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Autore: ClaryMorgenstern    02/09/2011    5 recensioni
«Senti, Jace. » lo rimproverò con dolcezza. «Non lo sai che non bisogna giocare con i vetri rotti?»
Soffocò la risata che sentiva salire. Lei lo aveva salvato. In ogni modo in cui una persona può essere salvata. Lo aveva reso ciò che era adesso, lo aveva reso felice, per qualche strano motivo. Le gettò le braccia al collo, la strinse forte a sé e ripeté ancora il suo nome. Una, dieci, cento volte. All'infinito se possibile, come se quella lenta e dolce litania potesse salvarlo dal dolore per la perdita del primo vero amore della sua vita.
 
La città di Ossa, Vista dagli occhi di Jace. Hope you like it!
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!
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The Mortal instruments; La città di ossa - Jace Wayland.
 

Capitolo XXV;Epilogo - Eroi di un altro contesto

 
Jace non ricordava quand'era l'ultima volta che aveva visto qualcosa di così bianco nella sua vita. Si trovavano in un enorme ospedale nella periferia di Brooklyn chiamato Beth Israel. probabilmente l'arredatore si era ispirato al paradiso e alla pace eterna quando l'aveva decorato essendo che gli bruciavano gli occhi per tutto quel bianco brillante. Per non parlare poi del fatto che si sentiva schiacciato dall' ingente quantità di mondani che lo osservavano. Alcuni incuriositi, altri semplicemente  con disprezzo. Sarà per i marchi. Pensò Jace razionalmente, essendo che probabilmente non avevano mai visto tatuaggi come i suoi. Ma più che altro lo pensò perché nella sua vita nessuno  lo aveva guardato con disprezzo.
Insomma, Jace era bellissimo.
Ma più di tutto ad inquietarlo era che non poteva fare un passo senza vedere mondani malati, sanguinanti, pallidi e malaticci, con bende, acciacchi e quei camicioni orrendi che lui non avrebbe indossato neanche da morto.
Non che fosse la prima volta che vedeva gente malata, questo no. Ma quando un Nephilim si ammalava con malattie da mondani - Febbre, varicella, ossa rotte o quant'altro - Bastava una passata di stilo e poteva combattere di nuovo.
I mondani erano tutt'altra storia. La loro guarigione era lenta perché avevano tutto il tempo del mondo per guarire. Il loro corpo non era fatto per andare in battaglia, per combattere. Il fatto che lo facessero comunque era solo una prova di quanto fossero stupidi.
Clary gli diede una gomitata leggera facendolo rinvenire dai suoi pensieri. Lo aveva condotto di fronte ad una donna grassoccia seduta dietro un bancone -anche quello di un bianco accecante - che rivolse al ragazzo un occhiata di traverso. «Relazione di parentela con il paziente?» chiese a Clary.
«Sono la figlia.» rispose la ragazza spazientita, battendo distratta le dita sul bancone. Jace ne dedusse che non era la prima volta che le facevano quel questionario.
La donna grassoccia scrisse qualcosa su un foglio di carta, poi lo girò e porse una penna a Clary. Lei firmò -con una grafia minuta e tondeggiante, come quella di una bambina - e le restituì il modulo.
La donna riprese il foglio e lo lesse. «Bene signorina Morgenstern» scoccò un occhiata sospettosa alla ragazza. Ovvio che non avesse mai sentito un cognome del genere. «Lei può andare, ma il suo fidanzato dovrà rimanere in sala d'aspetto.»
Jace quasi si strozzò.  Mio dio.
Clary, dal canto suo, era arrossita fino alla punta dei capelli. «Non è il mio fidanzato.» mormorò.
Jace perse un battito. Era vero, era assolutamente vero. Loro non stavano insieme, erano fratelli. Solo fratelli.
Perché faceva così male allora?
Il viso del ragazzo, però, era una maschera di ferro. Fece un sorriso sottile, totalmente privo d'allegria. «Sono suo fratello.»
La mondana grassoccia scoccò un occhiata a Jace, poi alla ragazza al suo fianco e poi sorrise. Jace provò l'impulso di darle un calcio. «oooh va bene.» disse ancora sorridente. «Ultima porta in fondo al corridoio» disse indicandola.
Jace fu contento di allontanarsi da lei ed avviarsi verso il corridoio bianco.  Clary al suo fianco era silenziosa come un topolino.
Adesso intorno a loro aleggiava il silenzio. Come faceva una sola parola a creare così tanto imbarazzo?
Clary si stava mordendo il labbro inferiore pensierosa. Jace si guardava gli scarponi lucidi. Intorno a loro non c'erano i malati, ma aleggiava il fantasma di quel bacio rubato, fuori dal tempo, alla serra.
Sembrava passata un eternità. Eppure, se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire il sapore di lei sulle labbra, le piccole e minute mani tra i capelli, il calore della sua pelle sulle mani.
Era assurdo pensare che adesso era così vicina a camminare accanto a lui, eppure lontana anni luce. Era assurdo non poterla sfiorare, non poterla stringere senza sentirsi orribile. Non era così che doveva essere.
Sentì un tocco leggero sfiorargli un braccio e quando si voltò vide Clary guardarlo con dolcezza, quasi fosse preoccupata di vederlo cadere a pezzi da un momento all'altro. «Jace» disse piano. «Sta tranquillo, va tutto bene.»
Jace forzò un sorriso, senza dire nulla. Si erano fermati davanti ad una porta bianca. L'unica finestrella della stanza era coperta da una piccola tenda azzurra a fiorellini, in tinta con gli orribili camicioni. Jace non aspettò neanche che Clary gli dicesse qualcosa. Prese il coraggio a due mani, come se dietro quella porta lo aspettasse un intera schiera di mondi infernali, e oltrepassò la porta.
Riconobbe il rumore sordo del macchinario che aveva sentito al telefono appena entrato. La stanza non era poi così grande. Aveva le classiche tonalità azzurre e bianche. Come mobili c' era solo un comodino accanto al letto ed una poltrona per i visitatori dei pazienti sulla quale sedeva Luke.
«Ancora nessuna novità?» chiese Clary.
Luke si alzò dalla sedia e andò verso di lei passandosi una mano sul volto. «Nessuna. »
 Jace vide molti più capelli bianchi di quanti ricordasse ed una ruga di preoccupazione a corrugargli la fronte. Era di nuovo vestito come un mondano e non aveva distolto lo sguardo, neanche per un istante, dal letto.
Perché su quel letto giaceva Jocelyn Morgenstern.
Doveva ammettere che capiva perché suo padre si fosse innamorato di quella donna. Anche con i lunghi capelli rossi -Così simili a quelli della figlia da spedirgli una fitta al cuore- scarmigliati sul cuscino, anche con l'orrendo camicione, anche con ormai più di trent'anni e mille orrendi ricordi sulle spalle, Jocelyn era una donna splendida.
 Non belle per definizione. Ma una di quelle bellezze che si trovano nei piccoli dettagli, intessuti nel proprio essere.
Esattamente come Clary.
Non c'era assolutamente dubbio che quella sul letto fosse la madre della ragazza accanto a lui. Clary era Jocelyn con vent'anni di meno e meno cicatrici. In più, sulla pelle lattea della madre spiccavano scuri simboli neri. Tutto in quella donna urlava un passato da  cacciatrice, anche se non c'era nessuno ad ascoltare.
Volle fare un passo verso il letto ma il comando non arrivò al cervello. Si sentiva fermo, immobile. E lo era davvero. Se ogni cosa nella donna stesa sul letto dichiarava la sua palese parentela con Clary, non c'era nulla - assolutamente niente - che gli diceva che fosse sua madre. La vedeva, ma non la vedeva davvero. Non poteva essere sua madre. Era sbagliata.
I minuti passavano lenti, e Jace era ancora lì. Imbambolato come un idiota mondano qualunque a cercare con una sorda ed acuta disperazione qualcosa che lo facesse sentire legato a quella donna.
Qualcosa, s'intende, che non fosse Clary.
Perché, Jace lo sentiva, Lei era l'unica cosa che lo legasse a quella donna. Jace aveva sempre immaginato di avere i tratti e gli occhi di sua madre, ma non era così.
«Oh ma andiamo dì qualcosa!»
Si girò.
Clary era arrossita di colpo, non per imbarazzo, decisamente no. Ma per rabbia. Lo guardava con gli occhi lampeggianti d' ira «Dì qualcosa!» urlò. «Non startene lì come un fesso!»
Sentì la prima emozione da quando era arrivato all'ospedale. La rabbia.
Strinse i denti e serrò i pugni. Affrontò la ragazza a testa alta -cosa non difficile, vedendo quanto fosse bassa. «E cosa dovrei dire, sentiamo?» sibilò in risposta. «Ciao mamma, è bello conoscerti dopo diciassette anni. Ti trovo bene!»
Clary fece il giro del letto e gli si parò davanti. A Jace venne in mente la prima volta che l'aveva vista arrabbiata, di fronte al Java Jones. Allora gli aveva ricordato Church quando si infuriava. Ora sembrava di più una piccola pantera. «Non fare il sarcastico. Non è stata colpa sua.»
«E nemmeno mia, direi.» urlò Jace. «Lei non è mia madre, Clarissa.»
«E invece lo è. Quindi se fossi in te mi ci farei l'abitudine.»
Jace serrò la mascella. «Valentine è tuo padre. Ci hai già fatto l'abitudine all'idea?»
Clary indietreggiò di un passo. Lo guardava come se l'avesse appena colpita. «Non è la stessa cosa. Lo sai.» disse abbassando la voce.
«Solo perché mio padre è un pazzo omicida?» chiese sarcastico. «Lei mi ha abbandonato, non è molto diverso.»
«Oh che vuoi che sia aver scatenato una guerra!» Clary urlò di nuovo.
«Lo sai, Clarissa. Sei molto simile a lui in questo momento.» E se ne andò. Girò su se stesso e puntò dritto verso la porta. Senza sentire quello che aveva da dire lei, senza sentire quello che aveva da dire Luke. Se ne andò e basta. Come un codardo che scappa dalla battaglia. Ed in effetti era così che si sentiva.
Uscito dall'ospedale, si ritrovò da solo. La luna era alta nel cielo e sembrava farsi beffa di lui dal suo piedistallo in alto. Aveva voglia di spaccare tutto, di prendere a calci qualcosa. Di fare capire al mondo che tutto doveva essere a pezzi, Perché lui era a pezzi.
Aveva voglia di  essere un cacciatore.
E solo in quel momento si rese conto che non era mai stato un cacciatore, da quando aveva incontrato Clary. No, il suo dovere era stato sopraffatto da una mondana con la passione per il disegno. Non era più stato un cacciatore da quando la sua missione era cambiata: Prima era tenere il mondo al sicuro dai demoni. Dopo era tenere al sicuro lei.
Ma il sangue angelico che scorreva nelle sue vene non era svanito. Doveva lottare, doveva combattere, sentire il sangue nero e vischioso  tra le mani.
Quasi in risposta alle sue preghiere, arrivò un messaggio al suo telefono nuovo.
 
Emergenza demoni a Chinatown. Io e Alec siamo quasi lì.
                                                                                                         Izzy.

Chiuse il telefono.
 
Mi senti solo ora, eh?
 
Le storie con un finale tragico iniziano sempre con una fuga. C'è qualcosa di desolante e di davvero patetico nel scappare da una battaglia. Gli eroi affrontano i loro demoni a testa alta. Non impazziscono, sanno cosa devono fare. Gli eroi non scappano.
Ma Jace Wayland non era un eroe. Non lo era mai stato.
Aveva seriamente creduto che suo padre fosse un eroe. Un cacciatore esemplare, un genitore quasi decente che si era sacrificato per la vita del figlio undicenne.
Ma in fondo, siamo tutti eroi di un' altro contesto.
Ma come Jace scoprì in seguito, molte delle cose in cui credeva cecamente erano una bugia.
Ma non era per questo che stava scappando, che era scappato dalla stanza dell'ospedale. Da Lucian e da Jocelyn Morgenstern, E Da Clary. Era scappato per un semplice motivo.
Era scappato dalla camera bianca perché era terrorizzato. Era terrorizzato da tutti queste sensazioni che erano nuove e spaventose, terrorizzato dal sentirsi così vicino ad una persona che avrebbe potuto abbandonarlo da un momento all'altro.
Ma soprattutto, la più grande paura della sua vita era l'amore che provava per sua sorella *
Ammetterlo a voce alta gli provocava delle fitte dolorose all'altezza del cuore. Ma era vero, da questo non poteva scappare. Anche se solo l'angelo sapeva quanto lo avrebbe voluto.
Chinatown puzzava di sangue, urina e morte.  Entrò a passo svelto, chiudendo i pensieri in una piccola scatola in fondo al suo cervello.
Si era fatto distrarre una volta di troppo.
Sfilò il sensore dalla cintura e dai sordi bip provenienti dall' apparecchio trovò Isabelle ed Alec  a confrontarsi con quattro demoni Reshaim*.
Anche se apparentemente illesi, Alec e Izzy non se la stavano vedendo granché con i mostri. Izzy era spalle al muro di mattoni logori e sudici che teneva stretta con la frusta le gambe e il pungiglione di un demone mentre con l'altra mano impugnava una spada angelica pronta a difendersi dagli altri. Alec invece era saltato sopra una grossa pila di scatoloni da cui scappavano topi, impugnava il nuovo arco di legno scuro e scagliava le frecce sui demoni. Nascosti dietro gli scatoloni su cui stava Alec c'era un mondano decisamente orientale, tremante di paura che tentava di mimetizzarsi con il muro dietro di lui. Ai suoi piedi, tre cadaveri. Un uomo anziano dai lunghi capelli grigi, anche lui orientale. Un bambino piccolo con gli occhi a mandorla ma dai tratti americani. E nascosta accanto all'uomo tremante, il cadavere di una donna sui quarant'anni.
Con i capelli rossi.
Erano una famiglia
. Una famiglia che era stata sterminata, distrutta in modo orribile.
Senza più aspettare oltre, Jace impugnò la prima spada dell'arsenale, Invocò Lauviah e sfruttando l'effetto sorpresa troncò di netto la testa al demone più vicino a lui. Si scostò di fretta per evitare che l'acido sangue nerastro lo inondasse da capo a piede rovinando così i suoi vestiti.
Alec e izzy alzarono contemporaneamente lo sguardo su di lui facendogli un gran sorriso.
Fu un solo momento, il demone tenuto stretto da izzy si liberò dalla stretta puntando minaccioso la coda verso di Jace che nel frattempo si stava occupando di un altro demone. Si accorse del grosso pungiglione soltanto quando gli cadde accanto staccato di netto dal resto del corpo. Si voltò per vedere il limpido sorriso di Izzy scomparire dietro di lui.
Tornò ai propri demoni.
Che vadano tutti all'inferno.
Letteralmente.

E finalmente, come se non avesse aspettato altro, arrivò la rabbia.
Impugnò di nuovo la spada angelica, più stretta nel palmo della sua mano sinistra. Il demone di fronte a lui digrignò i denti Neri scintillanti di sangue pronto ad attaccare.
 
Attaccare. Era questo che aveva fatto, lo aveva attaccato. Lasciato senza fiato per tutti quei dolcissimi e splendidi colpi alla sua anima.
 
Provò più volte ad attaccarlo con il pungiglione. I Reshaim erano letali, ma di certo non geniali. Con un salto aggraziato Jace atterrò sulla grossa cosa bloccandola a terra con il piede sinistro, mentre con il destro sferrava un calcio sul fianco scoperto.
 
Aveva scoperto un mondo diverso. Dove non aveva bisogno di sterminare per essere felice, dove non aveva bisogno di un demone ucciso per sentirsi importante.
 
Il Reshaim aveva sbattuto le enormi ali spingendo Jace verso il centro del vicolo.
 
Era un vicolo cieco. Non poteva più scappare ormai.
 
Jace sfilò tre coltelli da lancio. Il primo si conficcò in una escrescenza vischiosa vicino al collo. Il secondo al centro dell'ala sinistra. Il terzo sul fianco. Il demone urlò di dolore.
 
Era doloroso, ma doveva scegliere. Restare o scappare.
 
Si avvicinò piano alla creatura, sfilò Caliel dalla cintura. Osservò per un secondo lo scintillio della lama prima di piantarla del ventre del Reshaim, mandandolo all'inferno.
 
Sarebbe andato all'inferno.
E sarebbe tornato a testa alta.
Infondo, amare non significava distruggere?

 
  1. Piccola citazione di Valentine: "La più grande paura della vita di Jonathan è l'amore che prova per sua sorella."
  2. I demoni Reshaim secondo la leggenda dovrebbero essere mezzi draghi e mezzi scorpioni, servi più fedeli di Satana ebla bla bla.Quindi immaginatevi uno scorpione con grosse ali nervose e rossastre u.u
 
 
 
Ta dàààààà e ora è finita davvero! Quasi mi dispiace, non volevo che finisse :3  Un ultimo ed infinito ringraziamento a tutti quanti. Alla pubblicazione di questo ultimo capitolo ho quindici anni, circa trentasette fan fedeli (vi adoro da impazzire, credetemi **) e una miriade di idee per la prossima storia (Ah lo so che non mi sopportate più! Conviveteci u.u) e direi che non potrei essere più felice di così.
Grazie, Grazie, Grazie. Non avete idea di quanto io sia grata a tutto questo.
Ovviamente vi ringrazio già nelle recensioni uno ad uno, ma qui a questo davvero ultimo capitolo voglio fare dei ringraziamenti un po' diversi.
 
A mia sorella Chiara, che non credeva che sarei arrivata fino in fondo. Mi hai spinta a finirla sul serio capra.
 
Ad Arianna. Anche se sicuramente non lo leggerà, voglio ringraziarla perché lei ispira la mia penna come nessun'altro al mondo.
 
E, per ultimo ma non per importanza, voglio dedicare l'intera storia a Teresa. Mi hai spinto a fare uscire i miei libri dal cassetto, mi spingi tutt'ora a dare il massimo, perché so che ti piace vedermi scrivere, anche se la maggior parte delle volte dico solo stronzate. La storia è dedicata a te perché nessuno al mondo mi fa sentire così importante come fai tu. Ti amo da impazzire, e dico davvero.
 
Fine.

  
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