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Autore: JulietStarLight96    05/09/2011    3 recensioni
Questa storia è molto autobiografica, c'è molto della mia storia, della mia vita. Parla di me, di un liceo classico, di un ragazzo, di due sorelle, della prima volta per tante cose.
«Vuoi un tiro?»
«Preferisco la cioccolata.»
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La sveglia suonò, fin troppo puntuale per i miei gusti, e la canzone che avevo scelto quella mattina per darmi la carica partì senza esitazione. Ero carica, carica come non mai, anche se svegliarmi alle sei e mezzo, era sempre qualcosa di traumatico. Tutto mi ricordava che era il primo giorno di scuola. A partire dalla familiare immagine del mio zaino appoggiato alla scrivania, fino al vuoto lasciato dai libri degli anni prima sulla mensola. Mi diedi un’occhiata veloce davanti allo specchio. C’erano tante cose che non mi piacevano di me, fin troppe, e non avevo ancora imparato a conviverci; almeno non con tutte. Odiavo le lentiggini che mi invadevano gli zigomi come zucchero a velo, odiavo la mia carnagione troppo chiara per potermi abbronzare come le persone comuni, e odiavo la mia corporatura troppo minuta per essere presa sul serio: ero sempre stata magrolina e bassina, e il colorito pallido mi faceva sembrare sempre vagamente malaticcia. Anche se avevo sempre amato i miei capelli, neri come la notte, che scendevano morbidi in lunghi boccoli, e i miei occhi da cerbiatta, almeno quello potevo concedermelo, verdi smeraldo. Tutti si innamoravano sempre dei miei occhi.
Mi fiondai giù a fare colazione, mi lavai e indossai i jeans lunghi neri e la maglietta rossa a maniche corte che avevo preparato da fin troppo tempo ormai, poi mi diedi un filo di matita e un velo leggero di mascara, e tornai a prendere il mio Eastpack nero, in tempo per sentire il rumore delle gocce di pioggia che ticchettavano sul vetro della mia camera. Merda. Proprio oggi doveva piovere? Mi infilai la felpa nera della Duff, entrai imprecando in garage e mi infilai il casco stando ben attenta a fare in modo di fargli contenere tutti i miei capelli, per non farli bagnare; salii sulla mia Vespa, non era un granché ma per andare a scuola andava benissimo, e guidai tra una goccia e l’altra fino a raggiungere quel grande edificio giallo dove avevo sempre aspirato di andare. Una grande targa di ottone di fianco all’ingresso diceva: ‘Liceo Classico’.
Parcheggiai il motorino tra le due righe bianche e corsi nel cortile, i capelli dentro il cappuccio, appena in tempo per sentire il mio nome e la mia classe: mi unii ai miei futuri compagni di classe senza parlare, eravamo lì sotto la pioggia come dei deficienti, ma a quanto pare a nessuno degli insegnanti pareva importare. Okay, questa cosa iniziava già male. Però erano tutti così presi dalla nuova scuola, dalle persone nuove, dai nuovi colori e visi che a nessuno fotteva niente se eravamo lì a gelare come degli idioti.
Dopo quelle che mi parvero ore, finalmente una donna sulla quarantina, probabilmente una delle nostre future prof, ci chiamò e ci portò dentro fino alla nostra classe, un rettangolo di dieci metri quadrati dai muri arancioni (già, arancioni) indicandoci i banchi e facendoci cenno di sederci; io buttai il mio zaino sulla prima sedia che trovai libera, nell’ultima fila, e mi sedetti lì aspettando che qualcuno decidesse di condividere la prima settimana di scuola con me. Un paio di minuti dopo, due occhi azzurro ghiaccio mi fissavano dalla sedia accanto alla mia, circondati da un caschetto riccio riccio castano scuro: «Ciao, io sono Silvia, piacere» disse sorridendomi. «Margherita.» «Non conosci nessuno qui?» scossi la testa, ero venuta lì anche per quello. L’anonimato. Ricominciare da capo. Non avevo voglia di tutte quelle etichette che mi avevano dato alle medie, non avevo voglia che fosse qualcun altro a parlare per me, volevo una vita nuova. Certo, mi piaceva scrivere, anche se l’idea di fare greco non mi allettava particolarmente, ma era stato quello il motivo principale per cui ero venuta lì. La nostra prof di italiano intanto, una donna avvizzita dagli occhi che sembravano due spilli, aveva iniziato a spiegarci come funzionava lì, ci aveva dato il nostro orario provvisorio, ci aveva spiegato chi avremmo conosciuto domani e ci aveva fatto fare il giro della scuola.
Sentivo gli sguardi dei miei compagni scivolarmi addosso, avevo passato tutta la mattina ad ascoltare quella svampita che avevo di fianco, che mi faceva una domanda e poi rispondeva da sola andando avanti per mezz’ora buona, mentre io scrivevo frasi di canzoni sul mio diario, lo decoravo e coloravo per renderlo un po’ più allegro di com’era prima. Già prima di iniziare la scuola ci avevo annotato cose, attaccato adesivi, era sempre stata una specie di tradizione, mi piaceva prendere il diario a Luglio e passare il mese e mezzo successivo a scriverci compleanni, incollarci foto e roba del genere. Mi era sempre piaciuto, lo faceva sentire più mio. Per adesso c’era qualche motivo dei The Pretty Reckless e dei Green Day, di Taylor Swift e dei Coldplay; c’era un po’ di tutto, un po’ di me, anche semplici frasi di telefilm che mi piacevano o immagini di attori che amavo. Era un po’ me, quel diario.
Quando finalmente alle dodici suonò la campanella la sentii come una specie di promessa di libertà (ero lì dentro da sole quattro ore e già non vedevo l’ora di uscire),  rimisi il mio astuccio nero e la mia Smemo ultra-decorata nello zaino e feci per andarmene; non avevo guardato in faccia quasi nessuno, tranne la mia vicina di banco, che avevo deciso essere una specie di bambola dagli occhi grandi troppo immatura per anche solo pensare lontanamente di poter diventare mia amica. Stavo per andarmene, ero già davanti all’uscita, le chiavi della Vespa in mano, quando mi sentii tirare per il gomito: ero lì lì per girarmi e urlare  a Silvia che non ne potevo più della sua vocina fottutamente dolce, quando mi accorsi che gli occhi che mi fissavano erano della tonalità sbagliata. Riemersi da quel mare color miele per notare che appartenevano a una ragazza molto alta, con lunghi boccoli neri che le scendevano lungo le spalle: «Tu sei Margherita no? Piacere, io sono Francesca.» aveva un tono che ti spingeva a risponderle, quella vena di comando si sentiva fin troppo bene. «Cosa vuoi da me?» le risposi con lo stesso tono. «Niente, soltanto che hai la stessa aria che avevo io quando sono arrivata qui. Non conosci nessuno, vero?» ora capii perché non l’avevo mai vista; insomma, dei boccoli così scuri non passavano inosservati. Semplicemente perché non era in classe con me.  Scossi la testa, mi ero stufata di passare per quella spaesata che non sa dove si trova o quale sarà la sua prossima mossa. «Non conosco nessuno, ma non mi serve neanche conoscere qualcuno.»
Pensando di averla sistemata feci per andarmene, ma lei mi disse: «Mi piaci, ci vediamo domani mattina a ricreazione alla macchinetta del caffè del primo piano.» poi si allontanò sorridendo, i fianchi che ondeggiavano fasciati da jeans bianchi e le Converse che fischiavano sul pavimento umido. Quando uscii dal portone un ragazzo con gli occhiali alla Harry Potter mi fece un cenno con la mano, che io ricambiai immaginando fosse uno in classe con me. Gran bel primo giorno, devo dire. Non conoscevo nessuno dei miei compagni, l’unica con cui aveva parlato era una specie di bambina molto alta che aveva una voce da fatina dei boschi, ed ero già stata contattata da una ragazza che era già tanto se non si metteva il tacco 12 anche a venire a scuola. Probabilmente, una volta arrivata a casa, acceso il portatile mi sarebbero arrivate le richieste di amicizia dei miei brufolosi compagni di classe che volevano farsi i fatti miei e guardare le mie foto per vedere com’ero prima di conoscerli. Se si può dire che li abbia conosciuti.
Mi infilai rassegnata il casco, maledicendo quella fottuta legge che proibiva l’uso dell’iPod in motorino, e rimpiangendo la mia bella bici rosso scuro che ora se ne stava a fare la muffa in garage da quando la mia bella Vespa l’aveva sostituita. Legai velocemente i capelli in uno chignon fatto male, e li nascosi dalla pioggia, uscii dal cancello arrugginito del parcheggio della scuola e voltai a sinistra, per poi ritrovarmi a terra di fianco ad un ragazzo, mentre il mio mezzo di trasporto era volato poco più avanti. Che cazzo era successo? Probabilmente avevo beccato una buca o avevo slittato sul terreno bagnato, travolgendo quel poveretto; bofonchiai delle scuse e mi rialzai di corsa, il viso rosso rosso, per fortuna nascosto dalla visiera, mentre lui si tirava su a fatica imprecando sotto voce. Cercai di imprimermi bene nella mente i suoi riccioli neri, gli occhi blu come il mare e la sua corporatura, in modo da poter cambiare lato della strada se per caso lo avessi visto, poi partii senza nemmeno aiutarlo ad alzarsi. Era decisamente un pessimo inizio.



Come primo capitolo è un po' cortino e non è un granchè, ma serviva appunto per presentare la protagonista, per presentarmi. Spero vi sia piaciuto e vi abbia incuriositi almeno un po' :3
   
 
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