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Autore: Exelle    30/08/2011    3 recensioni
Seguito di tutte quelle Charles&Erik che ho scritto precedentemente.
... Solo che questa ha più capitoli.
"Charles si chiedeva se la colpa non fosse sua. Forse era perchè Westchester non gli era mai sembrata tanto accogliente, al pensiero che Erik fosse lì, che dormisse a poche porte di distanza dalla sua."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Welcome to Westchester
Charles&Erik (X-Men First Class) Pt. 4
 


And I could hear the thunder and see the lightning crack 
All around the world was waking, I never could go back 
Cos all the walls of dreaming, they were torn right open 
And finally it seemed that the spell was broken.
 
                                                                  Florence and the Machine, Blinding
 
 
 
 
CAPITOLO II
 
 

Charles sapeva di non averlo voluto fare veramente. 
Deglutì, cercando di non guardare giù. Non che fosse tanto in alto, ma vedere la scena di sé stesso intento a puntarsi la Browning alla testa, riflessa nell’acqua,
sarebbe stato insopportabile. Quasi quanto il caldo appiccicoso che gli stava facendo imperlare la fronte di sudore. 
Tuttavia, senza dare ascolto al buon senso, senza dare ascolto a niente che non fosse il momento che stava vivendo, rimase immobile. Tirarsi indietro adesso,
avrebbe fatto apparire il suo gesto ancora più sconsiderato.
Erik, fermo sul bordo della grande vasca, gli sembrava ancora troppo lontano, eppure i suoi occhi rilucevano e a Charles apparivano troppo freddi, per poterlo affrontare. 
Nessuna meraviglia che fosse seccato o, più probabilmente, davvero arrabbiato. O che pensasse che Charles fosse solo irrimediabilmente pazzo. 
Istinto suicida, l‘aveva definito.
Non era affatto istinto. Charles l’aveva calcolato, progettando chissà cosa ed elaborando una vaga intuizione, mentre cercava inutilmente di riprendere sonno, poche ore prima.
Gli era sembrata un’idea tanto furba quella i sfidare Erik, perché sapeva che lui avrebbe approvato. Quel mettersi alla prova…
Charles aveva voluto assecondarlo, gli aveva dato un‘occasione. Provare a sparargli. 
Gli era sembrata un’idea così buona, qualcosa che avrebbe smosso entrambi. Erik avrebbe comunque fermato i proiettili. O l’avrebbe disarmato. Avrebbe fatto qualcosa, avrebbero fatto qualcosa. Ma non aveva funzionato. 
Charles non sarebbe mai riuscito a premere quel grilletto.
 Tutta la sua malata idea si era ritorta contro di lui, e Charles non aveva potuto fare altro che mettere in piedi quella sceneggiata, puntando la pistola verso di sé, quando si era sentito incapace da rivolgerla verso Erik, incapace di simulare anche solo del male nei suoi confronti. Aveva dato lui l’avvio a quella situazione, che non stava affatto migliorando. Contribuiva solo a farlo apparire assurdo e ben poco sano di mente.
Avrebbero dovuto tornare in casa. Lui avrebbe dovuto essere con Raven, Hank e Sean, Alex e Moira.
Aveva il braccio indolenzito e formicolante, così allontanò un poco il braccio di sé. Togliere la pressione della canna della Browning sulla tempia gli diede un po’ di sollievo.
Sapeva che il suo comportamento stava risultando letteralmente folle, ma non poteva smettere adesso. C’era della preoccupazione degli occhi di Erik e Charles poteva vederla chiaramente, non c’era bisogno di leggergli nella mente. 
Non era delusione o rabbia, era timore. Forse stava funzionando.
Preoccuparsi di salvare qualcosa, non sé stesso. Era un buon sentimento, qualcosa che avrebbe privato Erik da quel suo continuo ricorrere alla rabbia, che avrebbe finito per distruggerlo. 
Charles aveva solo avuto la presunzione di usare sé stesso come cavia, contro ogni buon senso, rivestendosi di un‘importanza che non pensava davvero di avere.
Ma a guardare le iridi di Erik e l’espressione tesa sui suoi lineamenti, sembrava quasi che avesse fatto la scelta giusta…
Come se quell’avventatezza avesse bisogno di altre giustificazioni.
Sua madre non aveva mai voluto che usasse quel trampolino. Aveva spesso espresso il desiderio di toglierlo, era brutto oltre che pericoloso, diceva. Era già malconcio e usurato dal tempo quando avevano acquistato Westchester House, ma per qualche strana ragione, il trampolino era rimasto lì, unico guardiano della piscina.
Si erano limitati a farlo ridipingere, tanto per mantenere il contegno della villa. 
Non sapeva perché gli fosse tornato in mente. A dir la verità, Charles non credeva nemmeno che l’asse si sarebbe spezzata. Certo, cigolava e scricchiolava e traballava un po’ troppo sul lato destro… ma poteva reggerlo. Serviva solo che Erik gli strappasse la pistola dalle mani. Non sarebbe successo niente.
“… Patetico?” disse Charles, rispondendogli a qualcosa che gli aveva detto poco prima. Sì, Charles era davvero patetico.
 Forse Raven non aveva avuto tutti i torti, era lui che se l’era presa troppo. Era stato sciocco, prendersi tanto male non appena Erik era entrato in cucina, imbarazzarsi alle parole di lei che cercava solo di infastidirlo, reclamando la sua attenzione. Non dovevano forse essere tutti uguali, nessuna differenza? Erano parole sue.
E il fatto che Erik fosse lì era… Perché Erik lo voleva, perché Charles lo voleva.
Charles non mai stato tanto felice da quando l’aveva conosciuto, mai così tanto confuso… Mai così tanto poco tollerante verso sé stesso, così ansioso di trovarsi in difetto, pur di autopunirsi e tormentarsi. E comportarsi nel modo più avventato, come se necessitasse di attenzione, rientrava in questo nebuloso schema. 
Non si riconosceva più e ce l’aveva con sé stesso per questo. Perché c’era qualcosa che non andava, pensò continuando a fissare Erik. C’era qualcosa che rimaneva sempre irrisolto, quella sensazione di felicità che gli scivolava tra le dita… Charles voleva solo sentirla ancora, voleva che Erik e lui, e tutto tornasse… Che tutto tornasse di nuovo facile, se mai lo era stato. Era stanco di sentirsi debole e intrappolato tra tutte quelle emozioni che non riusciva ad analizzare.
E ora tutto questo fantasticare, ipotizzare, sperare, l’aveva portato lì, immobile su un vecchio trampolino, mentre l’aria mattutina sembrava essere diventata improvvisamente bollente e l’arma stretta nella mano più pesante di qualsiasi cosa che lui avesse mai sorretto.
Sorrise ad Erik. Avrebbe voluto dirgli che non c’era alcun pericolo, che sapeva che ora l’avrebbe disarmato, che si fidava di lui. Si sollevò un momento sulla punta dei piedi, simulando un vago saltello, pensando che era la prima volta che saliva su quell’asse elastica da quando Westchester era rimasta vuota.
Mentre ricadeva sui talloni, credette di perdere la presa sulla pistola. Forse Erik si era deciso a strappargliela via, si era deciso a fare qualcosa. Charles sapeva quanto fosse inutile, ma tuttavia la trattenne, stretta tra le dita, l’indice ancora sul grilletto, stringendola per l’impugnatura, un po’ troppo forte…
Crack!
 
 
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“Charles!”
Erik mosse il braccio di scatto, tendendolo verso di lui come se volesse afferrarlo, mentre i suoi occhi scattavano dalla Browning in volo a mezz’aria, alla traiettoria del proiettile,
a Charles. 
Ebbe la fortuna di guardarsi intorno, gli occhi ancora spalancati, la bocca tesa in un ringhio, giusto un paio di secondi prima che Charles finisse in acqua.
Un momento di esitazione che gli consentì di ricordare.
Si voltò verso il gazebo di legno e tese la mano, contraendo appena le dita mentre uno dei ritagli di lamiera, delle dimensioni di una porta schizzò in volo sulla piscina, planando sull’acqua, alla giusta altezza per incontrare il corpo di Charles mentre cadeva. 
Erik lo vide piombare inerte sulla superficie rigida con un verso inarticolato e uno spasmo, il viso un poco riparato dal braccio piegato. Solo quando sentì l’asse spezzata finire nell’acqua, sollevando uno spruzzo abbastanza alto da bagnare in parte la figura di Charles, e uno stridio prolungato accompagnava l’inclinarsi della struttura del trampolino sulla piscina, Erik si accorse che la rapida scena si era svolta davanti ai suoi occhi nel più assordante silenzio. 
L’unica eccezione era il cuore che gli batteva martellante nelle tempie e il suo respiro irregolare. Teneva la fronte tanto aggrottata da fargli male, ed era curvo sull’acqua, tremendamente vicino al bordo.
Cominciò a calmarsi ripetendo che non c’era mai stato alcun pericolo. 
La pistola aveva sparato, sì, ma Charles aveva già  rivolto il braccio rivolto verso l’alto. Se per abilità o per istinto o per mera fortuna, Erik non lo sapeva.
Con una mezza torsione del polso, la lastra di metallo e il suo occupante con un braccio penzolante a sfiorare la superficie dell‘acqua, vennero allontanati sul bordo lastricato della piscina, dalla parte opposta ad Erik, che la fece levitare in basso, fino a posarsi sulla chiara pavimentazione. 
Vide Charles accennare a muoversi, girare un poco la faccia e socchiudere le palpebre, ma sembrava tremare e ancora incapace a realizzare appieno cosa fosse accaduto. 
Erik pensò che avrebbe fatto bene a lasciarlo lì e ad andarsene. Ebbe un flash di sé stesso che percorreva il viale d’ingresso all’inverso, allontanandosi da Westchester, allontanandosi da Charles. Ma gli bastò ripetere il suo nome nella mente per sapere che non l’avrebbe fatto e che tutte quelle considerazioni inutili si erano affastellate nella sua mente, mentre a passo rapido percorreva il perimetro della piscina e si avvicinava a lui.
Non si sarebbe allontanato, nemmeno se l’avesse voluto davvero.
Charles giaceva ancora a terra, appena sorretto dalle braccia piegate, guardando -Erik lo supponeva, non lo vedeva in faccia- la lamiera macchiata dalla ruggine, sotto di lui.
Erik rallentò il passo, avvicinandosi; si sentiva tremare le mani, così come tremava Charles. 
La sua giacca di tweed, dalla spalla destra in giù, sembrava essere inzuppata d’acqua, così come i pantaloni chiari, che sembravano essersi rovinati, strusciandosi sulla superficie malridotta della lamiera.
Charles fece un verso strano, a metà tra un colpo di tosse ed una parola vera e propria, poi sollevò il viso, rivelando una leggera abrasione sulla guancia ed incrociando lo sguardo di Erik, davanti a lui.
Rimasero un lungo momento a fissarsi, un momento che se si fosse prolungato, avrebbe visto Erik scoppiare a ridere. Forse sarebbe stato meglio che Charles fosse caduto in acqua. Decisamente, l’idea di farlo cadere su del vecchio metallo arrugginito, era al limite delle opzioni auspicabili per salvare qualcuno. 
Si era anche bagnato, il che aveva reso del tutto inutile il gesto di Erik. Sentì che stava davvero per sorridere e vedere Charles prostrato davanti a lui, indolenzito e con lo sguardo un poco smarrito, gli fece venire la voglia di circondarlo con le braccia e tirarlo su. Aiutarlo, sfiorare quel brutto segno che aveva in faccia con le labbra, infilare le dita fra quei capelli umidi. Ma Erik si costrinse a rimanere fermo, mentre l’idea di sorridere, svaniva.
Charles si mosse ancora, appoggiando i palmi a terra e mettendosi lentamente in ginocchio, respirando piano e continuando a fissare Erik.
Era davvero pallido adesso, così tanto che le labbra rosate e l’azzurro degli occhi spiccavano, fin troppo evidenti, sembrando quasi tratti dipinti. Si guardò solo le mani arrossate, contemplandosele come se fosse stupito di averle ancora, con tutte le dita al loro posto, prima di tastarsi il petto, il collo, il lato del viso. Fece una smorfia solo quando si sfiorò l’abrasione cremisi sulla guancia, così simile ad un lungo e spesso graffio. 
“Dov’è finita la…” cominciò a chiedere, con voce malferma.
Erik si voltò verso la piscina, aggrottando la fronte, lo sguardo indurito. “Sul fondo, immagino.”
Si voltò nuovamente verso Charles, ma questa volta, quando i loro sguardi s’incrociarono, sentì l’ironia dileguarsi, lasciandolo solo arrabbiato e sprezzante. E quando vide Charles cominciare ad articolare la parola ‘scusami’ mentre provava a rimettersi in piedi, non riuscì più a trattenersi.
Avanzò deciso verso di lui, afferrandolo per il bavero della giacca e per la camicia azzurrina, tirandolo quasi in piedi a forza. Vide le sue pupille dilatarsi un poco, mentre un’espressione desolata gli si disegnava sui lineamenti. “Erik…“
Per sorreggersi, si aggrappò ad Erik, al suo braccio e alla sua spalla. Provò ancora a raddrizzarsi, ma Erik lo tenne fermo, sentendo di nuovo quel suono ritmico, il cuore, martellante nelle tempie. Solo quello.
“Erik…” ripetè in un soffio. Erik per un attimo temette che l’avrebbe ostacolato con la mente, o peggio, insistendo a scusarsi, ma Charles ma non fece nulla. 
Erik staccò il braccio che lo reggeva per la camicia, preparandosi a tirargli un manrovescio, colpendo quel dannatissimo viso, per far serrare quei dannati occhi chiari con una smorfia di dolore. Se lo meritava.
Ma rimase fermo, limitandosi ad abbassare il braccio lungo il fianco, allentando la presa su Charles.
“Se ti colpisco…” disse amaro, “Dopo dovrò chiederti scusa. E non voglio, non voglio farlo, Charles.”
Lo strattonò e Charles poté mettersi in piedi, un po’ curvo, i vestiti scombussolati e il colletto storto. 
Ma anche così, l’immagine che Erik ne aveva, era tutto fuorchè patetica. Lo rattristava. Lo faceva infuriare. 
Non lo comprendeva, anche se immaginava di avere un ruolo in quello che era accaduto, di ritrovarsi ad essere la causa che aveva portato Charles a comportarsi così. 
Lo ricordava a Savannah, inquieto e sovrappensiero, indeciso ed incoerente. Nel ripensarci, la rabbia che pervadeva Erik, pian piano sembrò abbandonarlo.
Indietreggiò piano, flettendo le dita, come se volesse afferrare l’aria. “Non so perché ti comporti così. Non voglio saperlo. Ma te ne prego, Charles…”
Erik parlò educatamente, cercando di sembrare il più ragionevole possibile.  “Smettila.”
Gli occhi di Charles rimasero imperscrutabili. Erik avrebbe solo voluto leggergli nella mente, capire cosa gli stesse passando nella testa. Si ritrovò a desiderare qualche sciocco contatto mentale, qualsiasi…  ma fare quei pochi passi che l’avrebbero portato da lui, sarebbe stato troppo arduo. Fece un mezzo giro su sé stesso. Era intenzionato a tornare quanto prima alla casa, sperando che Charles per quel giorno avesse concluso. Era così diverso, da ciò a cui aveva sperato quella mattina, dopo la passeggiata nel parco.
Erik si ritrovò a pensare di essere stato un ingenuo. Cercherò te.
Se era così importante per Charles, perché doveva sempre metterlo in situazioni che alla meno peggio lo trascinavano in uno spiacevole disagio?
“Grazie.”
Erik gli gettò un occhiata da sopra la spalla. Charles si era voltato verso la sagoma della villa, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, chiazzati d’umido, vernice e ruggine. 
“Non è che sia stato…” Erik si sorprese a cercare le parole più adatte per rispondergli, suo malgrado. Si accorse che Charles aveva appena chinato il capo, la schiena scossa un poco dai sussulti. Per un folle secondo, Erik fu preso dal timore che Charles si fosse messo addirittura a piangere. Si girò verso di lui e lo prese per la spalla, e allora, si accorse che Charles stava solo ridendo sommessamente.
Quando gli occhi di Erik ne incontrarono il luccichio divertito, s’irrigidì appena. Non capiva. Di nuovo.
“E’ stato il peggior salvataggio della mia vita” disse infine Charles portandosi una mano alla fronte. “Erik…”
Erik scosse la testa incredulo, cercando di trattenersi dal mettersi a sua volta a ridere. Charles sembrava divertirsi un mondo adesso, aveva persino gli occhi lucidi, mentre la tensione si stemperava in un paio di occhiate. Poi Charles si piegò un poco in avanti, appoggiando la testa sulla spalla di Erik che non lo respinse. Gli passò un braccio attorno alle spalle, mentre Charles continuava a ridere piano, sentendo il suo alito caldo sul collo.
“Non ho capito da cosa cercavi di proteggermi” gli disse, quando cominciò un poco a riprendersi.
“Forse da te stesso” mormorò Erik sovrappensiero, prima di aggiungere: “Sei stato tu a dire che non volevi bagnarti.”
Charles si allontanò un momento da lui, senza però far scivolare il braccio con cui Erik gli cingeva il collo, indicando i suoi vestiti. Inarcò appena le sopracciglia, davanti all’espressione colpevole che Erik aveva assunto.
“Gran risultato” disse Charles, increspando le labbra in un sorriso ironico.
“Non ci ho pensato” disse Erik battendogli un colpetto sulla tempia. “Ero un po’ preoccupato all’idea che qualcosa ti aprisse in due la testa.”
Charles sollevò il capo. Sembrava un poco trionfante, ed Erik se ne chiese vivamente il perché.
“Preoccupato, Erik. Non arrabbiato. Non ti serve la rabbia, allora…”
Erik si trattenne dal fare uno sbuffo incredulo. “Giusto. In realtà ero furibondo. Sei tanto intelligente, Charles, ma come hai fatto a non pensare che…”
“Che?”
Erik abbassò le palpebre, scuotendo il capo come per scacciare un pensiero molesto. “Niente.”
“Dimmelo. Per favore. Voglio solo saperlo” chiese Charles gentilmente, con un mezzo sorriso. Che sensazione strana. Era come se ci fossero loro due, adesso.
Loro due soli e nient’altro.
“Non è davvero niente d’importante, Charles” Erik allontanò il braccio da lui, squadrandolo. Il momento sembrava essersi dissolto del tutto.
Era di nuovo una calda giornata estiva e loro erano fermi, uno di fronte all’altro, sul ciglio di una piscina, dove sull’acqua galleggiava l’asse spezzata, scheggie e qualche foglia trascinata lì dal debole vento, tra le increspature irregolari.
“Immagino di detenere ancora l’esclusiva, nel salvare le vite altrui.”
Erik si strinse nelle spalle e mostrò i denti in un ghigno. “Ma davvero. Se è così, l‘altruismo finirà con l‘ucciderti, Charles.”
“Se io non fossi così, Erik, saresti ancora a Miami” borbottò Charles in risposta, forse più parlando a sé stesso. Erik ne fu un poco infastidito; gli sfiorò il mento con la mano, inducendolo a sollevare un poco lo sguardo su di sé. “Immagino che un giorno dovrò ricambiare il favore, allora.”
Charles stava per controbattere, ma mentre Erik dava una rapida occhiata attorno a loro, indietreggiando dal bordo, allontanandosi ancora un poco da Charles lo precedette, parlando per primo. 
“Che ne dici di adesso?” chiese con noncuranza.
Charles aveva appena aggrottato la fronte, in un’espressione di cortese perplessità, quando Erik lo caricò, gettandoglisi addosso con tutto il peso del corpo, afferrandolo con le braccia intorno alla vita. 
Tenendolo stretto a sé, si lanciò in acqua. 
 
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“Non ho parole” cominciò Charles, tossendo. “Davvero.”
Si passò la manica intrisa d’acqua sul labbro superiore, socchiudendo un poco le palpebre, nel fissare  il luccichio del sole sulla superficie liquida della piscina. Si era tolto la giacca, completamente fradicia, e se l’era posata accanto, mentre una macchia più scura di bagnato cominciava ad allargarsi sul lastricato. Sentiva la stoffa bagnata aderirgli alla pelle e il sole caldo, invece di asciugarla, sembrava solo renderla un po’ più appiccicosa.
“Che c’è?” chiese Erik, girando il viso verso di lui, con un mezzo sorriso. Charles gli lanciò un’occhiata rapida, mentre sentiva un sospettoso formicolio invadergli la faccia,
come se si sentisse in dovere, almeno ora, fuori da casa e alla luce del sole, di non fissare Erik. Lui si era sfilato la maglia  e le scarpe,  e ora stava con le lunghe braccia incrociate, appoggiate sulle ginocchia raccolte, un poco piegato in avanti. Charles aveva pensato, ed ancora non poteva non pensare, che Erik era sì un po' più alto di lui, ma anche molto magro, così che i muscoli tesi e ben definiti, come sulla curva del ventre, risaltavano quasi in ogni sua parte del corpo. Era bello.
“Lasciamo stare” replicò Charles, slacciandosi  i bottoni della camicia, solo fino a metà torace, il viso un po’abbassato. Erik continuò a fissarlo, vedendo l’ombra di piccoli rivoli d’acqua scendergli dalla nuca, dai capelli appiattiti sul cranio, lungo il collo, fino a sparire tra le pieghe della camicia azzurrina, disegnando un reticolo semi invisibile sulla pelle chiara. Avrebbe voluto toccarlo, assicurarsi che stesse davvero bene.
“Non me l’aspettavo” disse Charles dopo un po’, schermandosi il viso con una mano e continuando ad osservare l’acqua, resa verde dalle piastrelle che rivestivano la vasca.
Cercava di impedire alle sue labbra di fare un altro sorriso, ma non ci riusciva. A meno di non farsi indolenzire le guance, a furia di trattenersi.
“Charles, credevo che volessi essere salvato.”
“Erik, mi hai aggredito!” sbottò in risposta, ma lo disse con una smorfia divertita e girandosi di nuovo verso di lui. Questa volta, si prese la libertà di fissarlo un po’ di più, studiando il profilo regolare di Erik, la linea decisa dello zigomo, il punto in cui il profilo del naso si univa alla fronte. Ancora una volta, Charles provò quella deprecabile sensazione che lo faceva sentire impacciato e inadatto, in sua presenza. 
Soprattutto ora, con i vestiti macchiati  e coperti da larghe zone umide e la pelle appiccicosa.
“Ma chi ti ha tirato fuori dall’acqua?” gli domandò Erik sollevando un poco l’indice, come se lo stesse rimproverando, inclinandosi un poco verso di lui.
“Erik, che diavolo…” Charles sgranò gli occhi arrossati, facendo un cenno verso la piscina. “Se non mi fossi liberato, mi avresti annegato!” 
Un lampo di comprensione attraversò gli occhi di Erik. “Ti avrei salvato prima, Charles, te lo assicuro.”
“Farò finta di crederci” replicò Charles in tono severo, tuttavia i tratti del viso rivelavano un’espressione mite e piacevolmente rinfrancata da ciò che Erik aveva detto.
Non si sorprendeva più di tanto, su ciò che sembrava divertire Erik. Era strano, ed imprevedibile e forse un po’ più ingarbugliato di lui, ma si stupiva di quanto quella giornata fosse del tutto cambiata, dopo quella balorda e iniziale tensione che lui stesso aveva creato, puntandosi la Browning alla tempia e sfidando Erik.
Charles ricordava il momento in cui erano caduti nella vasca, la mano di Erik che gli tappava la bocca per non farlo bere o annaspare. La loro breve lotta nell’acqua fredda,
Erik che ridendo cercava di tirarlo giù, fino a trattenerlo contro di sé e risalire. C’era del metodo, in quell’inconsueto modo di fare. Se così si poteva chiamare…
Charles si chiese se si fosse trattato di pura improvvisazione. Propese per un sì.
“Finirai per farmi del male” gli disse a bassa voce, espirando aria acquosa dal naso e scuotendo un poco la testa. Non lo credeva davvero, ma sarebbe stato interessante,
sapere cosa Erik avrebbe risposto.
Ma Erik non rispose. Si piegò solo un po’ in avanti, tendendo la mano verso la vasca, finché la Browning non affiorò in superficie, fino a fermarsi docilmente a pochi centimetri dalle sue dita tese, gocciolando un poco. Erik l’afferrò per la canna, stringendola saldamente e porgendola a Charles, che tuttavia non la prese.
Ne ricordava abbastanza bene il peso nella mano, lo sforzo di rivolgerla verso Erik, per capire che non l’avrebbe toccata. Mai più. 
“La probabilità maggiore, Charles, è che sia tu a fare del male a te stesso. Sappi però… ” disse infine Erik, scrutandolo intensamente, “… Che mi odierei in entrambi i casi e soprattutto, non permetterei mai che niente del genere si avveri.”
Lo aveva detto in tono calmo, forse un po’ più lento del solito, come se stesse scegliendo le parole, ma Charles si sentì improvvisamente più accaldato di quanto già non fosse. Percepì il sangue affiorargli al volto, gli occhi brucianti… e forse non era del tutto colpa del contatto prolungato con l’acqua.
“Ti prego…” cominciò lentamente, gli occhi un poco fissi. “Dimmi che te la sei preparata. Perché… perché non può essere così… non puoi, tu…”
L’espressione decisa di Erik, fu rapidamente sostituita da una smarrita e perplessa.
“Preparata?” chiese, appoggiando lentamente l’arma sul lastricato, fra di loro. “… Cosa intendi?”
Charles fece per allungare il braccio, in un improvviso quanto viscerale tentativo di toccare Erik, quella pelle resa tiepida dal sole. Ma poi Erik lo prese per il braccio, fermandolo, lanciando uno sguardo significativo alle finestre della villa, che si intravedevano sopra la cime irregolari degli alberi attorno allo spiazzo della piscina.
Charles ritrasse il braccio, mentre un fiotto di acido egoismo si traduceva in parole.
“E’ casa mia. Posso fare quello che voglio…” si pentì all’istante di quelle parole infantili, di quell’atteggiamento prepotente, ma Erik non disse nulla a riguardo. 
“Se ci avessero visto sarebbero già qui. Ma non li avverto...” aggiunse Charles contrariato. “Perché non…”
Erik sorrise, cercando di allontanare da Charles quell’espressione cupa, che gli faceva contrarre la fronte, delineando piccole rughe attorno agli occhi.
“Avrebbero visto te che cerchi di ucciderti o me, mentre cerco di annegarti?”
Charles arricciò il naso, gli occhi di nuovo sereni. “Avrebbero visto due idioti che si spintonavano nell’acqua.”
Erik rise, mettendogli la mano sulla spalla e tenendola, lì, sfiorando la stoffa umida, aderente alla pelle di Charles. “Mi dispiace. Sul momento mi era sembrata un…”
“Una buona idea?” Charles si morse il labbro inferiore, inclinando il capo. Una ciocca bagnata gli ricadde sul viso, e un paio di gocce d’acqua gli colarono sull’abrasione rossastra. Erik ne sfiorò il contorno con una nocca, chiedendosi come Charles avrebbe spiegato quello. Come avrebbero spiegato il fatto di essere fradici, bagnati e in disordine, quando erano solo usciti nel piazzale con una pistola.
“Prima o poi dovremo tornare. O penseranno che sono andato a seppellirti da qualche parte” disse Erik, accorgendosi di aver parlato quasi bisbigliando, come se si aspettasse di veder comparire qualcuno dai vialetti tra gli alberi. O sperare che Charles non fraintendesse.
“Raven ne sarebbe di certo scontenta” replicò Charles, lo sguardo un poco indurito.
“E’ pur sempre tua sorella…” provò a dire Erik con un sorriso gentile, reclinandosi un poco, appoggiando le mani aperte sul lastricato tiepido. 
Charles però non si fece distrarre. “Avrebbe un argomento di conversazione convincente in meno” mormorò, ripensando a quelle ultime sciocche smorfie ammiccanti della ragazza, al modo in cui trattava Moira, allo strano atteggiamento che negli ultimi tempi gliela faceva sentire quantomeno estranea.
“Davvero?” domandò Erik con forzata noncuranza. “Non ci ho fatto caso.”
“Non è vero.”
“Non puoi saperlo” ribatté Erik. “… Cosa intendi con convincente?”
“Oh, Erik. Non farmene parlare, lo sai che…”
“No, Charles, non lo so. Spiegamelo. Non parlare sempre con frasi a metà, non interromperti. Spiegamelo e basta” Erik si spostò di nuovo verso di lui, cercandolo con lo sguardo, ma Charles sembrava essere scivolato in un pensieroso silenzio, limitandosi a fissare la luce tremolante del sole sull’acqua e le schegge galleggianti, in disordine.
“Per favore” insistette Erik, scrollandolo appena per il braccio.
“No, Erik. Te l’ho promesso.”
“Non me l’hai affatto promesso, Charles” Erik gli sorrise ancora, sperando in una sua reazione. “Ma adesso, se vuoi… A me va bene. Per favore. Se non riesci a dirlo, mostramelo. Fa’ qualcosa, Charles” Erik lo tenne ancora un poco stretto. “Non mi da’ fastidio sentire che mi parli nella testa, ogni tanto. So che puoi, anche solo per…”
“Non… non voglio mostrarti niente” Charles si pizzicò la punta del naso, avvertendo una strana sensazione -acqua nelle narici, ancora?- ma continuando a pensare.
Come poteva spiegare quel fastidio che era germogliato dentro di lui, mentre Raven parlava di quello che lui era prima, prima che incontrasse Erik? Di quella strana mania di fantasticare -e realizzare- le situazioni più assurde, in cui potevano venire coinvolti, situazioni innescate da Charles, in cui lo stare assieme o il cercare di farsi del male, sembravano solo un pretesto, pur di coinvolgerlo? 
Non c’erano risposte, per quelle domande.
“Intendo… Erik, come faccio a mostrare qualcosa che non ha senso, nemmeno a pensarla?”
Charles alzò gli occhi di su di lui, prima di alzarsi in piedi, lasciando una macchia bagnata dov’era seduto. 
Erik pensò volesse andarsene, ma poi lo vide solo avvicinarsi al bordo della piscina, immergere la punta delle dita nell’acqua e passarsele, sfregando, sul viso.
Erik si domandò cosa diavolo stesse facendo, finché non lo sentì dire a voce bassa e in tono seccato:
“E adesso anche sangue dal naso.”
Charles si strofinò il dorso della mano sopra il labbro superiore, più volte, lasciando strisce rossastre sulla pelle, ormai asciutta. Sentiva il sapore del sangue persino in gola, e pregò che smettesse. Non era molto auspicabile avere un intermezzo del genere, proprio no. Ebbe voglia di tuffarsi nella piscina, non appena sentì il braccio di Erik toccargli la schiena, mentre con l’altra gli porgeva qualcosa che doveva essere stato un fazzoletto, ma ora era solo uno straccetto bagnato e spiegazzato. 
Charles si mise a ridere piano, tenendosi la mano premuta contro le narici e sentendo il sapore del sangue scendere giù per la trachea. Non doveva ridere, avrebbe solo peggiorato quella già pietosa situazione.
Erik ridacchiò, guardando la stoffa umida. “Scusa” gli disse, prendendolo per il polso e facendogli abbassare il braccio, prima di mettergli il fazzoletto sotto al naso, tenendolo lì.
“… Ma non ho niente di meglio.”   
La stoffa si macchiò di cremisi, ma Erik continuò a premergli il fazzoletto sulle narici, tenendo un braccio attorno alle spalle di Charles.
“Questo sì che è imbarazzante” disse Charles. La voce gli uscì un po’ smorzata, e quando provò a deglutire, sentì ancora il sentore metallico attaccato alle pareti della gola.
Erik alzò le sopracciglia. “Tu mi hai vestito da donna.”
Un luccichio scaltro attraversò gli occhi di Charles, mentre allontanava la mano di Erik dal viso, sentendo l’emorragia fermarsi. 
“Sul momento mi era sembrata una…” 
“Una buona idea?” concluse Erik per lui, socchiudendo un poco le palpebre. Si chinò verso l’acqua, le vertebre in risalto sulla schiena nuda, bagnando ancora un poco il riquadro di stoffa. Si rialzò rapido, prendendo la mano di Charles e cominciando a cancellare le strisce sanguigne con lenta accuratezza, facendo sparire la più piccola macchia vermiglia, premendo piano i polpastrelli attraverso la stoffa umida. Charles lo lasciò fare. Non avrebbe potuto fare altro: una strana sensazione di occlusione alla gola gli impediva di parlare e le membra, insolitamente fiacche, non gli avrebbero permesso di respingerlo. 
Casomai l’avesse anche solo lontanamente desiderato.
Le dita di Erik che gli cingevano il polso erano ferme e Charles le sentiva più calde sulla propria pelle, più di quanto potesse sentire il calore del sole. Non riusciva a guardarlo e non perché fosse a disagio, o perché gli venisse da ridere. Non voleva rovinare tutto, non voleva rovinare quel contatto.
Teneva gli occhi bassi, fissando le mani di Erik sulle sue, percorrendone ogni vena, ogni segno, il profilo delle ossa.  Poi risalì, guardandone il polso, un neo un po’nascosto, la piccola sporgenza dell‘ulna, risalendo sulla pelle più chiara dell’interno avambraccio, il sinistro, fino a guardare le cifre tatuate in modo irregolare.
Era la prima volta che le vedeva davvero. Anche le poche volte in cui Erik si metteva in maniche corte, ed era successo raramente durante il loro viaggio, o quando erano rimasti nella penombra di camere affittate, Charles aveva sempre evitato di soffermarcisi sopra con lo sguardo, facendo finta di non vederle. Ma ora l’osservava, quasi con disprezzo, pensando al prezzo inscrivibile che quei numeri comportavano, ma anche, e qui Charles si sentì profondamente vergognoso di sé stesso, che era grazie a quello se Erik era lì. 
Erik cancellò l’ultimo arco rossastro, quasi invisibile, giusto un poco più scuro sulla pelle di Charles, facendo sparire il fazzoletto nella tasca dei pantaloni, ormai quasi del tutto asciutti. 
“Lo terrai come ricordo della giornata?” domandò Charles sagace, cercando di riscuotersi dal confortevole torpore a cui si era abbandonato per un momento.
“Lo aggiungerò alla Browning, ad un proiettile irreperibile e ad una scheggia di legno bagnato” replicò Erik in tono compiaciuto, lasciando andare la mano di Charles, trattenendola poco a poco.
“E alla tua moneta” disse Charles divertito, prima di rendersi conto che un’ombra spenta aveva attraversato le iridi di Erik. “Quella che… “ provò ad aggiungere in tono convinto, prima di ricordare. Che idiota.
“Erik…”
“Non fa’ niente”  replicò lui con un mezzo sorriso. “Davvero.”
Charles, mortificato, fece finta di crederci.
 
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Alla fine, erano riusciti a tornare. Evitando anche lo spinoso problema di incrociare qualcuno, naturalmente.
Charles, ridendo, gli aveva spiegato che sarebbe bastato fare il giro della proprietà, accedendo ad una scala che sembrava condurre ad un seminterrato, nascosta da un muretto in cemento, quasi nascosta dalle siepi lungo il retro della villa. Doveva essere ad una profondità minore del bunker, pensava Erik scendendola.
Mentre Charles oltrepassava con sicurezza la porta di ferro e si addentrava nel buio, Erik l’aveva seguito, attraverso le cantine dai bassi soffitti a botte, cercando di ignorare il fresco, l’odore di umidità e le finestre polverose, risalendo una scala di legno, malamente illuminata da un vecchio e crepitante neon.
Erano riemersi abbastanza in fretta e sempre in fretta, si erano scambiati un’occhiata rapida, senza parlarsi e dirigendosi verso le rispettive stanze. 
Erik si era così cambiato e dopo poco aveva raggiunto Charles e gli altri, in tempo per vedere Cassidy provare il nuovo brevetto di McCoy, gettandosi giù da una delle finestre a ghigliottina del primo piano, dalle stanze sul retro. Era stato divertente, Erik doveva ammetterlo.
Charles aveva appena sorriso invece, come se dopo l’iniziale momento d’ilarità si fosse segnato quell’insuccesso come un suo personale fallimento. Non aveva detto nulla, a parte sparire per un’altra decina di minuti e infine annunciare l’intenzione di dirigersi al viale d’accesso con McCoy. 
Indossava una tuta ed Erik se ne era meravigliato; non ce lo vedeva Charles, preso a correre su un selciato ghiaioso. Anche se sembrava abbastanza sicuro di sé.
Quando Erik aveva accennato a venire con loro, l’aveva guardato, stirando le labbra in un sorriso, mimando il gesto di sparargli.
A dopo, Erik.
Erik era rimasto alla villa, incerto. Non aveva voglia di assistere Summers nel bunker, né di intrattenersi con Moira, dopo averle restituito la Browning, sufficientemente ripulita.
Alla fine, si decise per andare a cercare qualche libro da leggere, approfittando della biblioteca. 
Solo che Erik non ci arrivò. 
Una delle porte sul corridoio, una di quelle delle grandi stanze con le finestre a bovindo era aperta. La palestra, se non sbagliava. Immaginando già chi avrebbe incontrato, Erik spinse la maniglia.
Non c’era niente di male ad aspettare il ritorno di Charles, parlando con qualcun altro, per una volta.
La sera sarebbe arrivata in fretta, Charles sarebbe tornato presto.
 
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Aveva l’impressione che il resto della giornata fosse volato. 
Un attimo prima era in piscina, poi a consumare un pranzo rapido. Infine provare il brevetto di Hank  e saggiarne le sue capacità. Si meravigliava di essere uscito a correre.
Avrebbe dovuto farlo più spesso, era stato il suo pensiero, anche quando si erano seduti a cena, un paio d’ore prima. Ora era di nuovo sera, e l’unica cosa che gli era venuta in mente era stato rimettersi una camicia e ritirarsi in camera.
Finchè Erik non si era presentato alla porta, chiaramente.
Charles spostò velocemente alcuni giornali, ammucchiati sulla scrivania. Improvvisamente, mettere in ordine sembrava essere diventato estremamente importante, soprattutto dal momento che Erik era davvero sulla porta, e la stava richiudendo dietro di sé, dopo un‘occhiata nel corridoio buio. 
Charles lo osservò di sfuggita, mentre alzava gli occhi e guardava lo studio, soffermandosi sulla scrivania, sugli scaffali e sulle due finestre a ghigliottina.
“In un certo senso è come esserci già stato” commentò Erik incrociando le braccia, occhieggiando il lampadario a braccia sopra di lui. Charles sentì il sangue affiorargli al volto, ricordando quello che era aveva fatto la sera precedente, sapendo a cosa si riferiva Erik.
“Può darsi…” ribattè cauto, mentre una copia dell’Observer gli scivolava dalla pila che teneva tra le mani. Erik si avvicinò e gliela raccolse. Charles sillabò un grazie, infilando i giornali in uno degli scomparti bassi della libreria, fra copie dell’ American Journal of Medical Genetics, del Times e con suo grande imbarazzo, un vecchio numero di Hello!, che si affrettò a far sparire dietro al volume dell’Enciclopedia Romana.
Si rialzò lentamente, trovandosi a guardare lo studio vuoto.
“Erik?”
Avanzò nella stanza attigua, la camera da letto, oltrepassando un varco da cui la porta era stata rimossa da tempo. La camera era molto più grande dello studio, comprendeva anche un bagno personale oltre una porta un poco più piccola, e manteneva inalterato lo stile disordinato del primo. Oltre alle ovvie differenze d’arredamento, la stanza aveva un’unica, ampia e alta finestra, nascosta dalle tende semi aperte che ondeggiavano piano nell’aria fresca della sera. Charles si ripromise di chiuderla, ma la sua attenzione fu catturata di nuovo da Erik, che stava guardando con attenzione una piccola fila di flaconi e scatole di carta ricoperte di scritte su una delle mensole. Farmaci. 
“Mia madre. Credeva che il mio…” Charles si sforzò di ridere, avvicinandoglisi. “… Il mio problema… Potesse essere risolto con quelli.”
“Il tuo problema” Erik alzò un sopracciglio. “Charles quelli sono…”
Charles avrebbe tanto voluto un altro volume dell’Enciclopedia Romana da schiacciare quelle maledette confezioni, facendo sparire i vari antiepilettici, Clobazam, Oxcarbazepina e Fenobarbital.
Si sentiva stupido ad averli conservati. Forse perché erano uno dei pochi segni di attenzione che sua madre gli aveva dedicato; ma questo non lo disse ad Erik.
“Lei non era del parere di definirlo… Un talento. La… Non le piaceva. Non lo capiva.” Non lo accettava. La spaventava.
Charles fece un altro sorriso di circostanza, chiedendosi perché Erik non si fosse messo a commentare le sue brutte foto, i poster malconci, lo spathypilum malato, il disordine. Avrebbe preferito vederlo dimostrare un po’ di attenzione per la fila di vinili esposti in bell’ordine vicino al giradischi, o vederlo guardare le coste dei libri impilati sui mobili…
“E’ un potere, Charles. Il tuo. Non sminuirlo chiamandolo…” disse Erik, interrompendo il corso dei suoi pensieri. “… Talento.”
“E’ un potere che all‘inizio, avrei preferito non avere” disse Charles di colpo, guardandolo attentamente, come se quelle parole fossero precisi bersagli destinati a colpirlo.
“Per favore, non…”
“Spero non sia andata oltre quelli” continuò Erik cupo. “Non voglio pensare che…”
“Non ho molta voglia di parlarne” gli disse gentilmente, in tono tranquillo.
Tuttavia, Charles non aveva il coraggio di guardarlo. La conversazione si stava spostando su un piano troppo arduo da gestire. Non voleva che Erik avesse a che fare con quello che lui cercava solo di dimenticare. Si chiedeva perché Erik se ne interessasse; qualunque cosa il giovane Charles avesse passato, era sempre una sciocchezza che non meritava nessuna attenzione, in confronto a quello che aveva subito Erik undicenne.
Erik si voltò del tutto verso di lui, appoggiandosi distrattamente alla cassettiera. “Scusami. Di solito non sono così…” sembrò cercare una parola che però non trovò, proseguendo solo con un: “Perché?”
“Avevo, avevo delle crisi. Non le ricordo bene ma.. Non riuscivo a controllare niente al principio” disse Charles con semplicità. “Mi ero quasi convinto.. Insomma, di sentire delle voci. C’era così tanta gente nella mia testa e poi piano piano... Ho imparato a chiuderle fuori. Tutto qui. Non era normale, ma non era nemmeno sbagliato.. L‘ho solo capito un po‘ dopo, cos'era, insomma...”
In realtà, la storia era un po’ più lunga. Charles capiva che Erik l’aveva intuito, ma apprezzò il fatto che non gli rivolgesse altre domande.
Non sarebbe mai stato in grado di spiegargli la sensazione di …
... panico, puro panico. Sentivo solo il cuore che batteva e tutto era ovattato, e i pensieri di tutti erano nella mia testa e non riuscivo a zittirli. Perché sapevo, sapevo che se mi fossi concentrato troppo per farli tacere… Li avrei uccisi.
Charles si riscosse, sentendo il corso dei suoi pensieri prendere una svolta così improvvisa. Erik non sembrava essersi accorto di nulla. Lo vide prendere un disco; Charles lo riconobbe, un quarantacinque giri di Edith Piaf, finito fra i suoi chissà come; lo sguardo di Erik s’incupì appena nel vedere le parole La vie en rose sulla copertina, prima di rimetterlo al posto e incrociare nuovamente le braccia, guardando distrattamente le foto incorniciate sulle mensole e sui comodini.
“Vuoi giocare a scacchi?” domandò Charles cauto, passandosi una mano fra i capelli. 
Erik gli lanciò un’occhiata. “Ci abbiamo giocato prima, Charles” disse, alludendo alla partita che avevano fatto dopo cena in sala, abbandonando gli altri in cucina.
“Giusto” Charles annuì. Si sentiva a disagio. Mentre giocavano aveva chiesto ad Erik se quella sera sarebbe passato in camera sua, ovviamente con un contorto giro di pensiero, ma ora si rendeva conto di quanto fosse impacciato. Un Greyhound con ghiaccio in terrazza sarebbe stato più appropriato. Erano adulti, dopotutto. 
Cosa ci guadagnava Charles a mostrargli la sua camera se non per… Arrossì davvero questa volta, e si affrettò ad abbassare il viso, spostandosi verso la finestra e aprendo un po’ più le tende. Non era una ragazza, ed era così difficile.
Gli ritornò in mente lo sciocco giochetto mentale che aveva provato su Erik la sera prima e sentì le orecchie in fiamme. Come aveva potuto pensare che sarebbe riuscito, nella realtà, ad assumere un atteggiamento tanto spudorato? Se fosse stato una donna...
Stava per chiudere la finestra quando sentì Erik sopraggiungere alle spalle, prendendolo leggermente per il gomito. Si voltò piano, ritrovandosi faccia a faccia con lui e dovette trattenersi dal ridere, perché era così assurdo e…
“Charles.”
“Ehi.” Charles si schiarì la gola, corrugando le sopracciglia. “Stavo pensando…”
Inclinò il capo, continuando a fissare gli occhi di Erik così vicini ai suoi, l’imbarazzo che scivolava via, lento.
Rivide sé stesso, a come si era proiettato nella mente di Erik e allora trovò il coraggio, più o meno. Gli diede un bacio talmente rapido che non chiuse nemmeno gli occhi.
Tornarono a fissarsi, finché Erik non scoppiò a ridere, battendogli leggermente le dita sulla fronte.
Ziemlich.”
“Grazie, Erik” gli disse con voce ironica, ma profondamente abbattuto. Decisamente, la sua testa era molto più avanti nel proiettare scenari perfetti, dove ogni gesto era calcolato ed adeguatamente seducente. Lo oltrepassò, sedendosi sul bordo del letto, incurvando un poco le spalle e guardando il tappeto. 
“Non so davvero…”
Avvertì Erik sedersi accanto a lui, ad una certa distanza. Immaginava che stesse ancora sorridendo e per questo, non lo guardò nemmeno quando lo sentì dire:
“Ti assicuro che è stato meglio questo. Rispetto a ieri, intendo.”
Charles si azzardò a lanciargli un’occhiata, facendo uno sbuffo divertito. 
“Adesso mi dirai ‘perché era vero, Charles’.”
“Esattamente” replicò Erik tranquillo. “A cosa pensavi, mentre cercavi di ammazzarti?”
“Perché me lo stai…” cominciò Charles, prima di rispondergli davvero. “Al fatto che non avrei mai avuto il coraggio di scendere. Dovevo andare avanti, per quanto fosse stupido, o pericoloso… Perché sembrava così importante.”
Erik inclinò un poco la testa verso di lui. “Allora, sappi che va benissimo così.”
Charles capì a cosa si stava riferendo. Erano coinvolti entrambi e la situazione poteva anche essere del tutto incauta ed inaspettata ed abbastanza contorta, perché Erik, a quanto pareva, non era poi tanto più abile di Charles, nel parlare di quello che nelle ultime settimane era accaduto tra loro.  Ma Erik adesso gli stava solo confermando che andava tutto bene, e tanto bastò perché Charles gli si avvicinasse e lo baciasse davvero.
Erik gli mise una mano attorno al collo e si sistemarono meglio sul letto distendendosi l’uno davanti all’altro, abbracciandosi. 
Resta qui.
Erik aprì un poco gli occhi. Facendo scorrere la mano sul fianco di Charles gli prese il polso, allontanandogli la mano dalla testa.
“Charles, so che era già deciso, ma domani…”
“Resta qui a dormire.” disse Charles con un sorriso.
“Solo a dormire…”
Erik alzò gli occhi al cielo, prima di vedere Charles che lentamente tentava di riportare la mano alla tempia. Purtroppo per lui, Erik lo stringeva ancora per il polso e con un verso d’insoddisfazione, abbandonò la lotta.
“So che sei stanco” gli disse. “Ma ci sveglieremo un po’ prima, così potrai…”
“Tornare nella mia stanza prima che qualcuno mi veda?” Erik fece una strana smorfia. “Questa situazione è più compromettente di quello che pensavo.”
“La scelta è tua” replicò Charles, scostandosi un poco da lui e guardandolo oltre le ciglia un poco abbassate. Si tirò su, appoggiandosi ai cuscini ammucchiati contro la testata di legno, incrociando le gambe. Prese un libro sul comodino, fingendo di leggerlo, tenendo gli occhi fissi sulla pagina. Non riusciva a respirare.
Non ci volle molto perché Erik glielo sfilasse dalle dita, e ne leggesse il titolo. “’Il buio oltre la siepe‘?”
“E’ un bel libro. Dovresti leggerlo” mormorò Charles. Erik evidentemente fu quasi tentato dall’aprire e cominciare a sfogliarlo, ma poi si limitò a ridarglielo e a raddrizzarsi. Charles lo guardò sfilarsi la maglia, piegandola velocemente. Si accorse che si stava mordendo il labbro e si affrettò a distogliere lo sguardo. Non era normale, non era normale e continuava a pensarlo e voleva solo che smettesse. Però...
Quando lo sentì vicino, a fianco del lato del letto, vide che non si era spogliato del tutto, tenendosi solo i pantaloni di stoffa leggera. Charles avrebbe voluto domandargli se voleva qualcosa di più comodo, ma gli sembrava quasi inopportuno. 
Gli scostò appena le coperte, ancora senza guardarlo, lasciandosi scivolare sui cuscini. Sentì il materasso inclinarsi un poco al suo fianco e pochi istanti dopo, si rese conto di ritrovarsi appoggiato ad Erik, il suo braccio attorno alle spalle, e sé stesso intento a baciargli il collo. Era stato qualcosa di così automatico che Erik rise sommessamente. Si fermò solo quando Charles si voltò verso di lui.
“Charles, dobbiamo…”
Charles assunse un’espressione svogliata che cercò di cancellare in fretta. “Lo so. Scusami, ora… ora vado a cambiarmi.”
Sciolse rapidamente l’abbraccio con un sorriso cortese e scese dal letto, sbattendo un poco contro uno dei mobili, sentendosi osservato. Trovò i pantaloni del pigiama e la canotta abbandonati nella poltrona vicino alla finestra, irrimediabilmente spiegazzati. Fece finta di cercarli tra i vestiti lasciati lì sopra però, riflettendo che sarebbe stato saggio andare a cambiarsi in bagno. Era così disarmante doversi confrontare con Erik e il fatto che non c’era nulla di più difficoltoso per Charles, di ritrovarsi ad esporsi così con qualcun altro.
Si chiese perché a Savannah e le altre volte non ci fosse stato alcun problema. Più o meno... a ripensarci, sembrava essere stato più facile di adesso... 
Forse era un retaggio di quello che avevano passato giù alla piscina quel mattino. Vedere il corpo di Erik alla luce del sole e sé stesso, senza ombre a nascondere il primo e ad ingentilire il secondo, aveva segnato una differenza che Charles ora sentiva quasi incolmabile.
Strinse i vestiti, sfilandoli con decisione dal mucchio. “Torno subito” mormorò passando davanti a letto e infilandosi nella porta del bagno, attraversando il piccolo corridoio di comunicazione. Per un attimo fu quasi felice di mettere una porta fra lui ed Erik, almeno affinché potesse cambiarsi in fretta, cercando di fissare il meno possibile il suo riflesso poco robusto e un po’ fiacco nella parete. Avrebbe dovuto ricominciare a correre seriamente, non quel jogging sporadico e fatto con poco metodo.
Charles era magro ed obbiettivamente si considerava anche sufficientemente attraente, ma al pensiero di Erik, di quella muscolatura ben delineata e del suo viso, Charles non poteva che fissare i suoi lineamenti da efebo cresciuto con autentico odio.
Con un ultimo sguardo al suo riflesso che ricambiava il suo sguardo sgranato, s’infilò la canotta e tornò in camera, dopo essersi lavato velocemente i denti.
Erik aveva ripreso il libro e lo stava leggendo, la fronte solcata da linee di concentrazione. Charles fece il giro del letto e gli si accostò, infilandosi sotto le coperte, sedendosi rigidamente. 
“Charles.”
“Dimmi” Charles gli sorrise goffamente, mentre Erik posava il libro sul comodino, voltandosi verso di lui.
“Niente” gli passò la mano sul braccio, seguendone il profilo, fino a tenergli stretta la mano. “Credevo non ne saresti uscito più. Pensavo fosse un‘uscita di sicurezza o un passaggio…”
Charles rise, passandosi una mano sul viso. “Erik…”
“Ho pensato anche che con tutta probabilità, ne saresti uscito con addosso una specie di camicia... da notte? Si dice così?” continuò lui parlando rivolto al soffitto, gli angoli della bocca sempre più sollevati in un sorriso divertito e il tono pensieroso. “Non so, come un gentiluomo vittoriano o qualche sciocchezza del genere.”
“Questo che cosa implica?” domandò Charles, sforzandosi di non ridere.
“Dovremo trovarti un nome appropriato, capisci? Qualcosa come Charles Heatcliff. Charles Byron…” Erik gli lanciò un’occhiata. “… Charles Douglas.”
“Tu chi saresti in questa farsa?” azzardò Charles. 
Erik fece finta di pensarci su. “Sarei comunque quello ben vestito.”
Charles gli lanciò un’occhiata interdetta. “Ti assicuro che non possiedo niente del genere.”
“Fortunatamente” commentò Erik debolmente, come se non fosse più abituato a scherzare e il suo tentativo fosse destinato a falllire. “Se ti fossi azzardato a nasconderti sotto qualcosa del genere mi sarei offeso.”
“Accontentati di quello che hai visto in piscina” borbottò Charles con un debole sorriso e appoggiandosi ai cuscini con le braccia incrociate, sapendo di aver fatto una battuta sbagliata che Erik avrebbe subito colto. Cercava di essere leggero, ed era bravo di solito, ma con Erik non ci riusciva. Erik sembrava troppo serio ed in difficoltà nel cercare di mantenere un atteggiamento simile.
Erik gli mise la mano sul fianco, posandogli la testa sul petto e chiudendo gli occhi.
“E’ stato troppo poco. E poi eri comunque vestito” disse Erik dopo un po'; si sollevò un poco verso di lui, baciandolo velocemente, come per chiudere la conversazione, ma Erik lo ignorò. 
“Eri davvero…”
Charles mostrò i denti bianchissimi. “Goffo?”
“Bello” replicò Erik con fin troppa serietà, scrutandolo intensamente. Charles si ritrovò a distogliere di nuovo lo sguardo, irrigidendo le spalle. Sembrava che Erik gli avesse letto ciò che lo infastidiva di sé stesso nella mente, e questa considerazione lo paralizzò per un momento.
Probabilmente, Erik doveva indovinare cosa si nascondeva dietro i suoi pensieri, anche se trasparivano già con evidente facilità dal suo sguardo confuso.
“Non capisco perché ti preoccupi. Soprattutto adesso.”
“E’solo…” E’ come non sentirmi... a posto. Non capisco cosa possa trovarci tu in…
Charles lo fissò davvero, alla fine, risoluto. "In un maschio, ecco. Non lo ..." Erik nel sentirlo fece un movimento strano con la testa, corrugando la fronte e Charles si affrettò ad abbassare la mano, pensando che fosse quella la causa del turbamento che ne aveva attraversato le iridi.
“Non dire una cosa del genere” fu tutto il suo commento, prima di sistemare i cuscini dietro di sé e stendersi, imitato da Charles. Per un attimo pensò di averlo fatto arrabbiare, ma poi Erik cercò di nuovo la sua mano ed intrecciò le dita alle sue, rimanendo spalla a spalla e fissando l’intelaiatura del letto a baldacchino, cosa che sembrò strappare ad Erik un’altra risata. “… Charles Eyre.”
Charles, che ora si era allungato per spegnere le luci delle lampade e della stanza, gli allungò un colpetto sugli addominali, che non impedì ad Erik di trasformare il verso soffocato in una vera risata.
Voleva fingere di essere offeso, ma non ci riusciva, nemmeno sapendo che doveva solo recitare. Come poteva, mentre Erik si voltava verso di lui quel tanto che bastava per stringerlo e dargli un bacio sulla tempia, dandogli la buonanotte?
“Ora però dormiamo davvero, o sarò costretto a bandirti dalla mia proprietà” ribattè.
Sentì Erik mormorare qualcosa al suo orecchio, ma era troppo preso a crogiolarsi nella sensazione di avere quel corpo perfetto vicino a sé, ricordandone lo sguardo pieno di ammirazione e desiderio che Erik gli aveva rivolto prima, per pensare di rispondergli ancora, senza cedere alla tentazione di accompagnare alle parole qualche altra dimostrazione di apprezzamento.
“’Notte, Erik” mormorò, chiudendo gli occhi e respirando un po’ dell’aria fresca che ancora entrava dalla finestra aperta.
 
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“Charles.”
Doveva aver preso sonno da un po’, per questo la voce di Erik giunse debole al suo orecchio, ovattata. 
Sentì una dolce pressione sulla spalla, la mano di Erik che lo stringeva leggermente, scuotendolo appena. Charles aprì gli occhi e vide l’ombra di Erik proprio accanto a lui,
un poco curva. 
Sorrise, anche se forse non poteva vederlo nell‘oscurità. Ne distingueva appena i lineamenti, poco anche gli occhi, intenti a fissarlo nella penombra e questo preoccupò un po’ Charles. 
Forse l’aveva svegliato e se così era, ne era dispiaciuto. Istintivamente, gli passò il dorso delle dita sulla guancia, inclinando un poco il capo.
“Non riesci a …” Charles non poté finire la frase; si sentì mancare il respiro, mentre Erik si piegava verso di lui e premeva le labbra sulle sue, frettolosamente, mentre gli stringeva un poco il mento, cercandolo nella luce assente. Charles fece appena in tempo a celare un vago sorriso di soddisfazione, ricambiando il gesto, socchiudendo le labbra, avvertendo quella piacevole morsa allo stomaco con cui aveva ormai imparato a convivere e che associava alla sensazione di avere Erik vicino. 
“Hai cambiato idea?” mormorò Charles, staccandosi un attimo, appoggiando alla fronte alla sua. Erik soffocò un verso divertito, troppo breve per essere una risata. 
“Se vuoi che smetta, Charles…” sibilò, fingendo un tono contrito.
“Mai.”
Charles gli posò le mani sulle spalle, circondandolo con le braccia, cominciando a baciarlo più lentamente, sfiorandogli la lingua con la sua. Si accorse di quanto lo percepisse diverso, toccandolo dopo averne visto il corpo magro alla luce del sole. Charles avvertì un insolito fremito, nel ricordare quello che era successo quel mattino e nello stringere quella stessa schiena, seguendo con le dita la successione regolare di vertebre. 
Insospettabilmente, la cosa che gli faceva di più accellerare i battiti del cuore, era il ripensare a Erik che ripuliva la sua mano dal sangue, cancellandone le tracce con quei gesti lenti e precisi. Come se il sentire il suo peso caldo su di sé, il sapore della sua bocca, non fosse abbastanza.
Charles prese tra le mani il viso di Erik, cercando di tirarsi un po’ più su, Erik lo assecondò, prima di spingerlo e tenerlo con la schiena contro la testata del letto. Charles fece appena in tempo a stirare ancora le labbra in un sorriso, prima di tornare a baciarlo sentendo la punta del naso di Erik sfiorargli una guancia, mentre gli accarezzava il mento.
Non riusciva a fare a meno di sfiorargli il viso, ogni singolo lineamento. 
Come anche seguire la curva del collo, poi giù per il solco appena accennato dello sterno. Nella penombra non riusciva a vederlo davvero. Charles avrebbe anche voluto spogliarsi, ma non riusciva a staccare le mani da lui. 
Aveva quell’assurda paura che se l’avesse lasciato, il buio se lo sarebbe preso. 
Charles capiva quanto questo fosse irrazionale e profondamente infantile, ma quell’angoscia ingiustificata sembrava accompagnarsi così  troppo dolcemente alle fitte di piacere che dalla gola, sembravano riverberarsi in giù, al resto del corpo, spossandolo eppure mantenendolo in quella tensione carica d’aspettativa.
Reclinò la testa quel tanto che poteva, sfregando i capelli e la nuca contro la testata di legno, mentre Erik cominciava a baciarlo sull’orecchio, sotto l’orecchio e lungo il collo. 
Doveva aver allontanato il lenzuolo; Charles sentiva i piedi nudi scoperti e riuscì così a muovere un poco le gambe, in modo che Erik spostarsi e mettersi del tutto davanti a lui, tenendogli le mani sulle cosce. 
Charles si accorse dopo un po’ del proprio respiro accelerato. Era strano, provare a controllarsi, 
perché non voleva parlare nella testa di Erik. Per una volta, voleva che fosse tutto normale.
Voleva che ci fosse dell’oscurità, che lui fosse davvero immerso nel buio.
Eppure, cercare di non pensare nella testa di Erik stava avendo l’effetto di farlo concentrare fin troppo sulla realtà e ora Charles sentiva il suo stesso respiro ansimante troppo forte, quasi raschiante dal fondo della gola, mentre cercava di trattenersi, cercando di aprire poco la bocca, mentre sentiva le mani di Erik scendere lungo le gambe, risalire ai lati del bacino e insinuarsi sotto la maglia, all’altezza dei fianchi. Fu sollevato, nel sentire di nuovo la sua bocca sulla sua.
Ansimare e gemere in quel modo, non credeva potesse far piacere ad Erik…
Era meglio di qualsiasi fantasia creata dalla sua mente, rifletté per distrarsi, cercando di non lasciarsi del tutto andare, mentre Erik lo aiutava a sfilarsi la maglia, sfregando il più possibile le mani contro il suo torace e riabbandonandosi indietro, schiacciato tra Erik e la superficie di legno e i cuscini. Era tutto vero, vera quella sensazione che somigliava quasi a dolore nel basso ventre, così insopportabile che Charles sapeva di non riuscire a soffocare.  
Si scostò un momento da Erik, quando sentì un altro gemito salirgli alle labbra, umide di saliva, e scendendo con la mano a tentoni fra di loro, prese quella di Erik, trascinandola su di sé e facendogli sentire la sua eccitazione, sfregandosi e implorandogli di toccarlo. Sentì Erik sorridere contro la sua pelle, poco sotto l’occhio. 
“Charles…”
“Per… Per favore…”
Charles provò ad articolare ancora qualcosa, tenendolo la mano sulla sua, accompagnandone i movimenti, ma la voce gli uscì troppo roca, le parole strascicate in un gemito strozzato, mentre Erik continuava insistentemente a toccarlo attraverso la stoffa e anche solo così, Charles si chiedeva come avrebbe fatto a resistere, con il caldo che gli saliva alla testa e fra le gambe, il corpo di Erik che sfregava contro al suo. 
Sentiva la sua voce nell’orecchio bisbigliare il suo nome e frasi spezzate che in un altro frangente l‘avrebbero fatto scoppiare a ridere. Sciocchezze fondamentalmente, come chiedergli se aveva avuto paura di annegare. 
Niente che in quei momenti potesse sembrare anche solo reale.  
“Dovevamo… Dovevamo farlo mentre cercavi di annegarmi” biascicò ridendo Charles, facendo scivolare le mani sul bacino di Erik. 
Charles immaginò ancora il corpo di Erik stretto al suo sott’acqua, ripensando al sole che filtrava in quel verde iridescente. Si piegò in avanti, cozzando la bocca aperta contro la spalla di Erik. Erik gli tenne lì la testa con la mano libera, dietro la nuca, così che Charles si ritrovò a baciare e a mordicchiare quella pelle leggermente sudata, abbracciandolo e piantando le unghie nei muscoli delle spalle, mentre Erik spostava il braccio quel tanto che bastava per infilargli la mano oltre il bordo dei pantaloni, provando ad abbassarglieli, oltre la linea dei fianchi, muovendola su e giù, stringendo un poco.
Era lascivo, desiderare che Erik continuasse toccarlo, o che si decidesse a scoparlo, una volta per tutte, ma Charles non poteva fare a meno di volerlo, di pensarlo.
Si ritrovò a immaginare qualsiasi cosa, pur di non venire subito. Cercò di ripercorrere la scena in cui aveva provato a sparare ad Erik, immaginando di riuscirci, ma ottenne solo la rottura della tregua mentale che si era imposto.
Erik… Erik…  si ritrovò a blaterare nella mente, sollevandosi quel poco che bastava in modo che potesse finire di spogliarlo, più veloce adesso, attorcigliandogli i pantaloni e la biancheria giù fino alle caviglie, sfilandoglieli e ingaggiando una breve lotta, come se Erik stesso avesse improvvisamente la stessa fretta.
“charles sono qui...” gli mormorò Erik all’orecchio, baciandolo sulla tempia un poco sudata.  “Solo per curiosità…” aggiunse, scostandosi un poco, in modo che Charles potesse stendersi un po’ meglio sui cuscini ammucchiati dietro di lui.
Charles non rispose; gli mise le mani sui fianchi stretti, abbassandogli a sua volta, forse un po’ più maldestramente, i pantaloni leggeri con un fruscio trattenuto. 
“Davvero subdolo” sibilò Erik roco.
Charles lo attirò verso di sé, riuscendo quasi a intravederne il viso, nella debole luce notturna che entrava della finestra, passandogli i polpastrelli sul sottile rivolo di sudore che gli attraversava la schiena, prima di sentirlo sdraiarsi su di lui, sentire il suo bacino sfregare contro il suo, mentre lo baciava, lungo il mento e in bocca, quasi leccandolo, mischiando la loro saliva in baci umidi e sempre più impellenti. 
Charles si lasciò sfuggire un ennesimo lamento. L’erezione di Erik che sfregava contro la sua, sfiorandogli il ventre, era più vicino ad una tortura, ora. 
Era ancora diverso da Savannah e dalle volte precedenti. 
Quello di adesso, era qualcosa a cui Charles avrebbe voluto disperatamente fare l’abitudine, pensò, come se la novità fosse superata, pronta a raggiungere un nuovo livello di quasi perfezione. 
Stare con Erik, fare sesso con Erik in quel modo. Avere la certezza che la giornata prima o poi sarebbe finita e che ci sarebbe stato lui, in una routine così amabile e desiderabile. Affondare le dita tra i suoi capelli, lasciargli il segno dei morsi in attesa di fargliene di nuovi la notte successiva, sentire i gomiti sfregare sulle lenzuola calde e intrise del loro odore. Continuare a seguire le geografie che avevano le linee del suo corpo, all’infinito.
 Charles non avrebbe voluto nient’altro che quella routine. Si passò la lingua sul labbro superiore, prima che Erik cominciasse a seguire il morbido profilo della sua bocca con un dito, prendendo del tempo che Charles non era più in grado di concedere.
Erik, non …
Le iridi di Erik scintillarono un momento su di lui. Charles vedeva il profilo di alcune ciocche disordinate ricadergli su un occhio. “Chiedimelo, Charles.”
Charles lo guardò, gli occhi spalancati e l’accenno di un sorriso. Scopami.
“Chiedimelo davvero” mormorò Erik con voce roca, appoggiando le mani a lato della faccia di Charles. Sorrideva. Era inquietante, Erik sorrideva sempre quando era con lui.
“Scopami, Erik” rispose Charles, parlando dolcemente come se dovesse convincerlo. “Per favore.”
Erik si abbassò di nuovo su di lui, cominciando a baciarlo e mettendosi una mano di Charles vicino alla tempia.
Charles, lasciandosi scivolare un po’ più giù lungo il declivio dei cuscini, lo sentì pensare.
… Non ti rendi conto di quanto tu sia perfetto, Charles.
Charles gemette un poco nel sentire le labbra di Erik scendere lungo lo stomaco, accompagnandosi con le mani, verso il bassoventre, verso l’inguine, impedendogli subito di replicare.
“Erik intendevo…” ebbe solo la forza di sussurrare, cercando di vincere sé stesso. “Non così…” si protese verso di lui, tenendogli le mani intorno al collo. Lo tirò di nuovo su di sé, Erik lo assecondò, prima di allungare la mano a destra ed accendere la lampada bassa sul comodino. 
Una luce giallo arancio si riverberò nella stanza, ma era abbastanza smorzata da non dare loro del vero fastidio. Charles fu immediatamente rassicurato, nel vedere il viso di Erik senza le ombre a contenderselo. Gli veniva da ridere, era una richiesta assurda. Però era Erik, era come lui; non proprio una ragazza.
“Perché?” domandò Erik perplesso e ricadendo su di lui, recuperando un poco di respiro, la testa posata sul suo sterno.
Charles inspirò, ridendo sommessamente, sentendosi gli occhi lucidi e la pelle arrossata. Gli dolevano un po’ le labbra per la foga con cui lui ed Erik si erano baciati; sembravano pulsare leggermente. Ma apprezzava il sentire il caldo respiro di Erik sulla sua pelle. Riusciva quasi anche a sentirne il cuore, battere tra le costole. 
Forse Erik sentiva il suo.
“Perché…” cominciò seriamente, cercando una ragione valida, mentre Erik alzava un po’ il capo per guardarlo. 
Perché devi stare davanti a me.
"Divertente." Gli occhi di Erik si rabbuiarono per un attimo e Charles immaginò che forse si era solo incupito per avergli parlato, ancora intenzionalmente, nella mente. Dovette ricredersi quando Erik, facendo scorrere le mani sulle sue gambe e rimettendosi davanti a lui, lo invitò a divaricarle. Charles sorrise, sentendo Erik appoggiarsi nuovamente su di lui, e incrociando il suo sguardo gli indicò il cassetto del comodino.
“Perché?” mormorò quando fu di nuovo sopra di lui, guardandolo attentamente. “Per una volta, lascia che…” Erik gli accarezzò goffamente i capelli, scostandoglieli dalla fronte. Un gesto per nascondere il suo turbamento, probabilmente. 
“Potresti?” chiese Charles debolmente, socchiudendo le palpebre mentre quelle strane rughe premature si tracciavano attorno agli occhi.  “Io mi fido di te. E fa' ridere detto in questo modo ma...”
Erik alzò gli occhi al cielo.“Charles…”
“Dico davvero. Adesso, te ne prego…” Charles gli diede un bacio rapido, socchiudendo appena gli occhi. “Erik.”
Erik lo scrutò ancora a lungo, prima di raddrizzarsi un poco, le braccia tese. Puntellandosi sulle ginocchia, gli si stese meglio sopra cercando di non pesargli addosso, in apparenza senza guardarlo.
Charles gli sorrise soddisfatto, allungandosi meglio sul letto e circondandolo con le braccia. 
Erik si abbassò di nuovo su di lui, mettendo il viso a lato del suo, mentre Charles, da sopra la sua spalla, fissò intensamente il soffitto immerso nelle ombre confuse, sentendo Erik ridere piano e mormorargli  un’ultima volta di non ridere, perché avrebbero potuto sentirli davvero questa volta, non erano certo protetti dall’indifferenza di un albergo, mentre iniziava a cercarlo con le dita, infilandone prima una, poi due, muovendole lentamente avanti e indietro. Charles si lasciò sfuggire un debole ’sì’ prima di serrare le palpebre e sollevare un poco le gambe, per permettere ad Erik di muoversi, il quale, dopo ancora qualche attimo di apparente indecisione, s’inarcò un poco mentre entrava in lui.
Charles contrasse le dita sul suo torace e  si morse il labbro inferiore. Se l’avesse fatto solo un più forte forse si sarebbe tagliato, sentendo il sapore del sangue, ma resistette, mentre Erik scivolava dentro di lui cercando di rendere il movimento più fluido possibile. Si lasciò sfuggire un gemito prolungato, che coprì il respiro di Erik, vagamente più rapido e profondo, piegandosi di più. 
La prima spinta gli strappò una smorfia e un verso confuso, strozzato, storpiando il nome di Erik, che prontamente, tenendolo per la nuca, gli sollevò la testa, più stretta contro l’incavo tra la spalla ed il collo. 
Prima di rendersene conto Charles teneva la bocca semi aperta in un grido smorzato, premuta contro quella carne tenera, come se dovesse affondarci i denti, cosa che effettivamente fece, ma quando ormai il dolore era del tutto passato, era ben oltre dal preoccuparsene, soffocato da quella piacevole sensazione di abbandono che gli faceva dimenticare ogni cosa, tranne Erik e il modo in cui era dentro di lui.
Erik fu tentato di fermarsi, sentendo la voce di Charles farsi sempre più soffocata, i gemiti diventare simili a rantoli di dolore, ma Charles lo tenne comunque stretto a sé con le braccia, sempre più stretto, convulsamente, come se la presa potesse scivolargli nel toccare la sua pelle sudata. 
Erik s’inarcò su di lui, spingendo più a fondo; Charles era così adorabilmente stretto e caldo. Continuò ancora, ansante, premendolo contro i cuscini e il letto. Effettivamente, era sempre la scelta migliore.
Non sapeva perché, ma Charles che lo morsicava per trattenersi dal gemere, il ricordarlo con la Browning puntata alla tempia e come era uscito dall’acqua, abbattuto e un po’ curvo,
i vestiti appiccicati al corpo, gli occhi arrossati, le mani tremanti e graffiate…
Charles che gli diceva che non si sentiva perfetto, che non si sentiva alla sua altezza e che lui non capiva.
Quello stesso Charles che ora cercava il suo viso, baciandolo con lascivia e che gli chiedeva solo di scoparlo ancora, ancora e sempre, passandogli la lingua sui denti, le gambe strette ai suoi fianchi.
 Charles che lo pregava, che si fidava, che lo desiderava. Che lo supplicava. E non giocava a fare l'arrogante, per una volta.
Era come se non ci fosse altro, nella testa di Erik. Persino l’idea di non fargli del male venne cancellata, rifletté, spingendolo più giù, premendogli le mani sulle spalle, come se volesse schiacciarlo tra i cuscini, i suoi movimenti più rapidi.  
Non c’era più alcun timore di superare quella soglia, come se il vederlo soffrire e il vederlo felice, fossero la stessa eccitante cosa. Gli mise una mano sulla bocca, per frenare il suo grido, quando lo vide piegare il capo all’indietro, esponendo il collo e socchiudendo gli occhi lucidi, la pelle sanguigna. 
La presa di Charles sulla schiena di Erik, cedette. Le braccia gli ricaddero fiacche sul letto, sforzandosi appena di trattenere le lenzuola tra le dita, il corpo sempre più abbandonato, scosso solo dai movimenti di Erik dentro di lui. Erik allontanò le braccia dalle spalle di Charles, cominciando a toccarlo, accompagnandosi con i movimenti del bacino. 
Charles alzò appena la testa per guardarlo con occhi vacui e la mente di Erik si popolò di immagini.
Neve. Westchester sotto la neve, il cielo sfocato, violaceo, denso di oscurità. Una delle fontane del parco, irta di stalagmiti di ghiaccio. Erik sentiva talmente il freddo di quella sera invernale che si chiedeva perché  il suo respiro non si trasformasse in brina. Poi vide sé stesso, sé stesso con Charles, intento a pulirgli le mani insanguinate, come quello stesso mattino, appoggiati al bordo della fontana. E infine, Charles che lo abbracciava, nella notte.
Non era un ricordo vero. Non del tutto, Erik lo sapeva.
Era qualcosa che forse non si sarebbe mai avverato, eppure in quel freddo irreale, in quella realtà cadenzata dai loro respiri spezzati, per un momento sembrò vero.
Erik realizzò che avrebbe voluto stare con Charles. Non avrebbe mai voluto separarsi da lui. 
Sentì un fremito attraversargli il corpo e mosse i fianchi più lentamente, chinandosi su Charles, appoggiando il capo a lato del suo viso. La pelle di Charles era madida e bollente, e lui sembrava così debole, reagiva sempre meno ai movimenti di Erik, come se si stesse lasciando andare.
Poi, Erik sentì il liquido caldo e vischioso imbrattargli lo stomaco, mentre guardava Charles socchiudere le labbra, lasciandosi sfuggire un’ultima volta il nome di Erik.
Erik lo vide chiudere gli occhi e agganciandolo per le braccia con le sue, lo tirò verso di sé, mettendolo dritto e abbracciandolo, dondolandosi e spingendo ancora il bacino, sempre più dentro Charles, restando inginocchiato sul letto. Dopo un’ultima spinta, venne dentro di lui, storcendo la bocca in un verso strozzato, mentre Charles gli rimaneva aggrappato, la testa affondata nell’incavo del collo.
Rimasero in quella posizione per un tempo che sembrò loro lunghissimo, ansanti e stremati. Charles respirava sempre più piano, recuperando lentamente un ritmo regolare. Erik sentiva il suo torace alzarsi ed abbassarsi lentamente contro al suo. Gli sfiorò distrattamente la base del collo, all‘attaccatura dei capelli.
“Charles?” gli domandò a voce bassa, ancora affannato e un poco impensierito dal suo silenzio. 
Va tutto bene. Davvero… Sono solo… concluse con un sospiro, dopo un po‘.
Erik s’inclinò in avanti, mettendogli una mano dietro la schiena e accompagnandolo quasi, come se dovesse aiutarlo a rimettersi disteso e poi si scostò da lui, mettendoglisi accanto, al suo fianco.
“Mi dispiace” gli disse, rimanendo girato verso di lui e guardandone la faccia macchiata con vistose arrossature sanguigne, gli occhi lucidi nascosti dalle palpebre e le labbra appena aperte. Aveva un po’ di timore nel toccarlo, adesso.
“Credo di averti ... Charles...” non sapeva che dirgli. Sembrava sempre difficile parlarne così.
Charles scosse appena la testa,  guardandolo da sotto le ciglia, ancora un poco abbassate. 
“Smettila Erik. Non è così. E’ stato…” Charles aprì gli occhi, scrutando oltre la densa luce arancione, fra le ombre proiettate dalle cose che popolavano la sua stanza, i palmi delle mani aperti sulle lenzuola  spiegazzate.
Erik annuì, ancora non molto convinto. “Che cos’era quel… Quella specie di ricordo?”
Charles incurvò le labbra in un lieve sorriso.“Sai che non era un ricordo. Non fare l’ingenuo, amico mio…” rispose, dandogli un colpetto sul torace con il dorso della mano.
Erik lo trattenne, senza farci caso, intrecciando le dita alle sue.
“Era un ricordo falso?”
“Era... una possibilità.”
Gli occhi di Charles furono attraversati da un bagliore fugace, tanto che Erik pensò di esserselo solo immaginato. “Resta a Westchester” disse con noncuranza. “Con me.”
Erik si mise giù, ridendo piano, le spalle un poco sussultanti. “Ci sono già. Non hai bisogno di…”
E invece sì. Perché potrebbe accadere qualcosa, qualsiasi cosa, se Shaw…
Erik strinse le dita di Charles un poco più forte. “Non parlare di lui.”
“Dovremo parlarne prima o poi” replicò Charles imperterrito, mentre sulla sua fronte si disegnavano solchi profondi. “Perché dovremo affrontarlo, una volta fuori da qui. E tu lo sai meglio di me, Erik.”
Charles sapeva perché stava parlando così, quando si sentiva tutto fuorché deciso.
Ma ora, nell‘intimità della sua stanza, si sentiva sufficientemente pronto per dirgli perché, vincendo la diffidenza verso sé stesso.
Sono terrorizzato. Non so come andrà a finire. Non sono in grado di gestire questo. Sono pure riuscito a far uccidere…
“Non li hai uccisi tu, Charles.”
“Perché tu sei un esperto, vero?” domandò Charles stizzito, lasciandogli la mano di scatto e mettendosi seduto, prima di sbarrare  gli occhi nel sentire quello che lui stesso aveva detto. Aveva parlato senza pensare. 
Erik non se lo meritava; si aspettò di ricevere qualche dovuta risposta perfida, ma Erik si limitò a mettergli un braccio attorno alle spalle.
“Un po’ lo sono” replicò Erik dolcemente al suo orecchio, facendo sprofondare Charles nell’impaccio più profondo.
Non posso controllare tutto. Ma continuo a volerci provare, pensò. 
“Charles, tu non sei così. Se tu fossi davvero debole come dici, saresti…”
Un essere umano?
Erik corrugò la fronte. “Non saresti arrivato qui, non avresti fatto aiutato Moira, non avresti aiutato…  Noi non saremmo qui. Per una volta che non me la prendo con gli esseri umani, Charles, fa’ finta di ascoltarmi. Te ne sarei grato.”
L’espressione di Charles si distese un poco, prima che si voltasse verso Erik, appoggiandosi a lui.
“Però non ti dispiace che io possa sembrarlo, vero?”
“Umano?” domandò Erik con noncuranza, guardando la luce notturna filtrare dalla finestra socchiusa.
“Debole” rispose Charles. 
Un debole rossore affiorò sugli zigomi di Erik. “Ti avevo detto di non…”
“E’ un po’ difficile quando sono così… Ecco, vulnerabile?” replicò Charles con un sorriso compiaciuto, gli occhi brillanti. “Lo sai. E poi tu mi hai distrutto le cornici e chissà cos’altro, quindi ho tutto il diritto di vedere quello che pensi. Ogni tanto” aggiunse divertito.
“Cornici?” Erik gli rivolse un’occhiata smarrita, prima di seguire il cenno di Charles ad indicare i rettangoli argentei accartocciati su sé stessi ed irrimediabilmente deformati, esposti sul comodino.
“La prossima volta comprale di legno. Basta gettare denaro così” fu il commento impassibile di Erik.
“Cosa?” Charles aprì la bocca in una smorfia incredula, guardandolo ridistendersi con le braccia incrociate dietro alla testa, sui cuscini sprimacciati.
“Non darmi ordini su come amministrare il mio denaro” borbottò Charles fingendosi contrito, allungandosi a sfiorare una delle cornici ormai inservibili. Gli inquilini delle fotografie erano rimasti intrappolati all’interno, e Charles si chiedeva se li avrebbe mai rivisti. 
“Povero Einstein” mormorò, rimettendone una al suo posto.
“Avresti bisogno di qualcuno che ti sorvegli, Charles. Mi chiedo come hai fatto a mantenerti in vita.”
“Se è un modo contorto per dire che rimarresti qui, sappi che non lo accetto” ribattè Charles, mettendosi accanto a lui e coprendosi di nuovo con le coperte. Non specificò però che con ‘qui’ intendeva Westchester in generale. Intendeva lui stesso.
Erik rise, scivolando vicino a lui, in modo da fissarlo faccia a faccia.
“Vuoi che torni nella mia stanza?”
Charles inarcò le sopracciglia, irrequieto, sfoggiando un'espressione che voleva essere eloquente.
“Ma prima o poi dovrò farlo, Charles. Cosa succede se…” obbiettò Erik in tono serio, dopo avergli sorriso.
Charles scosse il capo, accarezzandogli la spalla, seguendo la linea del muscolo. “Non succederà. E comunque, per stasera preferisco correre il rischio.”
“Credevo che con il rischio avessi concluso questa mattina.”
“Erik…” Charles lo scrutò intensamente, poi si avvicinò e lo baciò. Essenzialmente per farlo tacere, almeno un attimo o Charles si sarebbe di nuovo messo a ridere. Si aspettava di venire respinto, di venire rimesso al suo posto con un’altra risposta arguta, ma Erik lo prese per la schiena tirandolo su di sé, rotolandosi un poco fra le coperte disordinate.
Charles si ritrovò a guardare il viso di Erik sotto di lui, a schiacciare le sue braccia contro il materasso, i capelli davanti alla fronte.
Erik lo guardò, le iridi chiare luccicanti, quasi sfidandolo. 
“Se resto qui, puoi fare del male a me, Charles.”
 
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Il temporale aumentò d’intensità lo scroscio della pioggia divenne più insistente. 
Charles si accorse di aver lasciato la finestra aperta. Sentiva le tende chiare ondeggiare e frusciare strenuamente nell’aria che le gonfiava e le faceva sbattere contro i vetri socchiusi, che a loro volta cozzavano tra loro con un suono cadenzato. Sbatté le palpebre nella luce scarsa, liberandosi dal lenzuolo e scostandosi un poco da Erik, sfilandosi dalla sua presa.
“Che c’è?” lo sentì chiedere sommessamente, la faccia per metà seppellita nel cuscino. “Charles?”
“Vado solo…” Charles gli sfiorò la guancia. “Torno subito. Temporale.”
Posò i piedi sul parquet fresco, camminando sulle assi lucide. Sicuramente stava lasciando delle belle impronte opache. Fece scorrere la mano sulla maniglia di ottone, e spinse le ante, mentre il colpo di un tuono faceva tremare i vetri. Charles rabbrividì. Non gli erano mai piaciuti i temporali. Erano… difficili da controllare. Da prevedere. Però, l’aria fredda della notte sulla pelle accaldata, non gli dispiaceva.
Rimase un poco lì, a fissare le sagome nere degli alberi piegarsi sotto alla sferza del vento, respirando quell’aria fresca e satura di pioggia.
Il bagliore di un lampo giallastro si riverberò nel paesaggio notturno. 
D’istinto, Charles si girò verso l’interno della camera e il sopraggiungere di quell’istante di luce, gli fece intravedere il corpo di Erik, accoccolato nel letto, una mano tesa in avanti fra le lenzuola scostate, come se lo stesse aspettando.
La luce del lampo presto si dissolse e Charles, in quel momento realizzò.
Mentre lo schianto di del tuono veniva rinchiuso fuori dalla finestra, un paio di ricordi si aprirono nella mente di Charles; Erik che dormiva in macchina e lui che guidava sotto la pioggia. Erik che lo baciava per primo, quando aveva capito quello che Charles non riusciva ancora bene a realizzare. Lo svegliarsi assieme, l’unica volta che era successo, a Savannah. Erik che lo supplicava di perdonarlo, Erik che gli diceva che lo voleva. 
E per ultima, la prima volta in cui aveva realizzato che Erik gli faceva un effetto molto più viscerale di quanto in realtà Charles potesse anche solo sospettare, qualcosa di più profondo di un semplice sentimento d’amicizia.
… Io sono con Charles.
Era un attimo durato niente, forse nemmeno così importante… Ma Charles non si era mai sentito tanto preso, tanto catturato, come in quel momento. Tanto affascinato da qualcuno. Soggiogato.
E Charles aveva riempito tutto quel tempo solo concentrandosi sul presente. A esistere, senza cercare di dar troppo peso a quello che sentiva, solo a viverlo. Senza pensarci davvero, senza definirlo, mascherandosi dietro sceneggiate e fantasie e discorsi inutili che in realtà, non portavano da nessuna parte. 
Se non ad Erik, che era il punto comune di tutti quegli ultimi mesi. 
Erik, che era diventato tutto ciò a cui Charles pensava, tutto ciò che lo accompagnava.
Ecco quello che gli impediva di vedere chiaro, quello che si ergeva dietro quelle minuzie, quei segnali inconsci, quelle sciocche paranoie. Era innamorato di lui.
L’aveva già sospettato a Stoccolma, ma non era ancora riuscito a definire quella strana sensazione di amabile felicità e indistinta gioia che gli pervadeva il cuore, anche solo nel sentire il suo nome. Ma adesso…
Era innamorato di Erik. Era qualcosa di così atrocemente bello che non sarebbe più riuscito a prendere sonno, riflettè Charles, rimettendosi contro di lui, sentendo le sue braccia tiepide abbracciarlo.
Avrebbe voluto svegliarlo e dirglielo, subito. Il suo coraggio gli appariva inesauribile, adesso. 
Ma s’impose di aspettare. Charles voleva che quello fosse il primo di lunghi giorni, il primo esempio perfetto di come avrebbe voluto che fosse il resto del suo tempo, di lì a venire.
Giorni forse uguali, forse ripetitivi, forse carichi di aspettativa. Ma ci sarebbe stato Erik e per Charles, quella era l’unica cosa che contasse veramente.
 
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Passarono dei giorni, prima che Charles potesse anche solo sperare di trovare un’occasione adatta, per dire ad Erik ciò che avrebbe voluto dirgli.
Avrebbe voluto anche solo sussurrarglielo di sfuggita, non appena lo incrociava per la villa, non appena si ritrovavano fianco a fianco a commentare i progressi di Alex o Sean, o a commentare le ultime modifiche di Hank, o a parlare con Moira. Non appena si sedevano l’uno di fronte all’altro per un Whiskey Sour serale, osservandosi sopra gli eserciti di pedoni, torri, alfieri, parlando distrattamente di quello che era stata la giornata, aspettando il momento in cui tutti sarebbero andati a dormire ed Erik si sarebbe presentato, casualmente, in camera di Charles.
Non che non avessero occasione di rimanere da soli quindi, ma Charles arrivava solo al punto di fissarlo negli occhi e il coraggio gli veniva meno.
Si costringeva a sorridere e parlare tranquillamente, mentre l’unica cosa che desiderava era metterlo al corrente di quello che finalmente, nella sua testa, era riuscito a concretizzare.
Non si era chiesto se Erik provasse lo stesso, non davvero. Non pensava che il modo in cui avevano iniziato a passare e a dividere le giornate era già sintomo di qualcosa.
Anche se, chiaro, la nuova gestione del tempo a Westchester, dio, era già un maledetto sì. Non poteva non esserlo.
Charles, non sapeva nemmeno stabilire quale fosse il momento più bello di quelli che passava con Erik. Forse il parlare con lui, raccontandosi i progressi della giornata. Forse, lo stare a letto assieme e quello, già bastava a far dimenticare a Charles tutto quello su cui stava riflettendo. O ancora, quando distrattamente gli raccontava quella che era la sua vita prima di incontrarlo, lasciandosi sfuggire dettagli che lo incuriosivano, e cominciava una lotta verbale perché Charles si affidava solo alla sua umana capacità di persuasione, per saperne di più. 
Il vederlo confuso e più propenso a ridere mentre Charles cercava di spiegargli qualche base di genetica. Il sentirlo leggergli Hermann Hesse o qualcun altro autore che Erik scovava fra i libri di Charles, fino a mesi prima ignorato, prima che si addormentasse o preso a rovinargli il finale degli Agatha Christie che Charles aveva messo da parte, nella speranza di avere del tempo libero, un giorno. 
Non conosceva il momento perfetto. Era un’infinita successione di tempo amabile, tranne forse al mattino, quando la luce dell‘alba cominciava a filtrare fra le tende.
Quello era sicuramente l’arco di tempo che Charles temeva di più, perché voleva dire che un’altra giornata con Erik era trascorsa e che lui se ne sarebbe tornato nella sua stanza, perché dovevano mantenere in piedi quella farsa, non vivevano certo da soli, gli spiegava Erik ogni volta con calma, ribadendo che era Charles quello paziente e che avrebbe dovuto capirlo da solo. Quello che avrebbe dovuto sbatterlo fuori, non certo implorarlo di restare per un altro paio di minuti…
E che, per quanto gli dispiacesse, le cose dovevano andare così.
“Tornerò” gli bisbigliava Erik ridendo, gli occhi un po‘ in ombra e dispiaciuti, dopo essersi rivestito e provando a commentare divertito quella situazione. E Charles, non poteva fare altro che sorridergli di rimando, facendogli un cenno con la mano, accarezzandogli un’ultima volta il viso e provare a riaddormentarsi fra le lenzuola stropicciate, una volta che se n’era andato. Si rifiutava però di sconfinare nella parte di letto dove dormiva Erik, limitandosi ad appoggiarci una mano sentendone lentamente il calore, svanire.
Ogni qual volta vedeva la luce pallida filtrare dalla fessura delle tende, allungarsi un poco sul lucido parquet, Charles temeva il momento in cui Erik lo avrebbe sfiorato, sentendo una morsa allo stomaco nel sentire il suo ‘a dopo’.
Non che non ci provasse a pregarlo di rimanere. 
Erik stesso, un mattino aveva quasi ceduto, finché Charles non si era arreso prima, sapendo che se per disgrazia qualcuno li avesse visti...
Charles non sapeva esattamente cosa sarebbe accaduto, ma non voleva correre il rischio. 
C’era solo un accordo che Charles gli aveva pregato di mantenere; che Erik non se ne andasse mai dalla stanza senza avvisarlo, anche a costo di svegliarlo del tutto.
Non l’avrebbe sopportato.
Erik non sembrava aver avuto troppi problemi a concederglielo, nonostante l‘iniziale disappunto. Se Charles si fosse mostrato stanco e affaticato, gli ‘alunni’ avrebbero cominciato ad approfittarsene, aveva scherzato.
Charles, irremovibile, aveva ribattuto che se dopo le ultime notti passate assieme era in grado di comportarsi con irreprensibile normalità, cinque minuti di sonno rubato non avrebbero rappresentato qualcosa di estremamente gravoso da sopportare.
Ecco perché ci stava mettendo tutto quel tempo, a dirglielo. Sembrava mancasse sempre qualcosa, sembrava non esserci mai il momento migliore. 
Nel caso peggiore, si era immaginato di parlargli poco dopo che Erik aveva spinto Sean giù dal satellite, esaltato dal successso della prova di volo, ma poi si era ricordato della presenza di Hank e decisamente, aveva dovuto astenersi.
A volte, era Charles stesso che si rifiutava di trovare la situazione, pensando che sarebbe stato più utile stare giù al bunker con Alex a sostituire i manichini o andare ad aiutare Moira a mettere in piedi le intelaiature di vetro per Sean, o imparare a sparare, dannazione. Aveva anche ripreso a correre.
Nell’ansia di voler passare sempre più tempo con Erik, nel desiderio di stargli sempre più vicino, Charles era arrivato a riempirsi la giornata di attività a cui Erik sembrava non interessarsi affatto. 
Oltretutto, aveva cominciato a notare che c’era qualcun altro che osservava Erik e lo cercava con frequenza. Qualcuno che non era lui.
Tuttavia, Charles godeva di quella sciocca sicurezza, prerogativa delle persone innamorate, che lo portava a credere di essere superiore ad ogni cosa in fatto di sentimenti, protetto dalla sua indifferenza verso tutti e connesso ad Erik da una speciale fiducia che rendeva lui e i suoi desideri inavvicinabili agli altri.
Qualcosa che li proteggeva da una qualsivoglia influenza esterna.
E l’idea che Raven potesse anche solo costituire il barlume di una minaccia, non lo sfiorava affatto.
Lui era innamorato di Erik.  In quella considerazione, c’era già un divario che lo rendeva del tutto diverso, del tutto speciale agli occhi degli altri, se fossero stati in grado di vedere. E migliore, lo rendeva migliore.
C’era stato un momento in cui aveva davvero pensato di dirglielo. Dirglielo davvero. 
Un momento in cui si era sentito così vicino ad Erik che si era meravigliato, nel sentirsi commentare il suo successo solo con una risata felice ed una pacca sulla spalla.
Sapeva che dentro la mente di Erik c’era molto di più del solo dolore. Molto più che ricordi violenti o strazianti. 
Erik gliel’aveva detto, anche a Savannah, tuttavia Charles non aveva saputo subito cosa cercare. Ma ci aveva  riflettuto un poco e infine aveva capito. Una prima forma d’amore. Qualcosa di luminoso, il sacrificio che Erik aveva dovuto subire perché incontrasse Charles.
Sua madre.
I poteri di Erik potevano essere condizionati dalla rabbia, dalla preoccupazione e dalla paura. Charles si era limitato a dargli un punto fisso, qualcosa libero da qualsiasi condizionamento esterno. Questo lo rendeva davvero molto più forte, rispetto a Charles, perché permetteva ad Erik di controllarsi meglio di quanto lui potesse fare, lo rendeva in grado di dominare ciò che lo circondava.
Perché se la vera concentrazione di Erik stava tra rabbia e serenità, quella di Charles sembrava essersi smarrita del tutto, poiché questa non stava affatto tra due poli opposti. 
Aveva un unico ingovernabile centro,  e quel centro era Erik.
 
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Il suo primo pensiero fu che era ancora presto. 
La lama di luce che s’insinuava fra le lunghe tende accostate era di una fioca tonalità bianca, il colore che Charles aveva imparato ad associare all’alba. Ciò che non quadrava, era il fatto di essersi svegliato da solo, come se adesso il suo dispiacere di dover salutare Erik, fosse diventato tanto pungente da obbligarlo a svegliarsi prima di lui.
Convinto che questa mancanza meritasse un rimprovero accurato, Charles si rigirò lentamente con un vago sorriso e vide, sbattendo le palpebre e sbadigliando un poco, che era solo.
Corrugò un poco le sopracciglia ed automaticamente guardò verso la porta del bagno, ma quella era chiusa e anche i vestiti sulla sedia dove solitamente Erik li appoggiava, dopo averli ripiegati, erano spariti.
Charles si mosse il labbro, strofinandosi il dorso della mano sugli occhi, cercando di dissipare quel poco di spossatezza che ancora gli impediva di pensare coerentemente.
L’orologio alla parete segnava le sei e mezza passate, e lui non riusciva ad immaginare perché Erik se ne fosse dovuto andare tanto presto.
Era brutto e inutilmente avvilente, rifletté scalciando via le coperte e andando a scostare le tende, prima di affacciarsi dalla finestra torcendosi le mani, per cercare di vedere se Erik fosse uscito di nuovo a passeggiare nel parco. O bussare insistentemente alla porta del bagno, aspettando di ricevere una risposta che non arrivava.
E soprattutto, non era normale farsi venire un attacco d’ansia per una cosa così banale. No davvero.
Charles stava per arrendersi, portandosi la mano alla tempia e sondare l‘intera casa, quando vide il biglietto, infilato nella cornice dello specchio appeso sopra la cassettiera. Ancora barcollante per i postumi del sonno, sentendosi la pelle appiccicaticcia per il caldo afoso che cominciava a entrare dalla finestra e per l’essere appena uscito dal letto, si avvicinò, sfilandolo con un colpo secco.
C’era scritta un’unica parola e Charles all’inizio pensò che fosse solo uno scherzo, l’ennesimo di Erik, perché non poteva certo immaginarlo intento a …
 
 
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“Ehi” lo salutò, lanciandogli un’occhiata di sbieco e appoggiando un piatto vuoto, sulla tavola già quasi del tutto apparecchiata. 
Charles ricambiò il sorriso, stringendo nel pugno il biglietto che Erik gli aveva lasciato, quello con scritto Frühstück? assieme a qualcosa, cancellato da segni decisi di penna, che avrebbe dovuto essere la parola ‘colazione’ in inglese. Per un po’ rimase sulla soglia con le braccia lungo i fianchi guardando il pavimento, rimpiangendo di non aver messo un paio di pantaloni veri, preferendo quelli del pigiama, senza tasche. Spostò il peso da una gamba all’altra, guardando ogni tanto Erik indaffarato a controllare la fiamma sotto le pentole, a rigirare qualcosa che sembravano pancakes e respirando l’aria che sapeva quasi inspiegabilmente di zucchero a velo. Solo quando lo vide di nuovo girarsi verso di lui e fargli un cenno verso la tavola, mosse dei passi verso il tavolo, scostando la sedia con secco stridio, che lo infastidì. Si affrettò a mettersi seduto, continuando a guardare fisso davanti a sé, stringendo ancora più saldamente il biglietto nel pugno, fino a posarlo sul tavolo, tutto accartocciato.
Era strano. Erik l’aveva sorpreso, ancora una volta, e ora Charles si rendeva conto di sentirsi più impacciato che mai, anche se dannazione, era mattina, e quella era solo una colazione. Niente di pericoloso, o sconveniente sotto altri punti di vista.  
Il rumore della spatola di metallo che cozzava contro il bordo della padella, riportò Charles alla curiosa scena che aveva davanti.
Erik Lensherr ai fornelli che spegneva la fiamma e metteva pancake dorati, in un piatto coperto da un tovagliolo per asciugarli, prima di avvicinarsi al frigo, aprirlo e dopo una rapida scorsa, tirare fuori un piccolo vassoio di waffles di fragole e uva, come se sul tavolo, ingombro di pane e uova strapazzate e vasetti di marmellata che dio solo sapeva dove fosse andato a trovare, non ci fosse abbastanza.
Charles, allibito, si ritrovò a sperare che smettesse di muoversi fra i ripiani, aprendo gli scomparti, a volte senza nemmeno toccare le ante, e tirando fuori cose che Charles non aveva mai pensato di possedere dentro casa sua, figurarsi dentro la sua cucina.
Aveva persino rintracciato qualcosa che dovette spacciargli per una teiera, quando gli prese la tazza che aveva davanti, versandogli del tè. Earl Grey, indovinò Charles riconoscendo il sentore di bergamotto, guardando ancora in basso. Perché Erik non si sedeva? Non riusciva a ….
Solo quando si fu accertato che fosse tutto in tavola, con lunghi sguardi cupi verso la zuccheriera momentaneamente scomparsa, e dopo aver portato i pancakes davanti a Charles, Erik si sedette davanti a lui.
Charles trovò il coraggio di alzare il viso. Avrebbe voluto chiedergli come aveva fatto e perché l’avesse fatto soprattutto, mentre una piacevole morsa, che non era possibile attribuire solo alla fame, gli artigliava lo stomaco. Si ritrovò solo a guardare gli occhi di Erik, mordendosi il labbro inferiore. Si sentiva felice.
“Sei silenzioso.”
“Non me l’aspettavo” disse Charles dopo un momento. Gli sorrise, allontanando i gomiti dal tavolo, cercando di tenersi appoggiato solo con gli avambracci. Fece scorrere il dito sul manico argentato della forchetta, diffidando dell’idea di alzare ancora lo sguardo su Erik, finché era lui ad osservarlo. 
“Grazie” disse. “Mio dio, Erik. Non sapevo che sapessi…”
“Non lo sapevo nemmeno io” replicò Erik sovrappensiero, prendendo il piatto di Charles e riempiendoglielo con qualche fetta di pane tostato. “Penso sia colpa del vivere negli alberghi” aggiunse sovrappensiero. 
“Non puoi aver fatto tutto da solo” replicò Charles, contemplando un waffle troppo ben riuscito.
Erik sollevò un sopracciglio, indispettito. “Non ti fidi di me?”
“Solo se ti aspetti che io mangi tutto” mormorò Charles fingendosi preoccupato. “Dovrò mettermi a correre come un disperato, appena avrò finito.”
Erik afferrò il piatto che aveva spostato verso Charles, ritirandolo verso di sé. Charles, ridendo, mise la mano sulla sua, ritirandola in fretta. “Scusa.”
Sentì lo sguardo interrogativo di Erik su di sé e si affrettò a spiegare. In un attimo, si accorse che non era per nulla difficile ad Erik quanto quello che aveva fatto per lui gli facesse piacere, assaggiando quello che aveva preparato. 
La luce calda che entrava dalle finestre alte, rendeva l’atmosfera in cucina più accogliente di quanto non lo fosse mai stata e forse era anche grazie a quella, che Charles riuscì a parlare, chiedendogli come gli fosse venuto in mente, da quanto tempo era sveglio, se oggi sarebbero potuti tornare al satellite, farsi spiegare davvero come aveva imparato a cucinare…
Erik, che tuttavia non aveva apparecchiato niente per sé, a parte una tazza di tè e un piattino di biscotti dolci, continuava a guardarlo, con sommo imbarazzo di Charles anche mentre mangiava, rispondendo quanto più concisamente alle domande, inclinando un po’ il capo a destra quando era pensieroso e ridendo quando si sentiva messo in difficoltà.
Solo quando lo vide distratto a guardare qualcosa nell’angolo, Charles smise.
“E’ meglio che torni in camera” mormorò Charles seguendone lo sguardo, intento ad osservare l’orologio. 
“Vuoi prenderti il merito di aver cucinato la colazione?” replicò Erik ridendo piano, alzandosi lentamente e posando la tazza sul lavello, sciacquandola rapidamente. 
Si voltò per guardare un momento fuori dalla finestra e così facendo, Charles potè vedere di sfuggita i segni lividi che gli aveva lasciato sul collo e più in basso, sulla gola, con i denti. Si sentì arrossire, notando quel particolare. Sembravano così fuori luogo, nell’atmosfera domestica della cucina. Appartenevano a dei momenti delle loro giornate che c’entravano poco con l’adesso. C’entravano poco con la responsabilità, con il fatto che avrebbero dovuto muoversi, cercando di salvare le apparenze davanti agli altri.
“Non mi permetterei mai” ribatté Charles alzandosi a sua volta per dargli una mano, riponendo la bottiglia del latte nel frigo, facendosi passare le altre cose da Erik.
Recuperò la sua tazza e andò al lavello, tenendo anche i piatti affollati di briciole, ma mentre cercava di passare si ritrovò a sbattere contro lo schienale della sedia, nel tentativo di lasciare spazio ad Erik. Sentì lo stridore della porcellana e fece un mezzo giro su sé stesso, portandosi piatti, tazza e forchette al petto, sgranando gli occhi.
“Charles!” Erik aggiunse la stretta a quella di Charles per aiutarlo a tenere le stoviglie in bilico, per poi sfilargliele di mano ed appoggiarle al ripiano, salvando anche la tazza dalla sua posizione compromettente.
Charles barcollò un poco, afferrando con le mani il bordo del mobile dietro di lui, socchiuse gli occhi, scrollò il capo e scoppiò a ridere. Stava per iniziare a commentare la sua proverbiale incapacità di coordinazione in presenza di Erik, quando se lo ritrovò vicino, quasi a schiacciarlo contro il ripiano della cucina, vicino al lavello.
Gli era praticamente contro; se Erik lo avesse spinto con la giusta forza, con tutta probabilità si sarebbe ritrovato seduto sul piano. Almeno era questo che pensava, mentre Erik gli metteva le mani sui fianchi e si chinava verso di lui, finché il campo visivo di Charles non fu del tutto invaso dal viso di Erik. Charles sentiva la pelle formicolare e cercò inutilmente di trattenere il respiro. Involontariamente, o così preferì pensare, gli mise le mani attorno alla vita, tirandolo ancora più contro di sé, allungandosi quel tanto che bastava per sfiorargli la guancia con la bocca, prima di socchiudere le labbra sulle sue.
Erik si spinse ancora contro di lui e la testa di Charles sbatté contro l’anta di uno degli armadietti. Erik sorridendo fece per scostarsi e controllare che non si fosse fatto male, ma Charles gli tenne ferma la testa prendendolo per la nuca. Mentre continuava a baciarlo, aprì un poco le palpebre, guardando di sbieco l’ingresso della cucina. 
Non voleva che arrivasse qualcuno. Mancava ancora tempo alle nove, e in fondo…
Sentì le mani di Erik scendere più in basso lungo la sua schiena, Charles allontanò appena la bocca dalla sua, incapace di trattenere un lieve gemito di soddisfazione, cercando di rimettere in ordine i pensieri. Non sembrava fosse possibile, così preso dal sentire Erik e lui stesso eccitarsi, semplicemente baciandosi, tenendosi stretti con le braccia.
Soprattutto adesso, dimenticandosi di dove fossero, come se la possibilità di venire scoperti fosse solo un incentivo a continuare.
Sfiorandogli i segni dei morsi e le contusioni sulla gola con le dita, il disagio per averglieli fatti che l’aveva assalito prima venne scacciato completamente, dalla considerazione che comunque gliene avrebbe fatti ancora ed ancora, ogni notte, perché Erik era suo e gliel’avrebbe lasciato fare, perché Erik sarebbe rimasto sempre e quelli erano solo uno dei tanti segni di quello che succedeva tra loro. Erik non li nascondeva nemmeno, Charles doveva esserne solo orgoglioso.
 E adesso, riusciva solo a pensare che l’unico motivo per cui se la sarebbe presa se qualcuno fosse entrato, sarebbe stato quello di averli interrotti. Incrociò lo sguardo di Erik, prima di vederlo osservare con la sua stessa ben celata apprensione l’ingresso sul corridoio.
Charles si chiese perché lo facesse. Non importava, avrebbe potuto far addormentare tutti gli altri se solo Erik l‘avesse voluto.
“Erik…”
Erik si scostò un attimo da lui, Charles poteva vedere l’accenno di un sorriso cominciare a incurvargli le labbra.
“E‘ meglio se…”
Alzò gli occhi al soffitto, un gesto abbastanza significativo. Charles però si sentiva stranamente audace, per una volta che non era lui a preoccuparsi…
Continuò a guardarlo, con quella che pensava essere un’aria abbastanza smaliziata, cominciando a slacciargli i bottoni della camicia e cercando di abbassargliela con entrambe le mani, incurante dello sguardo sorpreso di Erik che dopo un attimo gli afferrò i polsi, bloccandoglieli.
Charles sollevò un poco la testa, aggrottando la fronte, ma stava ancora sorridendo quando Erik gli domandò bruscamente:
“Cosa succede, Charles?”
Era una domanda strana. Questo fu il primo pensiero di Charles. Il secondo fu che era quello il momento, a prescindere dalla situazione studiata, dalle sue fantasticherie e da quello che stavano facendo. Voleva solo dirglielo.
“Sono innamorato di te” disse in un sospiro, fissandolo. Sapeva di avere i capelli un poco disordinati, di essere rosso in viso e di avere gli occhi lucidi, tutte cose che la calda e abbagliante luce del mattino, nella cucina ordinata, metteva in risalto.
Per non parlare dell’aria ancora un po’ assonnata, dei vestiti stropicciati, della canotta un po’ troppo larga che mostrava il torace e le sue braccia pallide. E del fatto che sapeva di avere davanti Erik, davvero. niente fantasticherie, ci era riuscito.
Per un momento, gli sembrò quasi che stesse per sorridergli ancora. 
Solo dopo poco, Charles si rese conto che si stava sbagliando.
Vide gli occhi di Erik diventare gelidi ed imperscrutabili e il sentirlo scostarsi da lui fu quasi doloroso, mentre la tensione irrigidiva Charles, portandolo istintivamente a ritrarsi da lui, sentendolo lasciargli i polsi. Charles abbassò le braccia lungo i fianchi, mentre Erik cominciava a riallacciare i bottoni della camicia.
Non disse niente. Si limitò a guardarlo con quell’espressione fredda ed indecifrabile, prima di voltarsi e andarsene senza guardarlo più, sparendo nel corridoio a passo deciso, lasciando Charles malfermo sulle gambe e i resti della loro colazione ancora sulla tavola.
 
 
CONTINUA….
 
 
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Angolo delle Notizie a Casaccio
 
Allora, non so quando la mia FF è passata da esperimento a vera e propria considerazione del fatto che, cavolo, voglio fare una bella FF slash. 
Qualcosa che sia davvero piacevole leggere e possa far pensare ‘Oh, gods, ma questi sono Erik e Charles!’.
Perciò, se ci trovate orrori, cose che non vi convincono e poco realistiche, scrivetemi le vostre impressioni. 
Il mio terrore è che ciò che scrivo manchi di punti di forza e sia monocorde e ripetitivo.
In questo secondo capitolo ho fatto un po’ di tutto, sperando di non essere sconfinata nell’assurdo. 
La scena della colazione mi girava nella testa da Stoccolma, chiaramente. Avevo anche l’idea che Erik cucinasse male come me, ma diavolo, ho preferito immaginarlo con l’abilità culinaria del ramo buono della mia famiglia. Non parlerò della scena focale del capitolo, se volete dirmi se vi è piaciuta fatelo voi, trincerandomi dietro un no-comment e dandovi delle notizie a casaccio in generale:
-La storia di Erik che si butta con Charles in piscina è parzialmente autobiografica.
-Il buio oltre la siepe è uno dei libri che vanno assolutamente letti secondo S. King.
-Charles Douglas è un nominativo creato con il nome di Alfred Douglas, che fondamentalmente era un pazzo insopportabile e un poeta un po’ poco apprezzabile.
Etc… Non mi vengono in mente altre annotazioni. Se avete dubbi o ho fatto cavolate, scrivete.
Ah, oltre a ringraziare coloro che mi scrivono e mi lasciano recensioni, a cui risponderò il prima possibile, ringrazio BloodyVery a cui presto spero di spiegare perché questo capitolo è dedicato a lei, nonostante sia mia rara abitudine dedicare qualcosa a qualcuno.
 
Alla prossima (Sul finale della prossima settimana) con il III capitolo di questa quarta parte.
 
Saluti, 
Exelle
  
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