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Autore: past_zonk    02/09/2011    0 recensioni
Perché si usa il verbo ‘venire’ per gli amanti?
Dice Francesco perché è come se lui divenisse, per un po’, coinquilino del mio corpo.
‘Sto venendo amore, aspettami.’
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Se gli carezzi le scapole è totalmente tuo, ti dirà, vedrai. Come il miglior puttaniere che puoi trovare in giro, come il più romantico degli occasionali, come il brivido clitorideo o la lingua scura d’amarene mangiate sul divano.
Guardo Francesco far fumare una sigaretta fra le sue labbra, lo vedo, mentre doma il dolore e scavalca un deserto di false speranze e futuri vani. Il sapore della menta fra i suoi denti di chewinggum, l’acre odore di bisogno che permea le lenzuola, la morte nelle sue pupille, il titillare delle mie cosce.
“Lo strano rumore che fanno le nostri pelli a contatto” dice “lo hai a mente?”
Prende il mio mento fra due dita e indirizza il mio cranio prima verso l’alto poi, gentilmente, verso il basso, in un “sì” guidato dalla sua mano lunga e bella per la mia bocca.
“Ecco. Quel rumore mi fa venire i brividi”.
Si concede a me, muta zitta donna soprammobile, in una maniera da esteta che mi lascia interdetta. Si lascia pettinare i capelli quasi fosse un atto d’erotico slancio. Quando i capelli di un’altra persona sono vicini abbastanza da coglierne la sporcizia o la sfumatura più datata, devi agire. Devi prendere violentemente la bocca dell’altro nella tua e filare un destino. Lasciarsi portare è per i deboli. Quando una lacrima che abbraccia l’iride da uomo rimane ferma nell’occhio e non si scioglie sulla sua guancia, quando scrivi versi nuda sul pavimento d’un appartamento al terzo piano della seconda scala, una porta modesta ed un quadro nudo anch’esso all’entrata che fa quasi l’eco. Quando sai toccargli con pudico orgoglio il pomo d’adamo e poi il naso ascendendo alla fronte divina su cui poggiarci la tua, o Silvia, vorresti dir di no sempre, vero? Dir di no per cadere con più pathos fra le sue braccia.
Tastarne lo sterno debole e fragile, sbattere la mano contro una costola stoicamente percepibile. Moribondo tra le tue zinne, l’uomo, Francesco, il poeta viaggiatore, lo chamiser, quello che gioca allo bohemien, lui.
“Ti amo, Francesco” dico con gli occhi sgranati di un’attrice alla Polanski. Con le calze stracciate, da bambina riformatorio o forse oratorio, con la fronte rossa di baci e la mani irte a sfiorare un orecchio. La noia con la quale recitiamo questo canovaccio solito è quasi paurosa. L’apatia con la quale m’afferra le natiche e m’è dentro. Il roco tono di voce bisognoso di certezze. I miei seni piccoli che sembro una vergine.
Santa vergine mia protettrice. Croce fra i miei seni, croce d’oro profanata fra le labbra di Francesco e fra le sue labbra nient’altro che oggettistica, la mia croce, il mio credo, la mia dignità. Fluidi i fumi che, finissimi, filano via dai suoi polmoni; fiori fioriti su una camicia fresco lino che dà forma alla sedia, gettata lì con gelido distacco.
Questo duetto fra i nostri desideri solidi e palpabili come l’acqua, sogni che non stanno in un palmo per più di tre secondi ben scanditi. Quel tipo di bacio in cui sento i suoi denti strisciare contro le rosse pareti della mia bocca, in cui quell’osso di bianco smalto graffia la mia callosa, polposa lingua sanguinante: il nostro modo di sussurrarci frasi d’amore a metà, lasciandole al vento o forse alla notte. Il cuore che palpita di tristezza e trabocca crudeltà ed egoismo. Lo sciabordio della vasca sporca di bagno in cui ci stiamo noi due, scheletrici e sporchi di polvere, di motel, di necessità emotive.
Ricamata come una stella in cielo, quella goccia di sudore sul suo collo. Il mio innaturale bisogno di sentirmi parlare, di giustificarmi quel che ormai sono. Francesco s’addormenta con la mano stropicciata come un lattante; scroscia via il suo ego dalla mia angosciosa pelle bianca, lo sento svanire come l’alba mattutina. Osservo le sue palpebre tremare e le sue dita muoversi ancora. Gli prendo una mano e recito.
“Non ti lascerò mai”.
E magari è vero.
Che non lo lascerò mai. Mai per davvero, s’intende.
   
 
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