Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    05/09/2011    5 recensioni
«Edward?», sussurra, tremando e stringendo le dita sulla stoffa della camicia.
«Hm?», rispondo semplicemente, senza staccare le labbra dai suoi capelli. Sotto il leggero odore d’alcol c’è il suo profumo di sempre, che solo una volta ho avuto l’occasione di aspirare come ora. È dolce, sa di fragola, di shampoo, di pulito. Sa di Bella.
Sento il suo corpo tremare per un istante. «Non mi lasciare sola».
Il suo è solo un sussurro spezzato, una preghiera detta a bassa voce, ma dentro di me risuona con la stessa potenza di un’eco incessante, e si incide a fuoco nella mia mente, nella mia memoria e nel mio cuore.
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Salveeee! :D

Visto che puntialità questa volta? XD Il capitolo non è molto lungo, ma spero vi piaccia comunque :D Ormai è il giorno della vigilia di Natale, secondo la storia, e voglio dedicare il prossimo capitolo solo a quella serata :)

Buona lettura! :D

___________________________

 

Don’t Leave Me Alone

Capitolo 16__Iris

Giovedì 24 Dicembre

Bella

«Aspetta. Fermati un momento e ripeti».

Scuoto il capo, arrossendo. «Dai, Alice. Ti ho già detto tutto, non c’è bisogno di ripeterlo», brontolo.

La sento saltare giù dal mio letto, e correre al mio fianco. Mi toglie dalle mani il vestito che sto guardando, e mi fa segno di andare a sedermi sul letto. «Ci penso io alla tua valigia. Tu siediti e racconta», mi ordina, iniziando a frugare nell’armadio.

Sospiro, sedendomi sul bordo del mio letto. «Devo ancora scegliere un vestito per stasera. Non possiamo rimandare le chiacchiere a più tardi?».

Alice estrae una gruccia da in fondo all’armadio, a cui è appeso un abito bianco lungo. «Che ne dici di questo?», mi chiede, con un sorriso.

L’ho comprato poco tempo fa, e non l’ho ancora utilizzato. Immagino sia perfetto per stasera. Alzo gli occhi al cielo. «Sì, va bene».

«Perfetto. Un lavoro in meno. Ora puoi parlare».

«Di cosa dovrei parlare ancora?», chiedo, borbottando. Anche se Alice è la mia migliore amica mi imbarazza un po’ parlarle di Edward; è pur sempre suo fratello.

«Di quello che vi siete detti dopo che ti ha baciata. E non mi hai ancora detto com’è stato», aggiunge, mentre impila i vestiti da mettere in valigia su una sedia. Questa sera rimarremo a dormire a casa dei suoi genitori, così che domani mattina potremo partire direttamente da là per l’aeroporto. Il volo parte alle 11, quindi non dovremo svegliarci presto come quando sono andata a Seattle con Edward l’altro giorno.

«Com’è stato cosa?», chiedo, anche se ho capito benissimo a cosa si riferisce. Spero capisca il mio disagio e lasci perdere, ma ormai dovrei sapere bene com’è fatta Alice.

«Il bacio», risponde lei, alzando gli occhi al cielo. «Sai, quando ha posato le sue labbra sulle tue e-».

«Alice, ti prego!», esclamo, coprendomi il volto con le mani, sentendo le mie guance in fiamme. Lei tace, ma la sento sogghignare.

«Allora?», insiste.

«Non lo so», mormoro, ancora nascosta dietro le mani. «È successo tutto così all’improvviso che credevo di poter svenire», ammetto.

«Ti è piaciuto?», mi chiede ancora, aumentando a dismisura il mio imbarazzo.

«Alice…», borbotto, agonizzante. «Ti prego…».

«Quindi non ti è piaciuto…», commenta, pensierosa.

Lascio cadere le mie mani, ancora rossa in volto. «Certo che mi è piaciuto!», esclamo, sulla difensiva.

Alice ridacchia, e capisco che il suo commento era destinato a farmi sputare fuori la verità. Mi passo la mano sul viso, imbarazzata.

«Quindi cosa hai intenzione di fare, adesso? Aspetterai che sia lui a farsi avanti o gli dirai subito come stanno le cose per te?», mi chiede, tornando seria.

«Non lo so», sussurro. «Forse è davvero ancora troppo presto anche solo per pensare di essere più che amici. Hai visto come sono sempre andate le cose fra di noi…».

«Questo perché sia te che lui avete paura. Entrambi continuate ad avere paura di combinare chissà quale disastro qualsiasi cosa facciate, ma ogni tanto bisogna pur correre qualche rischio, non credi?».

Mi stringo nelle spalle, indecisa. Alice ha ragione, ma non sono sicura di essere pronta a correre il rischio di perdere Edward. Se dovesse succedere qualcos’altro come ciò che è accaduto dopo la rapina, non credo che riusciremo ad avere un’altra possibilità insieme.

Il campanello suona prima che le risponda, salvandomi in corner. Mi alzo dal letto, lasciando che Alice si occupi della mia valigia, e raggiungo la porta d’ingresso, aprendola.

Osservo sorpresa la persona davanti a me. Edward. «Ciao», mormoro, sentendo le guance imporporarsi.

«Ciao», risponde lui, con un sorriso.

Mi faccio da parte per farlo entrare. «Come mai qui?», chiedo, curiosa.

Edward raggiunge il divano, ma non si siede. «Volevo sapere se hai da fare per questo pomeriggio».

Mi mordo il labbro. «Veramente dovrei finire di fare la valigia per-».

«In realtà, la tua valigia la sto facendo io», interviene Alice, entrando in soggiorno dalla mia stanza. Si avvicina ad Edward e gli bacia la guancia, allegra. «Ciao, fratellino!».

Lui le spettina i capelli, salutandola.

«Hai insistito te per farmela», ribatto.

«Dettagli», canticchia lei. «Quindi se vuoi uscire puoi andare».

La fisso, indecisa. «Sei sicura?».

Lei sorride. «Certo! Tanto ho quasi finito».

«Okay…», mormoro, stordita. Guardo Edward, sperando di non essere arrossita. «Vado a cambiarmi, torno subito».

Lui annuisce, e sparisco dentro la mia camera.

 

«Dove stiamo andando?», chiedo, non appena mette in moto l’auto.

Edward sorride. «Lo scoprirai quando arriveremo».

«Non mi dai nemmeno un indizio?», insisto, confusa. È così importante che sia segreto il luogo dove stiamo andando?

«È a Manhattan», risponde lui, con nonchalance.

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Beh, ora è tutto molto più chiaro», commento sarcastica.

Edward ride, e non posso far altro che sorridere. Quando lo vedo ridere così rimango sempre incantata.

«Prometto che fingerò di essere sorpresa quando arriveremo», provo ancora. «Me lo dici?».

Mi lancia un’occhiata divertita. Sulle labbra il suo sorriso sghembo. «Non sei granché come negoziatrice, sai?».

Arriccio le labbra, e affondo nel morbido schienale in pelle della Volvo. Questa macchina mi piace. Non è fredda e impersonale come il mio vecchio pick-up; è comoda e confortevole, e nel vano sotto lo stereo ci sono tanti cd di musica. Un’altra cosa che adoro è il profumo che mi accoglie non appena mi siedo sul sedile: il profumo di Edward.

Guardando fuori dal finestrino riesco a scorgere alcuni negozi e l’Empire State Building, che sorpassiamo. Se non sbaglio ci stiamo dirigendo verso la zona sud di Manhattan. Dove vuole arrivare?

Dopo una decina di minuti, duranti i quali chiacchieriamo del più e del meno, smaltendo definitivamente l’iniziale imbarazzo, posteggia l’auto lungo una via ampia, costeggiata a tratti da alcuni alberi.

Mi fa segno di scendere, e non appena richiudo la portiera alle mie spalle mi guardo attorno, incuriosita. Il marciapiede è ampio, ma poco trafficato; i negozi sono pochi, e i più trattano di articoli come bricolage, o elettronica di seconda mano. Ancora una volta mi chiedo dove stiamo andando.

Edward mi affianca in un attimo, con uno strano sorriso in volto. «Andiamo?».

Annuisco, titubante, e lo seguo lungo il marciapiede, guardandomi intorno per cercare di scovare un minimo indizio su dove stiamo andando. Un museo? Un negozio particolare? Vuole un consiglio su cosa regalare ad Alice, forse?

Mi stringo nel cappotto, rabbrividendo. Ad ogni respiro una nuvoletta di vapore esce dalle mie labbra. Il cielo plumbeo sembra promettere pioggia, ma secondo Alice - e il meteorologo che tanto ammira della CNN - entro sera tornerà il bel tempo. Lo spero.

Non appena Edward si ferma faccio la stessa cosa, e lancio un’occhiata al negozio davanti al quale siamo arrivati. È un negozio di abbigliamento. Di jeans, in particolare.

In fondo, forse, non ho sbagliato a credere che voglia un consiglio per un regalo. Altrimenti perché venire in un negozio di abbigliamento?

«Sai dove siamo?», mi chiede, lanciandomi un’occhiata un po’ preoccupata.

Aggrotto la fronte. «Di preciso no, a dire il vero».

Il sorriso si amplia, confondendomi ancora di più. Cos’ha in mente?

«Adesso devi chiudere gli occhi».

«Come, scusa?», chiedo, perplessa.

Si avvicina a me, con lentezza esasperante, fino a fermarsi a pochi centimetri. Sento le guance infiammarsi, e il battito cardiaco aumentare improvvisamente. Il suo profumo mi investe, spinto dal vento leggero e pungente che soffia sulla città.

«Chiudi gli occhi», mormora, così vicino che posso sentire il suo respiro caldo sul mio viso infreddolito. «Fidati. Ti piacerà».

Rimango per un istante incantata dal suo sguardo intenso, poi, sempre rossa in viso, chiudo gli occhi. Pochi secondi, e le sue mani prendono le mie, stringendole delicatamente. Le sue, a differenza delle mie, ghiacciate, sono calde e morbide. Le scalda piano, strofinando la sua pelle contro la mia. Tremo leggermente, e spero che lo scambi per un attacco di freddo.

«Hai le mani congelate», sussurra, ancora vicino.

«Sono sempre stata freddolosa», ammetto, con la voce che trema un po’.

«Mi chiedo come hai fatto a sopravvivere a Forks per tutti questi anni», dice, con una punta di sarcasmo.

Faccio una smorfia, e sono quasi tentata di aprire gli occhi per godermi il sorriso sghembo che sono sicura è nato sulle sue labbra. «Là è più umido che qui, e sembra che faccia meno freddo. Anche la neve dura pochissimo d’inverno. Piove sempre».

«A te non piace la pioggia», constata, ricordando una discussione avuta poco tempo fa.

«Già».

«Altro motivo per cui chiedersi come hai fatto a resistere per più di vent’anni». Ride piano, ed io mi godo il suono della sua risata e della sua voce, che ad occhi chiusi suona ancora più melodiosa del solito.

Mi stringe le mani ancora un attimo. «Vieni. Seguimi e cerca di non inciampare», aggiunge, ilare.

Sorrido, e inizio a seguirlo, mentre lui mi invita tirandomi piano le mani. Mi fa fare una dozzina di passi avanti, poi si ferma. Mi ammonisce di non aprire gli occhi per alcun motivo, dopodiché mi fa voltare e lo sento aprire una porta. Ancora qualche passo e l’aria calda e accogliente di un luogo chiuso mi avvolge, facendomi subito sentire meglio.

In sottofondo ci sono solo voci, strani rumori metallici e il suono di una canzone natalizia in versione rock. Edward mi spinge a fare ancora qualche passo, lascia le mie mani e mi viene accanto.

«Posso aprirli, ora?», chiedo, sorridente ed eccitata. In che negozio ci troviamo? Non sembra un negozio di abbigliamento, altrimenti le commesse ci avrebbero già assaltato con mille saluti e inviti a seguirle per provare vestiti d’ogni genere.

«Mmm…», esita un attimo. «Sì».

Lo faccio. Piano, sollevo le palpebre, e non appena metto a fuoco il locale in cui ci troviamo apro la bocca in una ‘O’ muta, e gli occhi si spalancano completamente.

«Oh mio Dio…».

Faccio un passo avanti, fra due scaffali. Centinaia e centinaia di chitarre fanno bella mostra di sé appese alle pareti, agli scaffali, posate a terra, in vetrine, in poster. Di ogni colore, di ogni tipo, di ogni forma e dimensione. Con uno, con due manici. In un angolo scorgo anche un reparto dedicato esclusivamente ai bassi e più in là, in una saletta separata uno per i banjo. Casse di amplificatori sono disposte in ogni dove, plettri spaiati sono poggiati sugli scaffali. Mi volto per guardare Edward, e alle sue spalle scorgo altre chitarre, elettriche, appese su tutta la parete, fino in cima.

Incontro lo sguardo di Edward, verde brillante. «Ti piace?».

Mi mordo un labbro, cercando di reprimere lo sfacciato sorriso di entusiasmo che sento crescere a dismisura. Annuisco scuotendo solo il capo, perché sono certa che la mia voce suonerebbe acuta quasi quanto quella di Alice davanti ad un abito di Armani.

Edward sorride divertito dalla mia reazione, e anche soddisfatto.

«Vieni», dico, prendendogli un braccio. «Andiamo a vedere!».

Lo trascino con me in mezzo alle file di scaffali e chitarre, osservandole tutte, disposte in base alla casa produttrice e al modello. Mi dirigo verso una zona più appartata, verso una saletta dalla quale scorgo le chitarre acustiche e classiche. Appena entro lascio il braccio di Edward e inizio a girovagare per la saletta. Mi sento come una bambina nel regno dei balocchi. Appesa ad una parete scorgo una chitarra dal legno più scuro e con i fianchi bombati sfumati di nero. La osservo dal basso, e mi mordo con forza il labbro inferiore. È quasi uguale alla mia chitarra. Quasi, perché la marca non è la stessa. Quasi, perché la mia ora è distrutta, spezzata a metà, richiusa in una custodia sgualcita e impolverata in un angolo dell’armadio.

Edward mi sfiora il braccio, e torno con la sguardo a terra. «Cosa c’è?», chiede, cauto.

Mi stringo nelle spalle. «Quella chitarra lassù», gliela indico, «assomiglia alla mia».

I suoi occhi tornano ai miei, dopo aver osservato per un lungo istante lo strumento. «Come si è rotta?», chiede, sempre piano, dolcemente, temendo forse un mio tracollo, come è successo domenica scorsa, quando mi sono ritrovata a casa sua ubriaca.

Scuoto il capo, tornando al presente. «Leah l’ha buttata per terra quando mi ha vista con Jacob», rispondo con semplicità. «Il manico si è rotto, e non si riesce più ad aggiustare».

Per tutto il tempo tengo lo sguardo basso, e osservo altre chitarre, per non far scorgere ad Edward l’ombra della tristezza nei miei occhi. Come ha detto lui stesso una volta, non so recitare.

Nemmeno adesso sono certa di essere stata una buona attrice, ma lui lascia correre, e cambia argomento. «Perché non provi a suonare qualcosa?».

Sgrano gli occhi. «Adesso?».

Edward scrolla le spalle. «Sì, perché no? Lo fanno tutti».

Molti ragazzi, in effetti, sono seduti su alcuni sgabelli, sparsi nel negozio, e provano le chitarre. Forse potrei prendere uno dei plettri appoggiati qua e là sugli scaffali e provare… Provare a risentire quel senso di pace interiore che ho sempre provato stringendo nelle mani un manico e un plettro. Sentire il brivido che provavo quando muovevo le corde della chitarra, facendo riecheggiare nella stanza le note.

Ma… «Non credo che…».

Edward scuote il capo, e alza gli occhi al cielo. Allunga una mano su una cassa, dove sono sparsi alcuni plettri. Ne prende uno e me lo tende.

«Il plettro c’è, lo sgabello pure», dice, indicando una seggiola nell’angolo della saletta. «Devi solo scegliere la chitarra».

Prendo il plettro, e lo rigiro fra le dita, nervosamente. «Edward, non penso…».

Ancora una volta mi interrompe, voltandosi verso un ragazzo con una maglietta nera. «Scusi», lo chiama. Gli fa segno di avvicinarsi, e subito questo gli domanda se può esserci d’aiuto. Avvampo dalla vergogna. «Sì. Questa signorina vorrebbe provare una chitarra».

Il ragazzo annuisce, e abbassa lo sguardo alle mie mani. «Sa suonare?».

Annuisco piano, e distendo un po’ le dita della mano sinistra per mostrare le unghie cortissime. Perché dopo la chiacchierata con Edward il giorno del Ringraziamento ho ripreso a tagliarle? Avrei avuto un’ottima scusa adesso per non suonare. Ma forse sono proprio io a voler provare di nuovo certe sensazioni che solo la musica riesce a regalarmi.

«Quale vuole provare?». Si sposta nel negozio, guardando prima me, poi Edward. Probabilmente si starà chiedendo se sono in grado di parlare, visto il mio continuo silenzio.

Mi guardo attorno, sentendo gli sguardi di Edward e del ragazzo puntati su di me. Scruto velocemente le chitarre nel reparto, fino a scorgerne una dal legno scuro e ombreggiato, con il paraplettro marrone inciso e la tastiera segnata da placche, appoggiata a terra, sull’apposito sostegno. È una delle chitarre che ho sempre ammirato nelle vetrine di strumenti musicali e ho sempre sognato di provare, ma non ho mai avuto la possibilità di farlo.

La indico senza pensarci due volte. «Quella».

Il ragazzo sorride, e si avvicina alla chitarra indicatagli; la solleva e prende un accordatore. Dopo un veloce controllo per assicurarsi che sia del tutto accordata me la porge. La prendo con delicatezza e attenzione, e la prima cosa che noto è quanto sia leggera rispetto ad altre chitarre suonate finora. La tengo sospesa davanti a me per alcuni istanti, e osservo il disegno riportato sul paraplettro: un piccolo colibrì è intento a succhiare il nettare di uno dei fiori della pianta che sale lungo il contorno della placca, seguendo la circonferenza della buca; c’è anche una piccola farfalla, disegnata sopra alle foglie.

Aspetto che il ragazzo si allontani, dopodiché mi siedo sul piccolo sgabello di plastica nera e posiziono la chitarra. Anche il manico è molto più sottile della chitarra che avevo precedentemente. La mia mano, molto più piccola della norma, riesce a stringerlo interamente senza alcun problema. Sorrido internamente per questo piccolo vantaggio.

Rigiro il plettro fra le dita della mano destra, cercando di scegliere quale canzone potrei suonare per la prima volta dopo così tanto tempo. Edward mi osserva in silenzio, e si abbassa sui talloni davanti a me, arrivando così ai miei occhi, bassi.

Arrossisco.

«Cosa vuoi suonare?», mi chiede, candidamente.

Distolgo lo sguardo. «Non lo so».

Riflette per alcuni secondi, poi sorride. «Qual è la tua canzone preferita?».

Aggrotto le sopracciglia. «Perché?».

«La sai suonare?», insiste lui, senza badare al mio rifiuto di volerglielo rivelare.

«Sì… ma…».

«Niente ma». Sorride ancora. «Suonala».

«Guarda che non mi metto a cantare», borbotto, arrossendo alla sola idea di doverlo fare. Non credo esista persona più stonata di me.

Edward alza gli occhi al cielo, senza però perdere il buonumore. «Non ti ho chiesto di farlo». Mi osserva per un secondo. «Allora dimmi qual è la canzone, così magari riesco a seguirti».

Abbasso lo sguardo, arrossendo un po’. «Iris. Dei Goo Goo Dolls».

Sorride. «La conosco. Mi piace».

«Però promettimi di non prendermi in giro, dopo», lo prego, rossa di vergogna. «Sbaglierò di sicuro».

Edward sorride ancora e annuisce solo. Resta in silenzio, in attesa che io inizi a suonare.

Prendo un profondo respiro, e le mani iniziano a muoversi da sole.

Chiudo gli occhi, e nella mia mente mi sembra di sentire la voce del cantante. Così è più facile riuscire a seguire il ritmo.

Non credevo fosse così semplice. Le mie dita sono ancora svelte, allenate, si muovono su e giù sulla tastiera, il polso segue il ritmo a volte spezzato della canzone. Sono sicura di aver sbagliato in certi punti, a causa delle mie dita non più abituate ai passaggi fra gli accordi, ma sono comunque soddisfatta. Mi aspettavo molto di peggio.

Quando riapro gli occhi Edward è ancora inginocchiato davanti a me, e sorride. «Se avessi saputo prima che sei così brava a suonare, avrei cercato questo posto prima».

Arrossisco. «L’hai cercato solo per portarmici?», chiedo, imbarazzata.

Edward si gratta la nuca, a disagio. «Hai promesso a Phil di tornare a suonare, ieri, no? Mentre gli parlavi mi sono ricordato di un negozio di chitarre che avevo visto una volta girando per la città, e così ho fatto una piccola ricerca su Internet e l’ho ritrovato».

Apro la bocca per ringraziarlo, ma il suo telefono squilla, attirando la nostra attenzione.

Edward si alza in piedi per prendere il cellulare dalla tasca dei jeans, ed io vado verso l’impiegato per lasciargli la chitarra e ringraziarlo.

Quando torno da Edward, ha appena chiuso la chiamata. «Mia sorella ti reclama», mi informa, sorridendo.

«Perché?», chiedo, confusa. Mi ha fatta andare via con lui dicendo che aveva tutto sotto controllo, e adesso mi richiama?

Edward scrolla le spalle. «Immagino sia ora che ti prepari anche te per stasera. Ormai sono le cinque passate».

Strabuzzo gli occhi, guardando l’orologio, stupita. «È così tardi?».

Lui ride. «Abbiamo passato quasi un’ora qui dentro, non te ne sei accorta?».

«No», ammetto, mentre ci dirigiamo verso l’uscita del negozio. Mi guardo un’ultima volta intorno, godendomi gli ultimi istanti di caldo.

«Se ti fa piacere possiamo tornarci un altro giorno», mi dice Edward, quando apre la porta per uscire.

«Solo se andiamo anche in un negozio di pianoforti», rispondo, sorridendo.

Sorride a sua volta, annuendo. «Va bene».

«Grazie per avermi portato qui», gli dico mentre raggiungiamo la sua macchina, poco distante. «È stato… carino da parte tua», sussurro, abbassando lo sguardo e arrossendo.

«Mi ha fatto piacere», risponde, sinceramente.

Mi apre la portiera dell’auto, e mentre i nostri occhi si incontrano penso alla prossima settimana che passeremo insieme, in montagna, e arrossisco. Salgo a bordo, e mi lascio riportare a casa.

___________________________


La canzone che suona Bella credo la conosciate tutti, è questa. Questa, invece, è la versione acustica suonata da lei al negozio di musica.

Il negozio in cui la porta Edward fa parte della catena Guitar Center, e personalmente amo quei negozi *__* A NY esiste, e si trova nella zona meridionale di Manhattan.

Infine, la chitarra che prova Bella è questa.


Okay, credo di aver detto tutto XD Molte di voi hanno ipotizzato che Edward regalerà a Bella una chitarra... ma Bella cosa potrebbe regalare ad Edward e agli altri Cullen? :D Vediamo se qualcuna di voi indovina :D


Bon, credo di non avere altro da dire :) Spero di riuscire a postare presto il prossimo capitolo. Intanto auguro un buon ritorno al lavoro a coloro che sono appena rietrati dalle vacanze e un buon inizio anno a tutti gli studenti che oggi o la settimana prossima dovranno rientrare a scuola. :)


A presto! :******

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate