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Autore: AmetistaCassandra    29/08/2011    2 recensioni
Fu in quel periodo della mia vita che iniziai a concepire l'idea del piano malefico che avrebbe per sempre cambiato la faccia, per non dire la voce, del mondo.
Fu in quel periodo della mia vita che decisi che avrei assassinato la musica.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non ero una persona cattiva.
Per un certo periodo della mia vita avevo persino frequentato un gruppo di attivisti politici per la pace nel mondo e, quando ero giovane, detestavo la vista del sangue.
Era stata la morale a rovinarmi: ero cresciuta convincendomi giorno dopo giorno che una cattiva azione, se compiuta a fin di bene, era auspicabile quanto la migliore delle opere di carità.
Uccidere gli uomini non mi piaceva, ma era necessario.
Non credo di essere mai stata sfiorata dall’idea, in tutti quegli anni, che la Musica potesse essere una setta, una confraternita di singoli elementi da neutralizzare. La vedevo come una vera e propria entità astratta e nemica che meritava l’eliminazione per la sua natura intrinseca, i suoi adepti non erano altro che un mezzo.
Durante la notte, infestava i miei incubi. La vedevo danzare negli spazi bianchi e cantare il mio fallimento mentre abbracciava i suoi martiri. Talvolta aveva la forma di una donna minuscola, circondata da suoni sottili che non riuscivo a cogliere; altre volte era un uomo ferito con uno zufolo spezzato tra le mani fredde. Nei miei sogni migliori appariva come un ratto spiaccicato sulla strada, moribondo. L’idea di essere l’auto che lo aveva schiacciato mi faceva sempre svegliare di buon umore. In ogni caso, non riuscivo mai a guardarla negli occhi: la donna minuta mi appariva di spalle, l’uomo ferito non distoglieva lo sguardo dal suo strumento martoriato e gli occhi del ratto dovevano essere ridotti in poltiglia da qualche parte sull’asfalto bollente; non che mi interessasse guardare la Musica in faccia, sia ben chiaro, ma avrei voluto che quella cosa spregevole vedesse il sorriso trionfante della sua assassina beffarsi di lei giorno dopo giorno.

In ogni caso, non avevo tempo da perdere rimuginando sui sogni o sugli ideali astratti; il colpo al teatro dell’Opera di Parigi mi aveva portato via molto tempo e molte energie. Era stato il mio primo lavoro studiato per colpire un’intera organizzazione e non un singolo musicista. Non era stato facile: i cortei di protesta, i finanziamenti statali e le donazioni delle ONLUS ficcanaso mi avevano decisamente complicato le cose, ma alla fine ero riuscita a far chiudere baracca a quella topaia lussuosa. Era stato un successo eclatante e incredibilmente soddisfacente.
Quella sera il mio umore era incredibilmente buono: avevo comprato due biglietti in platea per l’ultimo spettacolo della storia del teatro; considerando che ero la causa del suo licenziamento anticipato, mi sembrava doveroso pagare alla Musica la sua pensione di liquidazione.
Mi ero seduta su una poltrona pagata quattrocento euro con le cuffie dell’ipod nelle orecchie e, mentre i personaggi e i cantanti si avvicendavano sul palco, avevo ascoltato registrazioni di rumori per tutta la serata. La signora seduta accanto a me - una vecchia imparruccata che sembrava avesse fatto il bagno in una vasca di profumo di bassa qualità- si era accorta che portavo le cuffie ma non aveva detto niente, riservandosi il privilegio di lanciarmi occhiatacce a tempi alterni. Sull’altro lato, Giona schizzava ritratti a matita delle figure più eccentriche e sgraziate che riuscisse a cogliere tra quelle sedute in platea, aveva un talento strabiliante con la matita. Gli avevo sorriso.

Lavorava con me da quasi cinque anni ed era un ragazzo incredibilmente intelligente: un assassino nato oltre che un’artista impareggiabile. Lo avevo trovato in Medio Oriente nell’estate del duemilacinque, un cervello sprecato sino al giorno in cui mi aveva conosciuto. Doveva avere una trentina d’anni, ma sembrava più giovane. Principalmente per merito della sua dote, era stato assunto come uomo delle pulizie e tuttofare nel più prestigioso conservatorio di Gerusalemme e laggiù aveva dimorato, nutrendo in segreto il suo odio per i musicisti, per molti anni prima di incontrarmi.
Ricordo piuttosto bene la prima volta che mi vide, ero sporca di sangue sino ai gomiti e la sua presenza non faceva parte dei miei piani.
Lo stupido concertista aveva provato a difendersi brandendo come una spada quel suo insulso clarinetto e mi aveva colpito più volte alla spalla prima che io riuscissi a conficcargli il piccolo tagliacarte che avevo portato con me nello stomaco.
Lo avevo lasciato rantolante a terra e stavo controllando l’entità del danno che avevo subito: la spalla mi faceva male, probabilmente non mi sarei liberata del grosso livido violaceo per molti mesi.
L’improvvisa entrata di Giona era stata una brutta sorpresa, per me. Non mi risultava che ci fosse qualcuno nel vecchio edificio oltre a me e alla mia preda. Non sapevo ancora niente della dote di Giona ma nemmeno allora mi chiesi come mai non avesse sentito le urla del moribondo. I miei occhi si puntarono sull’ospite non gradito e, per l’unica volta in tutta la mia carriera, temetti di dover violare i miei principi per impedire che un pericoloso testimone intralciasse i miei piani. Rimasi immobile mentre, per niente turbato dalla vista del sangue e completamente incurante della mia presenza, Giona si avvicinava al musicista sofferente e si chinava su di lui. Pensai che volesse soccorrerlo e lasciai che la mano scivolasse lentamente sul revolver. Avrei freddato quel poveretto nel modo più indolore e veloce possibile, non sembrava un pericoloso musicante e, comunque, non era sulla mia lista; non lo avrei fatto soffrire.
Ora penserete che io abbia indugiato troppo, in tutta questa storia.
Insomma, il testimone era lì e non sembrava avere paura dell’assassina con cui divideva l’aria della stanza: mi aveva addirittura voltato le spalle, quasi invitandomi a colpire.
Vi chiederete come mai io non sia stata veloce: credo che ormai abbiate capito che non sono il tipo di persona che aspetta chissà cosa per rispedire un’anima al creatore. Perché allora quell’esitazione?
Credo che sia stata la tranquillità di quello strano ragazzo a spiazzarmi. Se ne stava lì, chino su quell’ammasso di carne con due piedi nella fossa tutta preghiere e richieste di aiuto, e non faceva assolutamente niente per arginare la perdita di sangue o per difendersi da me.
Rimase immobile ad aspettare che la mia vittima spirasse come chi non ha niente di meglio da fare che guardare una farfalla morente su un fiore.
Furono quasi venti minuti di perfetto silenzio intramezzati dai gemiti e dai lamenti del poveretto. Nessuno dei due si mosse: il giovane genio e l’assassina si stavano godendo lo spettacolo di quel patetico trapasso con l’entusiasmo di chi va a teatro per la prima volta in vita sua.
Quando quello fu morto, Giona sfilò lentamente il clarinetto dalle mani fredde e, per la prima volta, si voltò verso di me. I suoi occhi erano grandi e solenni, non dimenticherò mai il suo sguardo mentre si portava il clarinetto alla bocca: era odio e timore, rispetto e blasfemia.
Soffiò dentro con tutte le sue forze e ne uscì qualcosa di meraviglioso e terribile. Non una sola nota al suo posto, un lamento scoordinato e atroce prese il possesso della stanza. Ne godetti come mai mi era successo, lui rimase impassibile e continuò a soffiare dentro al tubo . Fu per un tempo interminabile, continuò a spingere aria nello strumento sino a che le sue forze non furono prosciugate, infine cadde a terra stremato lasciando rotolare a terra il piccolo tubo che aveva prodotto tutto quel terribile rumore. Ero pietrificata.
D’istinto, raccolsi lo strumento da terra e lo portai alla bocca, solo per sentire il sapore di tanto genio. Mentre i miei occhi rimbalzavano tra il cadavere e il ragazzo stremato, capì, forse con un lampo di genio, forse con una divina intuizione, quale fosse la grande dote di Giona.
Quasi meccanicamente, senza nemmeno rifletterci troppo, gli porsi la mia mano per aiutarlo ad alzarsi e lui la strinse con la sua.

Fu con quella stretta di mano che ebbe inizio la nostra collaborazione.

Fu a causa del suo dono che, per qualche tempo, dividemmo il letto. A causa del suo dono che lo presi con me come alleato e compagno.
Sarebbe tuttavia sbagliato definire quella tra me e Giona una vera e propria relazione. Che rapporto romantico sarebbe potuto nascere tra un’assassina psicopatica e un ragazzo sordo, accomunati soltanto dai litri di sangue che lordavano le loro mani?
Il nostro era prima di tutto un rapporto d’affari, in secondo luogo un incontro tra menti malate. Potevamo essere compagni di letto, non di certo amanti. In ogni caso, Giona fu l’unica persona che mi tenne compagnia per tutto questo tempo. Presto imparai a comunicare con lui nonostante la sua dote e lui apprese in modo incredibilmente veloce quali fossero i meccanismi dei miei colpi.
Diventammo una squadra terribilmente efficiente e la sua compagnia fu un grande stimolo per me. Tuttavia sapevo benissimo che, se lo avessi perso, non ne avrei sofferto. Né lui con me.
   
 
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