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Autore: Lovely Grace    01/09/2011    14 recensioni
Edward Cullen è un giovane militare arruolatosi nell'esercito a soli diciotto anni. Il suo unico obbiettivo è quello di servire la sua Nazione.
Isabella Swan è una giovane studentessa universitaria che vive con la madre a Phoenix, la città del sole.
Edward Cullen e Isabella Swan s'incontreranno in un caldo ed assolato pomeriggio d'estate, su una spiaggia di Phoenix.
Hanno solo un'estate per amarsi prima che Edward ritorni a combattere in afghanistan, senza sapere se tornerà o meno...
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Note dell'autrice

Buonasera!
Sono tornata a casa ieri sera e anche se avevo il capitolo pronto ho preferito fare le cose con calma. Mi ero abituata ad oziare in spiaggia tutto il giorno, devo abituarmi pian piano ai ritmi frenetici invernali u.u
Comunque, parlando seriamente, le vacanze sono durate poco ma sono state splendide, a parte il fatto che sto saltando come una matta per il dolore e il prurito della scottatura alla schiena ç_ç
Sono riuscita a scrivere due interi capitoli (questo incluso) e ad iniziarne un altro. Ma non temete: ho tutto nella mia testolina! In realtà qualche notte fa, alle 3 del mattino, ho avuto un'illuminazione e mi sono scritta qualche appunto sulla successione dei capitoli per cui, motivi personali a parte, non ci saranno enormi ritardi. O almeno lo spero u.u
Ho blaterato abbastanza, vi lascio al capitolo.
Ci leggiamo in fondo, buona lettura.
P.s: ora che ho scoperto NVU amo inserire foto, per cui ne troverete un paio.
P.P.s: questo è davero l'ultimo, lo giuro. Troverete un suggerimento musicale: ascoltatelo mentre leggete perchè questa canzone sarà un pò la colonna sonora de "Il mio Soldato".
Dedico il capitolo alle mie lovely Monna e JuJu :P


Capitolo 9

Jeff Buckley - Hallelujah


Edward Pov

Quella che era iniziata come una normale e banale mattina si era tramutata in qualcosa di completamente differente.
Invece di svegliarmi e veder sbucare i primi raggi del sole, erano  sbucate dal nulla grandi nuvole grigie, cariche d’acqua.
Il mare era molto mosso, le barche si scontravano le une con le altre e le strade erano deserte.
Quando scesi al piano di sotto, trovai i miei genitori intenti a preparare qualche cestino da picnick da portare nello “scantinato anti uragano”, come lo chiamava mia madre quando eravamo piccoli.
< Che succede?> Domandai osservando la crescente agitazione tra i miei familiari.
< è in arrivo un uragano, figliolo, meglio che ci prepariamo per tempo> Rispose mio padre aiutando mia madre a preparare i pasti.
< Un uragano?> Domandai sorpreso.
Questa volta intervenne Alice. < L’ha detto anche il telegiornale>.
Rimasi leggermente perplesso di fronte a quella scoperta.
Insomma, un uragano a Phoenix, la città del sole?
< Non pensate che tutto questo sia un po’ esagerato?> Domandai indicando il tavolo della cucina completamente occupato da sacchi a pelo, torce e altre attrezzature da campeggio.
< Edward, per favore, è una cosa seria. Accendi la televisione, sentiamo cosa dicono> Mi ammonì mia madre.
Mi sedetti sul divano, sintonizzandomi sulla CNN.
“Si avvisano gli abitanti di Phoenix di recarsi in un posto sicuro e di non uscire assolutamente di casa per nessuna ragione. È in arrivo un violento uragano dal sud, in questo momento distante poche centinaia di miglia. Raccomandiamo di mantenere la calma”.
Nel soggiorno piombò un silenzio abissale: mia madre lasciò cadere una bottiglia di vetro piena d’acqua che si schiantò sul pavimento, scheggiandosi in mille pezzi; mio padre rimase immobile ad osservare il televisore ormai spento mentre i miei fratelli borbottavano preoccupati tra di loro.
Decisi che era ora di intervenire. < Avete sentito cos’ha detto il giornalista, no? Mantenere la calma. Se è ancora distante abbiamo tempo, quindi non c’è motivo di agitarsi prematuramente>.
I miei seguirono le mie istruzioni e pochi minuti dopo ci ritrovammo a scendere nel buio e umido seminterrato.
Aiutai mia madre ad accendere le torce e le lampade ad olio, a sistemare le nostre cose e ad accendere la piccola radio di mio padre.
Quando finimmo di sistemarci e mi sedetti su un sacco a pelo, fu allora che mi tornarono alla mente le parole di Bella, la sera precedente.
“Mia madre è fuori città e Jacob dormirà da un’ amico”, Aveva detto.
Bella era sola, e lo sarebbe stata per tutto il giorno.
Oh mio Dio.
Ancor prima di pensare a qualsiasi cosa mi ritrovai in piedi, pronto ad uscire fuori.
< Santo cielo Edward che cosa vuoi fare?> Gridò mia madre preoccupata quando mi vide correre sulle scale.
< Bella è da sola! Non posso lasciarla ora!> Gridai a mia volta, preso ormai dal panico.
< Edward non è sicuro uscire ora, non sappiamo dove sia arrivato l’uragano. Magari Bella è andata da un conoscente, un nonno, il padre…> Intervenne mio padre, afferrandomi per un braccio.
Scossi la testa. < Il padre non è qui, non so dove siano i suoi parenti ma so che in questo momento è sola! Non posso lasciarla> E così dicendo, mi liberai dalla sua stretta e mi diressi verso la botola.
< Non uscite di qui, per nessuna ragione al mondo. Se non farò in tempo a tornare rimarrò la, ma che nessuno esca di qui> Ordinai prima di farmi forza, aprire la botola e iniziare a correre.
Fuori il cielo era nero, la pioggia aveva iniziato a scendere forte, facendomi quasi male e il vento era talmente forte che dovevo concentrarmi per non lasciarmi portare via.
Correvo, correvo e correvo, veloce e disperato come non mai.
Niente poteva fermarmi, né le palme che, piegate dal vento, cadevano intorno a me né le tegole dei tetti che si frantumavano ai miei piedi.
Forse ero ferito, stavo sanguinando o forse piangevo, non lo so, solo continuavo a correre sperando di arrivare in tempo, sperando di riuscire a trovarla. Viva.
Mai come allora quei pochi metri che separavano le nostre case mi erano sembrati più lunghi.
Quando finalmente intravidi la casa, cercai di aumentare il ritmo.
Caddi, inciampai in qualche tegola, mi tagliai con dei rami, ma mi rialzai, ancora e ancora, il dolore fisico annientato dall’adrenalina.
Intorno a me regnava il caos più totale: non si sentivano voci, cinguettii ma fischi, boati inquietanti e l’allarme uragano che suonava imperterrita.
Dentro di me continuavo a ripetermi solo una cosa “fa che non sia troppo tardi”.
Quando arrivai al suo cancello e la vidi, il mio cuore perse un battito.
Bella era inginocchiata a terra, il viso nascosto e una macchia scura sulla sua camicetta azzurra.
Sangue?

*****

Bella Pov

Per la prima volta in tutta la mia vita, mi svegliai con il sorriso sulle labbra.
Non c’erano raggi di sole che illuminavano la stanza, non c’erano uccellini che cinguettavano o gabbiani che stridevano.
Un vento freddo entrava dalla finestra, facendomi tremare e il cielo era scuro, con grandi nuvole cariche di pioggia.
Ma nonostante il brutto tempo, ero felice come non mai.
I ricordi della sera precedente mi tornavano alla mente e sentivo le farfalle nello stomaco, il cuore battere forte e le guance arrossarsi.
Avevo baciato Edward Cullen.
Io, Isabella Swan, avevo preso l’iniziativa.
Certo, non l’avevo proprio Baciato con la B maiuscola, ma per me quel gesto era già molto.
Nella mia vita avevo sempre avuto difficoltà nei rapporti con ragazzi del sesso opposto per ovvie ragioni, e fare quel passo avanti era un notevole progresso. Ero fiera di me stessa.
Certo, lo conoscevo da poco, eppure sin dall’inizio sapevo che di lui poteva fidarmi.
Non chiedetemi come, solo lo sapevo.
E pensare che di lì a poche ore l’avrei rivisto, mi riempiva di gioia.
Fu quello il motivo per cui mi buttai letteralmente giù dal letto invece di rimanere a crogiolarmi ancora un po’ tra le lenzuola.
Mi affacciai fuori dalla finestra della mia stanza e rimasi perplessa di fronte al brutto tempo, decisamente raro per gli standard di Phoenix, la città del sole.
Dato che ero già da sola e lo sarei stata per le prossime 24 ore, mi concessi un lungo bagno rilassante nella vasca.
Accesi perfino un paio di candele profumate che conservavo gelosamente nel mio beauty-case.
Non era da me fare una cosa del genere, ma per una volta non me ne preoccupai.
Quando esaurii le cose da fare al piano di sopra, mi diressi in cucina, preparando la colazione.
Non ero abituata ad essere sola e senza cose da fare, e se non avesse iniziato a piovere probabilmente avrei fatto una passeggiata o sarei scesa in spiaggia.
I miei occhi si posarono sulla splendida rosa rossa sistemata dentro ad un vasetto di vetro, con acqua fresca.
Non era ancora appassita e continuava ad emanare il suo delizioso profumo.
Solo osservarla mi procurava una piacevole stretta allo stomaco, e la fame con cui mi ero svegliata se ne andò e la sola idea di ingerire del cibo mi dava il voltastomaco.
Decisi allora di andare nel mio “studio”, ovvero un minuscolo sgabuzzino con tanto di porta a soffietto mezza rotta e le pareti completamente imbrattate.
Tutte le mie tele, i miei disegni, i pennelli e altri strumenti vari erano lì, stipati in un angoletto.
Non era granché eppure era tutto per me.
Accesi la lampadina che oscillava sopra la mia testa e scoprii il famoso ritratto.
Era ormai terminato, ma volevo ritoccare qualche linea.
Non avevo mai lavorato prima con i carboncini, eccetto un solo disegno, per cui non sapevo cosa ne sarebbe venuto fuori.
Di sicuro era molto realistico, o almeno lo era per i miei standard.
Mi sedetti sul minuscolo sgabello di legno, intagliai il carboncino e mi rimisi al lavoro.
Mentre rifinivo il suo viso, inserivo qualche riflesso, qualche ricciolo nei capelli, mi accorsi di avere un sorriso enorme stampato sulle labbra.
Era gratificante vedere come il suo viso prendeva forma, come i lineamenti si univano formando un volto, un paio d’occhi o una mascella.
Sembrava un volto divino, un’opera della fantasia di un qualche famoso scultore.
E pensare che le mie labbra si erano posate su quella guancia che proprio ora stavo rifinendo, mi fece tremare le mani.
Fui costretta a fermarmi qualche minuto prima di poter riprendere.
Ero stupida, un’adolescente alla sua prima cotta, forse persino patetica, ma non riuscivo a pensare ad altro.
Edward e i suoi occhi luminosi, Edward e le sue mani morbide, Edward e la sua risata allegra, Edward e la sua voce roca…
Mi chiesi se quello non fosse un sogno, uno stupido, bellissimo sogno dal quale mi sarei svegliata presto.
Come poteva un ragazzo come Edward essere interessato ad una ragazzina come me?
Insomma, lui aveva ventisei anni, io diciotto; lui era bellissimo, io no; era un militare, una notevole carriera alle spalle mentre io stavo per iniziare il mio primo anno come matricola alla New York University…
Era come se lui fosse il sole, la stella più luminosa di tutte, ed io una delle tante, uguali e monotone stelle senza nome.
Mi sentivo insignificante in confronto a lui.

Quando qualche ora dopo ebbi realmente completato il ritratto, lo firmai con il carboncino, scrivendo il mio nome e cognome in corsivo minuscolo in basso a destra.
Lo coprii e sistemai a fianco al divano.
Tornai di sopra, mi lavai le mani e cambiai i vestiti.
Sapevo che era stupido, nella mia vita non avevo mai dato molta importanza a ciò che indossavo, ma non quel giorno.
Anzi, quell’estate…
Aprii l’armadio e tirai fuori una camicetta azzurra ed un paio di jeans scuri.
Pettinai di nuovo i capelli e li lasciai sciolti.
Mi sedetti quindi sul divano, guardandomi intorno.
Chissà a che ora sarebbe arrivato Edward…
Sentii il panico montare e decisi allora di leggere un libro, giusto per distrarmi un po’.
Optai per Jane Eyre, il mio libro preferito in assoluto, e mi rannicchiai sul divano a leggere, illuminata dalla debole luce soffusa della lampada da terra che si trovava a fianco del divano.
E mi immersi nelle campagne inglesi assieme a carri trainati da cavalli e lunghi abiti con pizzi e merletti.

Non so quanto tempo era passato, ma dopo quella che a me parve un’eternità, sentii un rumore assordante proveniente dal piano di sopra, tutte le finestre intorno a me si aprirono di scatto,  i vetri scoppiarono ed un vento fortissimo fece volare ogni cosa: fogli, piatti di ceramica, lampade, lampadari, centri e altre mille cose.
Mi alzai di scatto, presa dal panico, e corsi alla finestra.




 E ciò che vidi mi lascio senza fiato: un’enorme tromba d’aria si muoveva velocissima, avvicinandosi sempre di più.
 Con gli occhi sbarrati dal terrore e le mani sanguinanti per i vetri infranti a cui mi ero appoggiata, corsi fuori.
 Non avevo mai assistito ad un uragano, ma sapevo che la botola nel giardino apriva lo scantinato e che dovevamo nasconderci lì in casi come quello.
 Il vento era talmente forte che mi sentivo volare via. Mi tenevo con le mani a qualsiasi superficie trovavo, ma quando inciampai nella radice di un albero estirpato e      Sentii un dolore lancinante alla caviglia, non riuscii più ad aggrapparmi a qualcosa e mi lasciai cadere per terra.
 Provai a rialzarmi, ancora e ancora, ma non ci riuscivo.
Sentii lacrime calde colarmi giù dalla guance e la consapevolezza di essere sola assalirmi, schiaffeggiandomi.
Ero sola, ferita, e pochi minuti ancora e sarei stata spazzata via da una tromba d’aria.
Fu allora che lo sentii.
Una, due, tre volte.
Pensai di stare sognando, di avere un’allucinazione.
< Bella!> Questa volta lo sentii di nuovo, più vicino.
Mi voltai e lo vidi: come un miracolo, lui era lì, i vestiti bagnati e sporchi di terra, gli occhi spalancati e terrorizzati, eco dei miei.
Continuò a correre, piegato dal vento, verso di me.
E quando fu a pochi centimetri da me, lo presi per mano e lo tirai verso di me, facendolo cadere in ginocchio accanto a me.
Senza pensare, mi strinsi a lui, il mio corpo circondato dalle sue braccia calde e rassicuranti, i miei singhiozzi sul suo collo.
Ci stringemmo forte, come se quelli fossero i nostri ultimi minuti insieme , e forse era davvero così.
Quando infine ci staccammo, i miei occhi si spalancarono, terrorizzati.
< Ed… Edward> Mormorai incapace di dire altro, osservando l’enorme tromba d’aria dietro di noi, a pochi metri da noi.
< Vieni!> Gridò prendendomi per mano ed aiutandomi ad alzarmi.
La botola dello scantinato non si apriva, cigolava, sbatteva ma non si apriva.
Aiutai Edward a tirare, ancora e ancora, supplicando chiunque purché si aprisse e, quando successe, entrambi ci buttammo dentro, cadendo rovinosamente per le scale, ma entrambi senza sentire dolore.
Una volta dentro, Edward la chiuse e l’oscurità piombò su di noi.
< Edward?> Singhiozzai incerta nell’oscurità.
< Ssh, sono qui. Resta ferma dove sei, cerco una torcia> Rispose muovendosi nel buio.
Sentii dei colpi, qualche imprecazione, strani acciottolii e diversi boati.
E proprio mentre stavo per domandare qualcosa, una luce si accese e il volto di Edward venne illuminato.
< Stai bene?> Chiese avvicinandosi a me.
Annuii, scossa. < Ho solo preso una storta> Risposi stupendomi di sentire la mia voce così strana, così acuta…
E, mentre Edward stava per posare la torcia ed abbracciarmi, sentimmo un lamento.
Entrambi spalancammo gli occhi, guardandoci interrogativi.
< Cos’è stato?> Domandai cercando di sentire dell’altro.
< Non lo so> Rispose Edward, imitandomi.
< Resta qui, vado a vedere> Disse dirigendosi verso le scale.
Afferrai il suo braccio, provando a fermarlo. < è pericoloso!> Gridai terrorizzata.
Edward mi accarezzò la mia mano, facendomi mollare la presa sul suo braccio.
Puntò la luce verso il mio viso, e mi guardò dritto negli occhi, con una determinazione che mai gli avevo visto dentro.
Ordinò prendendomi la mano, depositarvi la torcia ed aprire di nuovo la botola.
Iniziai a contare mentalmente il tempo, ordinandomi di non piangere.
Mai come in quel momento mi ero sentita tanto inutile.
Sentii dei colpi, acciottolii, boati.
Continuai a contare, ancora e ancora, ma quando i minuti continuavano a passare, i colpi a farsi sempre più vicini, non resistetti e uscii fuori, fregandomene degli ordini di Edward.
Osservai l’enorme ammasso d’aria continuare il suo percorso, ormai lontano qualche metro da noi, ma non fu certo quello a catturare la mia attenzione.
E fu in quel momento che la grandezza di quella catastrofe mi colpì, facendomi capire quanto fossi stata vicina a perderlo mentre io ero al sicuro nello scantinato sotto di lui.
Edward si voltò di scatto, ma non gli lasciai tempo per dire o fare niente.
Le mie gambe presero a muoversi da sole ed ebbe solo il tempo di afferrarmi per la vita e sollevarmi prima che le nostre labbra s’incontrassero, dando vita al mio primo, vero bacio.





  E dentro di esso c’erano milioni di emozioni: terrore, spavento, morte, gioia, incredulità, amore.
 Eravamo vivi, sani, in salute, e anche se intorno a noi regnava la morte, la distruzione, una catastrofe, il nostro amore era più grande di qualunque altra cosa.
 Il suo corpo bagnato premeva contro il mio, la sua bocca bollente sulla mia, la sua lingua sul mio palato, il suo sapore nella mia bocca.
 La pioggia continuava imperterrita a cadere su di noi, continuando ad inzuppare i nostri vestiti, a bagnare le nostre bocche.
 Ma nessuno dei due sentiva freddo.
 C’eravamo solo io e lui, Edward e Bella, due ragazzi  appena scampati da una catastrofe, due ragazzi che avevano appena visto la morte nei loro occhi.


Note dell'autrice

Non so per voi, ma io mi sono commossa a scrivere questo capitolo. 
Finalmente l'atteso bacio... So che lo avreste immaginato diversamente, ad essere sincera pure io, ma è l'unica cosa che mi piace del capitolo xD
Prima di dimenticarmene, vorrei chiarire una cosa: la macchia sulla camicetta di Bella non è sangue, ma terra bagnata xDD
Voglio ringraziare le splendide persone che hanno recensito numerose lo scorso capitolo, chi ha aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate e chi mi ha contattato privatamente per posta o su Twitter: il vostro supporto è importante per me e sentirvi è un'enorme piacere!
Alla prossima settimana!
Un bacio, Chiara. 
   
 
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