Scent of
Cinnamon
Non
era la prima volta che Ace combatteva con i pirati di Barbabianca, eppure,
ancora prima che la battaglia iniziasse, si era reso conto dell’enorme
differenza che c’era nel combattere in nome di un altro avendo sotto il proprio
comando i suoi uomini. L’aria era greve di responsabilità.
Sul
ponte della nave le urla si confondevano, i suoni della battaglia avvolgevano
quel tratto di oceano come una bolla. L’acqua risuonava con le vibrazioni della
battaglia e chissà quali luoghi lontani avrebbero raggiunto.
La
seconda divisione resisteva, gli uomini combattevano seguendo i suoi ordini,
uniti sotto il nome del loro capitano. Eppure non riusciva a mantenere la quiete
d’animo, come se sapesse che qualcosa sarebbe inevitabilmente andato
storto.
Le fiamme serpeggiavano impazzite lungo il suo corpo, il fremito
della battaglia le alimentava. Un colpo, e ancora un altro, azioni ormai
meccaniche per svuotare la mente dai pensieri, come a liberarsi dai pesi delle
responsabilità che sentiva. Tutto pur di non portare la mente a quel
momento.
In
lontananza sentiva i loro compagni avvicinarsi, iniziare la loro avanzata pronti
a sostenerli nell’ultimo atto di quella battaglia. Fu come un soffio di vento
leggero a rinfrescare la pelle bruciante di tensione.
Nell’aria era ormai
forte l’odore di sangue, ad ogni respiro sembrava quasi di assaporarne il sapore
metallico lungo la gola. Il rosso rendeva ormai chiaro il suo dominio,
impregnando ogni superficie intorno a lui, poteva vederlo sulle sue stesse mani,
da dove si alzava quel vago sentore di sangue arso.
Furono
delle urla a riscuoterlo dall’alienazione dei suoi movimenti meccanici, che lo
guidavano in una lotta impari contro i marine fin dal primo colpo. Urla diverse,
le urla di un ferito soffocate dall’esultare dei marinai.
Volse
lo sguardo intorno, correndo in preda ad un freddo turbamento, al vago terrore
di aver appena messo a rischio i suoi compagni. Non passò molto prima di vedere
la figura corpulenta apparsa da poco.
Il marine a capo della nave, un
comandante di vascello probabilmente, la persona che, da dietro le quinte, aveva
guidato l’attacco dei loro avversari fino a quel momento era finalmente scesa in
prima linea, in soccorso dei suoi uomini.
Aveva
già visto quel volto da qualche parte, ricordava vagamente un giornale parlare
di un ufficiale promosso recentemente dopo aver catturato dei pericolosi
ricercati. La fama momentanea doveva avergli probabilmente dato alla testa se
credeva veramente di sconfiggere Barbabianca e i suoi.
Nell’istante
in cui vide l’uomo alzare una pesante mazza pronto a dare quello che,
probabilmente, sarebbe stato il colpo di grazia al suo compagno, la vista gli si
fece improvvisamente bianca. Blackout. Vuoto assoluto dei momenti in cui i suoi
piedi avevano sfiorato il legno della nave percorrendo velocemente la poca
distanza che lo divideva dai suoi.
Sentì
vagamente il contraccolpo dovuto al contatto con il ferro già sporco di sangue.
Aveva coperto il compagno, evitando volontariamente di trasformarsi in fuoco per
poter difendere l’altro con il suo corpo. Evidentemente, era più resistente di
quanto pensasse.
La
preoccupazione per gli uomini che gli erano stati affidati aveva ormai preso il
sopravvento sul buon senso che dovrebbe sempre guidare ogni buon capitano. Le
fiamme divamparono alle sue spalle in una muraglia costringendo i suoi ad una
rapida ritirata; era rimasto solo, pronto ad affrontare tutti i marine
superstiti sulla nave.
Ci
fu un moto di esultanza generale fra i suoi nemici, probabilmente dovuto al
ghigno strafottente del loro capitano, o al classico discorso preimpostato su
quanto ormai la sua ora fosse chiaramente arrivata, evidentemente credevano di
aver appena ottenuto l’opportunità per una facile vittoria. Soffocò una
cristallina risata fra i denti, era sempre divertente venire
sottovalutati.
Con
pochi, facili, colpi si liberò dei primi uomini che provarono ad attaccarlo
sulla cresta del fervore di avere soltanto un nemico di fronte. Ne caddero altri
cinque prima che si rendessero conto che per avere anche solo uno straccio di
possibilità contro di lui avrebbero dovuto organizzarsi almeno un po’. Fu il
“capo” a prendere l’iniziativa, fece arretrare i suoi uomini sfidandolo
apertamente in quello che sembrava un leale duello uno contro
uno.
Se
anche per un attimo aveva pensato che avrebbero “giocato” correttamente, dovette
ricredersi nel sentirsi improvvisamente afferrare dai marine che avevano ormai
formato un cerchio intorno a loro. Fu un semplice gioco di forza spintonarli
lontano liberandosi, non ebbe nemmeno bisogno di ricorre alle fiamme, ecco
perché si accorse delle manette al suo polso solo quando l’arma dell’altro lo
colpì con violenza al volto facendolo volare contro la balaustra poco lontana.
Sentì il legno incrinarsi nell’impatto, mentre il sapore acre del sangue si
insinuava tra le labbra.
Oltre
il muro di fuoco che aveva creato sentiva i suoi compagni chiamare qualcuno,
mentre altri cercavano di placare le fiamme per raggiungerlo, senza però
ottenere molti risultati.
Il
suo sguardo volò rapido al polso stretto a delle dannate manette di agalmatolite
per poi tornare al suo avversario che se ne stava ritto di fronte a lui a
sghignazzare. Si rialzò cancellando con il piede le tracce rosse lasciate dalla
sua caduta, non sarebbero state delle stupide manette a fermarlo, non era uno
sprovveduto come tanti, e non sarebbe stato quel dannato ciccione a metterlo a
tappeto, quella non era una giornata in cui poteva permettersi di
perdere.
Con
la mano destra bloccò l’arma già calata nell’intento di colpirlo, mentre con una
leggera spinta si sollevò il necessario per colpirlo poco al di sotto dello
sterno con un calcio. Sentì chiaramente il tremore del contraccolpo sul corpo
dell’altro, non trattene il ghigno nel vedere l’altro indietreggiare di un passo
per riprendere fiato. Illusi se pensavano bastasse privarlo del fuoco per
renderlo innocuo.
Era
pronto a colpirlo nuovamente quando il rumore di uno sparo tagliò l’aria
circostante. Un perforante dolore alla spalla lo costrinse in ginocchio mentre
la mano accorreva veloce a tamponare l’origine del dolore.
Sangue,
scivolava lungo il braccio nonostante cercasse di arginarlo fra le dita. Il
proiettile era passato oltre la spalla, doveva sbrigarsi a concludere se non
voleva perdere i sensi in mano ai suoi nemici. Le fitte erano violente, e
peggioravano ad ogni tentativo di muoversi. I bastardi intorno a lui ridevano
mentre il loro capitano si avvicinava a lui con la stessa andatura di un
boia.
Lo
guardò sprezzante, trasudando con lo sguardo un orgoglio duro a morire. Era un
pirata, era forte abbastanza da sopravvivere anche ad una situazione del genere,
non l’avrebbe sconfitto.
Il
braccio si sollevò solenne, preparando quello che, probabilmente, considerava il
colpo di grazia. L’uomo ghignò nel guardarlo a terra, ferito, mentre cercava di,
a suo dire, incenerirlo con lo sguardo; agli occhi del marine non era altro che
un animale ormai chiuso in gabbia.
Vide
l’arma calare su di lui, diretta alla sua spalla, al suo attuale punto debole,
sentì l’aria mutare trasportata con violenza nella sua direzione. Sentiva ormai
il colpo su di sé quando un
movimento nel vento arrivo fino a lui, il debole suono di un frusciare di piume,
coperto infine dal pesante suono di uno scontro. Non sentì il dolore che aveva
immaginato, non sentì nulla, solo il pallido calore di una fiamma
blu.
Sgranò
appena lo sguardo nel rendersi conto di cosa era appena successo; Marco era lì,
di fronte a lui e sorrideva mentre il suo braccio bruciava in una fredda fiamma
azzurra. Si era fatto colpire al suo posto, e non sembrava minimamente
risentirne.
Piegò
le labbra in un debole sorriso, mentre assaporava quella lieve sensazione di
sollievo che scivolava come una carezza sulla pelle dolorante. Non gli era
ancora ben chiaro se il peso che provava fino a poco prima si fosse dissolto per
l’arrivo di Marco in suo soccorso, o perché proprio grazie all’arrivo del
capitano della prima divisione ora sapeva per certo che i compagni a lui
affidati sarebbero stati al sicuro. La risposta non importava, non in quel
momento. I suoi sensi erano impegnati a seguire la figura di Marco mentre
combatteva, intorpiditi dall’intenso odore di cannella che accompagnava il
biondo in ogni battaglia.
Pungente
cannella, l’odore di sangue ne usciva sempre sconfitto.
Una
vera ingiustizia. Quella era una vera e propria ingiustizia. Ace ne era certo,
una di quelle convinzioni da promozione pubblicitaria, con probabilità di
riuscita del centodieci per cento. Come era possibile dargli
torto?
Certo,
ammetteva le sue colpe, non era di certo un innocente finito casualmente sul
patibolo, assolutamente no. Era un pirata disgraziato, insomma, la classica
persona con pregi, difetti e una taglia di milioni di berry sulla capoccia.
Eppure non era stato un tale delinquente da meritarsi una punizione così infima,
una pena così crudele e degradante.
Tirò
su sonoramente col naso per l’ennesima volta quel giorno, mentre con il dorso
della mano, ancora miracolosamente asciutto cercava di pulire gli occhi dalle
lacrime che uscivano ormai a fiumi. Le risate delle persone attorno a lui non
sembrarono più soffocate come le prime quarantanove volte di quel, ormai poco,
originale spettacolo.
Quando
si ritenne soddisfatto del risultato, o almeno quando la visuale sembrava farsi
leggermente più nitida e chiara per il suo sguardo ormai acquoso, calò
nuovamente la mano verso il tagliere riafferrando il coltello abbandonato poco
prima per bisogni decisamente più urgenti.
Un
colpo secco, preciso e, per carità, sta attento alle dita. Queste erano le sue
indicazioni, nulla di più e nulla di meno; eppure per quanto seguisse alla
lettera quegli ordini, la tortura sembrava praticamente infinita.
Certo,
l’aveva già ammesso, si meritava una punizione per il “disastro” che aveva
combinato contro quei marine, la
poca fiducia che aveva avuto nei suoi compagni e il rischio che aveva corso nel
combattere da solo, ormai ricordava la ramanzina a memoria, ma proprio a
sminuzzare cipolle dovevano metterlo? Era pura perfidia
quella.
Afferrò
la, probabilmente, centesima cipolla della giornata sentendo gli occhi bruciare
in dissenso, ma in quanto uomo considerava disonorevole sottrarsi ai suoi
doveri, anche se in quanto pirata era dal secondo, dannato, ortaggio che pensava
a come svignarsela.
Finì
di sminuzzare anche quella cipolla, e sfruttò l’occasione per guardarsi intorno,
i cuochi erano tutti impegnati nella preparazione del pranzo, e poi suvvia chi
si sarebbe accorto della sua fuga? Era quantomeno inutile il suo apporto di
affettaverdure temporaneo.
-
Fossi in te, non lo farei. -
Quelle
parole arrivarono come una risata al suo orecchio. Non ebbe bisogno di voltarsi
per riconoscere la voce, la sensazione di leggera irritazione che si propagava
fra i suoi pensieri aveva già chiarito la persona con cui avrebbe avuto a che
fare, probabilmente per il resto della giornata.
-
Non sapevo fossi in grado di leggere il pensiero Satch. – gli lanciò quello che
probabilmente in condizioni normali sarebbe stato uno sguardo di fuoco, ma che,
in quel momento, era solo l’espressione di un uomo distrutto.
-
Non ho bisogno di capacità telepatiche per riconoscere qualcuno che cerca di
darsi alla fuga. – ghignò divertito dalla situazione mentre allungava al moro
un’altra cipolla. - Sono stato in questa cucina molto più tempo di te.
-
-
Devo forse intuire che sei stato nei guai molto più spesso di me?
-
-
Questo è un colpo basso Ace-kun... - ed ecco che partiva lo spettacolo del Satch
piagnucolante a cui nessuna persona sana di mente avrebbe mai e poi mai voluto
assistere.
-
Hai così poca stima delle mie capacità da credermi un disastro tale da venire
continuamente punito? È questo che pensi davvero di me? Non provi nemmeno un
briciolo di affetto per il tuo caro amico Satch? Non rispetti nemmeno un po’ il
ruolo che mi sono faticosamente conquistato nella nostra famiglia? -
-Falla
finita Satch se non vuoi finire a tagliar cipolle anche tu!-
Ace
ringraziò il capo-chef dal profondo del cuore per averlo zittito. A prima vista
probabilmente non sembrava nemmeno così tremendo, ma ascoltare la voce
piagnucolante di Satch, mentre a macchinetta faceva domande accusatorie era
qualcosa di veramente devastante, ringraziava le cipolle per averlo reso
praticamente cieco e di conseguenza fisicamente impossibilitato a vedere i finti
sguardi da cucciolo dell’altro. Niente, niente era peggio di Satch che cercava
di imitare un cucciolo.
Prese
fra le mani l’ultima cipolla, con il biondo che ancora gli mugugnava a fianco,
quando finalmente sentì urlare le parole che ogni pirata nella sua situazione
vorrebbe sentire: “Ora di pranzo!”.
Sminuzzò l’ortaggio più in fretta di quanto avesse fatto con gli altri per poi
correre al primo lavandino disponibile finalmente pronto a riacquistare la vista
ignobilmente perduta.
Per
la prima volta, da quando aveva mangiato il frutto del diavolo, l’acqua gli
sembrò una vera benedizione. La sensazione dell’acqua sulla pelle non era mai
stata così gradevole, gli occhi riprendevano lentamente un aspetto normale e
l’irritante odore di cipolla si allontanava ad ogni bolla di sapone. Quando finì
di lavarsi e asciugarsi si sentì incredibilmente sollevato nel riuscire
nuovamente a vedere l’ambiente che lo circondava.
Non
fece in tempo a voltarsi che si ritrovò una ciotola piena di zuppa fra le mani.
-
La tua porzione. - le parole furono seguite da un sorriso allegro. - E poi prova
a dirmi che non ti voglio bene. -
A
quanto pare Satch aveva ritrovato il buon umore, per cui decise saggiamente di
non provocarlo ma limitarsi a sedersi insieme a lui in un angolo della cucina,
su quelli che erano quasi sicuramente sacchi di patate.
La
compagnia dell’altro non gli dispiaceva
durante i pasti, erano quei pochi momenti in cui era silenzioso, e doveva
ammetterlo con la bocca chiusa poteva apparire quasi simpatico.
Solo
quando la zuppa era ormai finita, l’altro decise che poteva tornare a parlare.
-
Così ti hanno spedito a tagliar cipolle dopo l’ultimo scontro con la marina eh?
- aveva un tono comprensivo, come se stesse parlando con un compagno di
disgrazie. - Come punizione è un classico ormai! -
-
Ci sei finito anche tu? -
-
Che scherzi? Io sono il pioniere di questa antica tradizione.
-
Risero
insieme, e non poteva negarlo, non era poi così male la sua
compagnia.
-
Come vanno le tue ferite? -
Si portò istintivamente una mano alla spalla a
quelle parole; sentiva la fasciatura al di sotto della camicia, ma ormai poteva
dire di essersi completamente rimesso, anche se aveva passato un intera giornata
chiuso in infermeria.
-
Bene. - lo sguardo temporeggiò per un istante sul grigio soffitto della cucina.
- Se non ci fosse stato Marco sarebbero state decisamente peggiori. -
Satch
sorrise, un sorriso diverso dal solito, quel sorriso che aveva visto anche in
Marco quando gli aveva parlato della loro famiglia, quel sorriso caldo che gli
dava sempre la sensazione di aver trovato una casa. Forse fu per questo che non
si stupì quando l’altro non fece una delle sue solite
battutine.
-
Già. Lui è fatto così, arriva sempre quando ne hai bisogno.
-
Si
fermò un attimo a studiare l’espressione dell’altro, come per capire se lui
avrebbe potuto chiarire la sua curiosità. A ben pensarci Satch conosceva Marco
da molto più tempo di lui, erano compagni da chissà quanto tempo, doveva sapere
molte cose sul biondo, per cui perché non chiederglielo?
-
Senti Satch, perché alla fine di ogni battaglia Marco profuma di cannella? -
Le
parole uscirono senza che ci pensasse troppo sopra, e quando a seguire la
domanda fu il silenzio Ace pensò sinceramente di aver detto un’enorme scemenza.
Ma la risposta non tardò poi tanto ad arrivare.
-
Te ne sei accorto eh? - una domanda retorica mentre i suoi occhi lo studiavano,
si sentiva osservato nei dettagli.
-
Allora? -
L’altro
rise per poi allungare una mano ad arruffargli i capelli in un gesto
amichevole.
-
Sei proprio un ficcanaso. - si alzò agitando la mano in segno di saluto. - Se ti
interessa tanto, forse dovresti chiederlo al diretto interessato. -
Ne
era certo, c’era una sottile vena di malizia nelle ultime parole di Satch.
Perdere il pelo ma non il vizio, probabilmente, non era una norma che valeva
solo per i lupi.
Sospirò. Chiederlo a Marco, come se fosse
facile.
Il
tempo sulla Moby Dick trascorreva placidamente, inserendosi in una routine che
raramente si poteva trovare nella vita da pirata. Ma la ciurma di Barbabianca non era una
ciurma qualsiasi, la loro discreta fama li portava spesso negli stessi luoghi a
controllare che nei territori sotto la loro protezione tutto procedesse per il
meglio e ogni viaggio aveva incontri sempre nuovi, tra sprovveduti che cercavano
di farsi un nome e marine che speravano in una promozione, ma erano così tanti
che raramente avevano modo di combattere tutti insieme, a volte era sufficiente
solo lo sbuffare irritato del babbo.
Dal
suo incidente come capitano in prova erano ormai passate due settimane, aveva
avuto tutto il tempo di riflettere su quanto aveva sbagliato, e su quanto invece
doveva mantenere quando era al comando dei suoi compagni. Ora capiva il discorso
di Marco prima della battaglia, non aveva avuto fiducia nei suoi compagni e ne
aveva pagato le conseguenze.
Marco...
Nonostante in quei giorni combattessero spesso insieme, non aveva ancora avuto
l’occasione di parlarci da solo. La curiosità lo tormentava e Satch si rifiutava
di chiarire i suoi dubbi continuando a rimandare la risposta al protagonista
della questione.
Quel
giorno sarebbe stato diverso, visto che il suo “amico” non parlava, avrebbe
chiesto la risposta al diretto interessato, ed ecco perché si trovava lì, in un
turno di guardia che non avrebbe dovuto svolgere ad attendere l’alba e la
soluzione dei suoi interrogativi. Il biondo non avrebbe mancato
all’appuntamento, ne era certo.
Lasciò
la vedetta per scendere sul ponte e sdraiarsi sul legno della nave, mancavano
pochi minuti al sorgere del sole e voleva essere sicuro di non perdere
l’occasione di parlare con Marco. Chiuse gli occhi lasciandosi cullare dagli
ondeggiamenti della nave che seguiva docilmente i movimenti del mare, e
dall’odore salmastro che si alzava nel vento. Era una notte incredibilmente
tranquilla.
A
risvegliarlo da quel momento di calma fu il lieve rumore di passi che
riecheggiava nel legno, non fu difficile riconoscere il proprietario. Aprì gli
occhi vedendolo passare al suo fianco.
-
Marco... -
Si
alzò a sedere nel pronunciare il suo nome, pronto ad
alzarsi.
L’altro
si voltò con un dito poggiato sulle labbra in segno di silenzio, mentre prendeva
il suo solito posto seduto a prua, pronto ad osservare l’alba in tutti i suoi
dettagli.
Non si avvicinò quel giorno, si limitò ad osservare la scena
seduto alle sue spalle, aspettando il momento giusto per poter parlare. La
figura dell’altro si faceva più nitida mentre i primi raggi del sole ne
delineavano i contorni, e come la prima volta provò quella strana sensazione di
stasi, come se il tempo si fermasse per pochi secondi prima di tornare al suo
flusso normale.
Solo
quando il sole si era ormai alzato Marco si avvicinò nuovamente guardandolo con
un’espressione curiosa.
-
Vuoi farmi una domanda vero? -
Sorrideva,
un sorriso di chi sapeva già tutto ma si divertiva a farselo ripetere dalla
persona interessata. Satch aveva indubbiamente parlato anche con lui, del resto
quando mai quell’uomo stava zitto?
-
Si. - lo guardò negli occhi per un lungo attimo. - Risponderai? -
- Non si
dice di no ad una domanda. -
E
rimase fermo di fronte a lui, in attesa di quella domanda. Gli aveva promesso
una risposta, avrebbe finalmente chiarito i suoi dubbi, l’unico problema ora
era... come avrebbe dovuto chiederglielo?
“Ehi Marco, è un po’ che ti
annuso, come mai odori di cannella?” “Oi collega! Come mai quando fai a botte
profumi di cannella?”
Avrebbe fatto la figura del completo idiota. Gli
avrebbe riso in faccia se lo sentiva! Maledizione a Satch e al suo neurone
solitario incapace di rispondere alla sua curiosità! Anzi, ne era sicuro, aveva
macchinato tutto alle sue spalle per metterlo in ridicolo, se lo
sentiva!
-
Allora? - ridacchiò Marco.
La
voce dell’altro lo riportò alla realtà, sottraendolo da quel vortice di pensieri
senza fine. Lo guardava con
un’espressione divertita, mentre aspettava pazientemente che l’altro elaborasse
la sua domanda. Le parole uscirono
spontanee, senza che riuscisse a controllarle.
-
Perché la cannella? Da dove arriva il profumo? -
-
Per la fenice. - rispose con tono pacato, quello che si userebbe per spiegare
qualcosa ad un bambino, o nel loro caso all’ultimo arrivo della famiglia. -
Conosci la leggenda? -
Ace
scosse la testa con foga, forse un po’ troppa visto che provocò una risata
divertita dell’altro.
-
Si racconta che la fenice sia un uccello leggendario capace di vivere più di
mille anni rigenerandosi tra le fiamme. - lo guardò come ad assicurarsi che lo
stesse ascoltando. - Non so dirti se sia vero, ma il frutto che ho mangiato mi
ha reso una fenice e in quella forma riesco a rigenerare le mie ferite. L’odore
di cannella è emanato dalle fiamme che mi curano. -
Il
moro ormai lo guardava come fosse il supereroe di un fumetto appena
materializzato di fronte ai suoi occhi. Il leggero “wow” che uscì dalle labbra
leggermente dischiuse non stupì il biondo, anzi, ebbe uno strano moto di
tenerezza nel sentirlo.
Prima
che potesse dire altro il viso del ragazzo si fece serio come se una nuova
curiosità avesse deviato il corrente flusso di pensieri.
-
Come mai vieni sempre a vedere l’alb- -
Sentì
all’improvviso il dito sulle labbra ad interrompere la sua domanda sul nascere,
sussultò sorpreso da quel contatto mentre Marco lo guardava con un
sorriso.
-
Avevamo detto solo una domanda. - ghignò divertito mentre a passi lenti si
avviava verso la sua cabina. - Buonanotte Ace. -
Sorrise
a quelle parole, tentato di rispondergli che il sole era ormai alto in cielo, ma
sapeva perfettamente che dopo una notte passata svegli ritirandosi in camera per
riposare era come prepararsi per una lunga nottata, fu per questo che rispose
come chiunque altro, fra i loro compagni, avrebbe fatto.
-
Buonanotte. -
-
Sei in anticipo oggi. -
-
Le abitudini cambiano. -
-
Solo di pochi minuti. -
La
solita noiosa battaglia, pesci piccoli che si credeno squali tentavano di
attaccarli e tutto finiva con fatiche sprecate e fuochi d’artificio umani. Tutto
sommato per chi, come il babbo, se ne stava seduto in lontananza ad osserva la
scena, il complesso poteva sembrare anche un bello spettacolino, ma per lui e
Marco, due sfigati presi in fallo dalla dea bendata, era solo una faticaccia
inutile, un gioco per bambini.
Era colpa di Satch ne era più che certo,
finire sorteggiato casualmente insieme a Marco per combattere quei piratuncoli,
con quel chiacchierone a prendere personalmente i foglietti con i loro nomi dal
sacco predisposto per il sorteggio, inutile dirlo la cosa puzzava di imbroglio,
tanto più se sul volto del fortunato estrattore imperava un ghigno che andava da
orecchio ad orecchio. Stupido Satch.
Tirò
l’ultimo pugno della giornata finendo col bruciare anche parte della balaustra
del vascello che li ospitava, con ilarità del suo compagno che sentiva
ridacchiare alle sue spalle.
-
Pronto a tornare alla base? -
Annuì
energicamente come a sottolineare la poca voglia che aveva di restare lì a
marcire fra pirati che difficilmente mettevano a segno qualche colpo, e anche
quando ci riuscivano il suo potere impediva loro di ferirlo.
Vide
l’altro trasformarsi in fenice in un flusso di fiamme azzurre; non passò molto
prima che sentisse gli artigli afferrargli i vestiti e il vento soffiargli sul
viso mentre si avviavano verso la Moby Dick. Eppure qualcosa non tornava, c’era
qualcosa che stonava terribilmente in quel quadro all’apparenza quotidiano.
La
realtà lo colpì improvvisamente, quando, posati i piedi sulla nave, il vento
portò chiaramente l’odore di Marco fino a lui.
Era
puzza di sangue.
Note
d’autrice:
Ehm... salve! Come
butta?
Da uno a dieci quanto
rischio un linciaggio per il troppo tempo che è passato da quando ho aggiornato?
Posso uscire di casa senza il casco protettivo?
*si inchina* ...
chiedo umilmente perdono.
...
Ok, meglio che non
divento melodrammatica altrimenti la mia sanità mentale ne risente e poi mi
dimentico le cose importanti che devo dirvi. Si una nota d’autrice seria per una
volta!
Riguarda la questione della cannella, che anche se può sembrare non è
un profumo scelto a caso mentre vagavo fra le spezie da
cucina.
Per quanto ne so,
nella leggenda la fenice prima di morire, si crea un bel nido con spezie varie
tra cui per l’appunto la cannella, per cui nel momento in cui si alzano le
fiamme e la fenice muore e rinasce si sente questo odore di spezie, e visto che
è presente anche la cannella io ho preferito prendere solo quella a
simboleggiare il tutto.
Bene, le note serie
sono finite quindi via con il delirio.
Avevo intenzione di
aggiornare molto prima il capitolo, a luglio finita la tortura esami pensavo che
me ne sarei stata tutto il giorno a scrivere visto la smania che avevo, ma vi
giuro finito l’ultimo dannato esame l’ispirazione si è volatilizzata come la
verginità di Sanji sull’isola di quei simpaticissimi Okama.
Chiaramente ora che
mancano pochi giorni al mio prossimo esame sono qui a spezzarmi le dita sulla
tastiera. Il mio cervello è proprio adorabile a volte.
Tutto questo in fondo
per dirvi che farò il possibile per pubblicare il terzo capitolo al più presto
ma non so davvero quando ci riuscirò. Grazie davvero se avete ancora la forza di
sopportarmi!
Concludo con i
ringraziamenti di rito, perché ve li meritate davvero, grazie a tutti coloro che
leggono, commentano, seguono, preferiscono questa storia, siete adorabili e vi
voglio un gran bene anche se sono una bastarda e non mi faccio mai
sentire.
Grazie a tutti
davvero.
Kis~
Seiko