, contratti come se camminasse sulle punte.
Pur avendo la possibilità di averla davanti
a me in carne ed ossa ogni singolo giorno, quel disegno mi ricordò ancora una
volta perché ci avevo messo poco ad innamorarmi di lei: il suo corpo era sì da
paura, ma era al contempo un tempio perfetto per l’anima ancor più meravigliosa
che ospitava.
Neanche l’avessi fatto apposto in un
tempismo degno della peggiore telenovela sudamericana, la porta d’ingresso si
aprì ed un cicaleccio risalì le scale, rivelando mia madre ed Allison, infreddolite
nei lori cappotti e coperte in sciarpe e cappelli, piene di buste e sacchetti
da negozi di abbigliamento scarpe e accessori, gli ennesimi della settimana,
che corsero a nascondere divertite, in camera di Allison … come se non sapessi
che mi avrebbero fucilato se solo avessi sbirciato … donne …
Rivolsi un cenno del capo ad Allison, che
subito fu al mio fianco.
Mi scoccò un bacio fraterno sulla
guancia e le porsi il disegno che mia sorella le aveva dedicato. Forse non
stava bene, ma credo che per entrambe fosse necessario sapere che si volevano
bene senza nemmeno conoscersi.
Lasciando stare il comportamento di
una bimba di 10 anni, stava alla controparte cercare di mediare a questo punto.
“È molto bello” commentò Allison,
nascondendo stentatamente la commozione che saliva. Ricordavo bene la gioia
della prima volta che Caroline mi ritrasse tutto l’orgoglio che mi portai
dentro per giorni, capivo bene come potesse sentirsi: finalmente benvenuta ed
amata.
Poi ripensai a ciò che mi aveva
raccontato pochi giorni prima e compresi quale ulteriore valore potesse aver
per lei una probabile nonché del tutto possibile amicizia con mia sorella:
Emilie, la sorellina scomparsa, avrebbe avuto la sua età così ebbi un’idea.
“Credo che dovresti fare un ultimo
tentativo di parlare. Perché … perché non le racconti di Emilie?” provai a
suggerire; era rischioso, ma Caroline era abbastanza sensibile e discreta per
una storia simile e forse avrebbe trovato un’amica con cui aprirsi e
condividere i suoi altrettanto pesanti fardelli.
“Non lo so Tyler” si espresse scettica
Allison “non penso che sia una buona idea, non voglio rattristarla, ha già i
suoi problemi … né tanto meno impietosirla”
“Credimi Allie … Caroline è tutto meno
che impressionabile” la incoraggiai “ e poi si tratta solo di una prova.
Abbiamo sbagliato approccio con lei, abbiamo pensato che si stesse comportando solo
da maleducata dimenticando che ha solo 10 anni”
Probabilmente era anche un po’ gelosa
di Allison, ma la paura più grande doveva essere quella di perdere me. E come
quattro cretini nessuno di noi lo aveva capito prima, ci saremmo risparmiati un
sacco di discussioni e di richiami a porta sbattute in faccia.
Lasciai casa di mia madre, direzione
lavoro, con Allison che ancora rimuginava sul da farsi. Per strada un clacson
attirò la mia attenzione: Caroline in macchina con Les tornava a casa. Mi
avvicinai all’ingorgo e mi affacciai all’interno della vettura per salutarli.
“C’è qualcuno che vuole parlarti a
casa” dissi subito a Caroline, velocemente prima che potesse cambiare discorso”
non essere indisponente, per favore. Fallo per me”
La vidi rabbuiarsi all’istante, ma
almeno annuì e così la lascai, sperando che a cena non sarei stato costretto
più ad essere il cameriere di quella piccola permalosona.
Non so se ritenermi contento del successo
che Allison ed io ottenemmo su Caroline. Certo mi fece indubbiamente piacere
vedere come lei ed Allie si affiatarono in fretta, subito dopo essersi parlate,
quella sera stessa non si staccarono un attimo l’una dall’altra. Tuttavia nei
giorni seguenti ebbe inizio la tiritera di domande impiccione della mia
sorellina impertinente a cui non c’era modo di sottrarsi quando rimanevamo soli
in camera sua.
“State insieme?” iniziava. Alla mia
negazione stizzita allora proseguiva con: “ma ti ci metterai?” oppure “vi siete
almeno baciati?”, fino all’inaudito “ci sei andato a letto?”
Mi vergognavo a parlare con lei di
certe cose perché con lei non avevo mai parlato di ragazze prima d’ora e poi soprattutto
perché non avevo idea che a scuola fossero tanto precoci nel parlare di
educazione sessuale.
Ma la cosa davvero sconcertante era
sentirsi dire da uno scricciolo di 10 anni (10 e mezzo come teneva a precisare)
“non giocare con lei Tyler, ha sofferto molto”
Senti chi parla, avrei proprio voluto
rimbeccare!
Era proprio l’unico rimprovero che non
accettato proprio da nessuno, dopo tutte le dimostrazioni tangibili di ciò che
avevo fatto e stavo ancora facendo per lei, perché stavo facendo tutto meno che
giocare con lei.
Nessuno però sembrava accorgersene,
nessuno vedeva quanto fossi cambiato per lei. Nessuno … tranne Allison.
Sono tornata, finalmente. Vi sono mancata, vero? Credo però che scrivere e pubblicare sia mancato più a me.
Il brivido del postare, l'ansia per le recensioni. Chiedo scusa a proposito per non aver risposto a tutte, ma sappiate che leggo sempre con molto affetto e gratitudine ogni vostro commento, sia positivo che negativo, quando essi sono costruttivi ed educati.
Entriamo in una fase molto particolare della storia, molto si è assestato, ora ci sono solo dettagli da mettere a posto, che sembrano essere insignificanti, ma che in realtà sono colonne portanti.
Immagino che vi starete chiedendo che ne sarà dei nostri due eroi. Non posso dirvi niente ... se non al limite consigliarvi un film, "500 giorni insieme" che vi potrebbe chiarire un po' le idee.
Non vi do un appuntamento perché non so quando potrò scrivere e pubblicare e poi amo vedervi sorprese dalla pubblicazione.
à bientot
Federica