Autore: Tuccin
Titolo: “I’m gonna be there in the
morning”
Fandom:
Jenny-Nate (vanno da sé i brevi riferimenti ai Chair, ai Chenny, ai Darena e ai Serenate… e ai Dair)
Personaggi : Jenny Humphrey, Nate Archibald, Blair Waldorf,
Chuck Bass. Nominati:
Dan Humphrey e Serena Van Der Woodsen.
Genere:
Introspettivo, romantico, sentimentale.
Rating:
Verde
Note dell’autore: Non avrei mai creduto di ritrovare
ispirazione per questa raccolta di one shot. Spero che l’aggiornamento vi sia gradito. La storia
che segue non ha nulla a che vedere con la precedente, non è una sorta di continuo… ho infatti scelto di raccontare eventi futuri che
rispettano ciò che è successo fin’ora nel tf, mentre
la precedente fic era una “What
if”. In particolare ho fatto riferimento all’ep. 1x08 per l’idea iniziale (troverete diverse citazioni e
parallelismi di quella puntata). Solitamente non scrivo NJ, questa è la mia
seconda storia, non leggo neanche molto su di loro – il fandom
italiano è inesistente quasi – quindi non vi assicuro l’IC e il finale è molto
melenso.
*il
titolo è tratto da una quote di Nate dell’episodio 3x15 - The sixteen years old
virgin
Introduzione:
Jenny però non era mai stata davvero una di loro ed era consapevole
che non bastava l’intervento di un costosissimo coiffeur per renderla tale.
I’m gonna be there in the
morning
Quella mattina Jenny si
svegliò con il profumo dei waffles tra i capelli.
Aveva dormito così bene che si era dimenticata dove fosse. Si rigirò leggera
tra le lenzuola di lino sorridendo beata: non voleva aprire gli occhi e lasciarsi
sfuggire quella piacevole sensazione di intorpidimento, tipica dei primi minuti
in cui ci si ricorda di essere vivi.
Sentì arrivare dalla
cucina il suono confortante dei preparativi per la colazione: il rumore delle
ante che si chiudevano, quello dei piatti e dei bicchieri che si posavano sul
tavolo e il lento scorrere dell’acqua del rubinetto. Dopo qualche minuto, ormai
sveglia, si tirò su dal letto massaggiandosi la testa e ravvivandosi i lunghi
capelli chiari. Non era ancora abituata all’estrema morbidezza della sua
chioma: la preziosa nuance di biondo chiarissimo, unica - le aveva assicurato
il salone Bergdorf - le contornava il capo di un artificiale
bagliore e le faceva assumere la stessa aria sofisticata di ogni principessa di
Park Avenue. Jenny però non era mai stata davvero una di loro ed era
consapevole che non bastava l’intervento di un costosissimo coiffeur per renderla tale. Serena Van Der Woodsen, non proprio una delle
tante, aveva lasciato inalterato il dorato champagne dei suoi capelli e la cosa
non sembrava aver danneggiato la sua immagine anzi, se possibile, le altre
perfette – e anonime – bionde dell’UES la invidiavano ancora di più.
Non erano solo le
bionde ad essere gelose di Serena e non era solo per la sua chioma che veniva
guardata con astio - quando entrava in una stanza sembrava che la sua sola
presenza compromettesse la bellezza di ogni altra donna – ma c’era dell’altro.
Qualcun altro, per essere precisi. Nate Archibald,
nonostante l’aria bonaria, solo vagamente seducente, ma indubbiamente fascinosa
ed elegante, rimaneva il più desiderato rampollo di Manhattan e non era certo un
segreto a chi appartenesse il suo cuore. Serena aveva avuto per anni la completa attenzione di Nate: erano
sempre stati molto legati, un’amicizia elettiva che - a intervalli regolari -
sfociava anche in una relazione tutt’altro che platonica e nessuno avrebbe
scommesso che quel circolo vizioso prima o poi si sarebbe spezzato.
Il rumoreggiare della
cucina si placò gradualmente e Jenny pensò che la colazione doveva essere
pronta. Si stiracchiò pigramente, scese dal letto e si infilò la prima camicia
azzurra, leggermente spiegazzata, che si trovò sotto mano. In cucina non c’era
nessuno, i waffles sul tavolo fumavano coperti di
sciroppo d’acero e di frutti di bosco. Una mora nera era scivolata dal piatto:
Jenny la prese con due dita assaporandola piano. Stropicciandosi ancora gli
occhi, notò una busta bianca appoggiata sulla tovaglia rossa, insieme a un
fiore reciso e a una scatoletta verde scuro. L’inchiostro nero lucido delineava
il nome “Jennifer”, con una grafia semplice e chiara, solo l’iniziale era
svolazzante e frivola, tanto da sembrar scritta da un altro pugno. Incredula
accarezzò con l’indice il velluto del prezioso astuccio. Subito si ricordò di una
sera gelida, di molti anni prima - quando era ancora una semplice ragazza di
Brooklyn - in cui aveva tenuto in mano la stessa scatolina verde scuro.
All’epoca indossava le
ballerine dei grandi magazzini, invece che tacchi vertiginosi rigorosamente
firmati, le piaceva appuntarsi i capelli biondo grano con delle ordinarie forcine
e la sua massima aspirazione era entrare nella cerchia di Blair Waldorf. Era con
quell’intento che si era avventurata fino alla quinta strada con una lettera di
scuse: il freddo le aveva colpito le gambe lunghe, coperte solo da un collant
color carne, mentre l’indecisione e il timore di essere inopportuna la
trattenevano ben lontana dal palazzo dove abitava l’ammirata queen bee. Poi
aveva visto Nate con quell’astuccio di velluto appoggiato sulle labbra e l’aria
pensosa.
Jenny era oltremodo
imbarazzata da quell’incontro, infatti le rare volte che le capitava di dover
attraversare il corridoio del St. Jude, era solita guardarsi in giro circospetta, sperando
di non incrociarlo. Nate rimaneva intoccabile e, anche se il bacio che lui le
aveva dato la sera del ballo in maschera era stato solo un breve e fugace
errore, non le era facile comportarsi come se non fosse mai successo. Il
ricordo di quel tocco la faceva sempre trepidare di vergogna. Quindi, quando
quella sera le era stato proposto di passeggiare insieme, aveva strabuzzato i
tondi occhi azzurri - truccati solo con del leggero mascara - perché non poteva
credere che lui, Nate Archibald, avesse piacere a
trascorre del tempo con lei, invece di precipitarsi al party della sua storica
fidanzata Blair.
Si sedettero su una
scalinata e, quando Jenny si vide porgere l’astuccio, dimenticò l’imbarazzo per
la minigonna color corallo che le scopriva troppo le gambe, per concentrarsi
sulla scatolina verde. Le era stata data nelle mani improvvisamente, chiusa e
presentata solo come “il regalo di Blair per il suo compleanno”. Jenny non
aveva creduto ai suoi occhi quando aveva fissato, sconvolta e ammirata, il prezioso
cimelio di famiglia. L’anello di Anne Vanderbilt
sembrava molto antico e Blair, nei suoi sproloqui, non gli aveva reso
giustizia: era davvero bellissimo. E così lo aveva detto con un filo di voce,
capendo poi, dallo sguardo vacuo di Nate, che lui non era affatto entusiasta di
fare quell’impegnativo regalo. Aveva anzi rivelato di essersi lasciato con
Blair solo il giorno precedente e di essere convinto di aver fatto la scelta
giusta. Quella sera Jenny non aveva fatto altro che annuire, incoraggiandolo a
non fare nulla di cui non fosse sicuro. Lo aveva guardato con il suo viso pulito
e innocente, con le gote arrossate dal vento gelido che la facevano sembrare
ancora più dolce; consigliandogli - con la spontaneità della sua giovane età - di
non seguire la volontà insensata del Capitano. Nate aveva sorriso riconoscente
e non raggiunse mai Blair alla festa.
La seconda volta che Jenny
vide il regale astuccio, non faceva freddo, ma caldo secco. Non era più quella
deliziosa ragazza graziosa e delicata, ma una giovane donna con gli occhi
immoti e le labbra serrate in un’espressione di supponenza, il suo bianco e
luminoso sorriso raramente vedeva la luce del sole. Era la prima volta che
riprendeva contatto con il mondo dell’UES, dopo essere stata esiliata a Hudson
per alcuni anni - tutti quelli che Blair aveva ritenuto necessari perché si
lasciassero il passato alle spalle - e, il suo ritorno in società, coincise per
sua sfortuna – aveva pensato - con il
primo anniversario di matrimonio di Chuck e Blair. I due avevano invitato tutta
la Manhattan che contava negli Hamptons, in una
maestosa villa con giardino, per un informale
brunch.
Jenny era stata
costretta a infilarsi in un tubino color panna e a raccogliersi i capelli dai
riflessi lunari - ancora ispidi e lunghissimi - in una contorta pettinatura. Era
stata Lily a esigere che si desse una sistemata, costringendola anche a
togliersi il confortante e protettivo trucco nero dagli occhi e a lasciarsi
fare una manicure che le aveva reso le mani irriconoscibili. Le unghie corte,
con lo smalto scuro, erano sparite per lasciare il posto a delle lunette
perfettamente curate, di una tonalità chiara. I polpastrelli però erano sempre
feriti dalle punture d’ago, che si procurava cucendo i suoi abiti e, se si
guardava bene, si potevano intravedere ancora gli aloni che il carboncino nero
- usato per disegnare i suoi amati bozzetti - le lasciava sulle dita.
In quella sala gremita
di ospiti importanti, matrone superbe e giovani promettenti, Jenny aveva
desiderato non essere così alta: passava i minuti a guardare gli altri di
sottecchi, fissandosi le ginocchia che uscivano spigolose da sotto il tubino,
con le braccia ostilmente incrociate e spostando il peso da un piede all’altro.
Le scomode Manolo color pesca, sicuramente un fondo della camera-armadio di
Serena, le stavano strette. La sensazione di disagio aumentò alla vista di
Blair Waldorf, soave e bellissima, in un vestito bianco modello impero. I
boccoli lucidi di lacca, ingessati e perfetti, si spargevano lunghi sulle
spalle e i suoi occhi grandi sbattevano vanitosi verso chiunque la volesse salutare.
Jenny fece un passo per andare verso di lei, con l’espressione vuota e insolente
di chi si sente in dovere di fare qualcosa, ma poi vide Chuck arrivare alle
spalle di Blair e si pietrificò riconsiderando l’idea di avvicinarsi.
Bass le aveva sempre
fatto uno strano effetto, fin dalla prima volta in cui l’aveva conosciuto al
party Kiss on the lips e
aveva sentito il suo alito, pesante d’alcol, addosso. Negli anni il cipiglio
scuro si era stranamente attenuato, forse per merito della finezza e del - falso
- candore della sua sposa, ma il suo minaccioso e penetrante sguardo era sempre
rimasto lo stesso. Jenny continuò ad osservare la coppia: la mano sinistra di
Chuck accarezzava, sovrastandolo, il ventre appena accennato della moglie.
Jenny realizzò immediatamente che, quell’aria luminosa che caratterizzava Blair,
non era dovuta solo alla felice vita di coppia, ma soprattutto a quel lieve
rigonfiamento che, delicato, sporgeva da sotto le pieghe di chiffon. Il gesto
di Chuck, chiaramente dolce e premuroso tipico di un gioioso papà, fece
rabbrividire Jenny che ci vide, invece, una sorta di malsana possessività.
I modi di Chuck non
erano cambiati, si muoveva teatrale e superbo, un perfetto magnate. Il suo
sguardo si assottigliava sempre nella buia fessura che Jenny aveva provato a
dimenticare senza successo: aveva visto quegli occhi scuri da troppo vicino e
l’avevano attraversata in modo irreparabile, per sempre. Durante il suo esilio a
Hudson aveva cercato di non pensare a quella dolorosa e folle esperienza,
colorando di nero tutti i suoi bozzetti: il carboncino si consumava a contatto
con la carta porosa e i polpastrelli si arrossavano per lo sforzo. Talvolta,
quando non riusciva a trattenersi, anche delle lacrime di pentimento sporcavano
il foglio. In alcuni momenti credeva che non sarebbe mai riuscita a risalire
dal buco nero in cui era caduta. Quando poi aveva trovato i suoi modelli
imbrattati di vernice rossa, non si era preoccupata poi molto di non poter più
impressionare Tim Gun con il suo talento, piuttosto
rimase scossa dai brividi gelidi che l’avevano attanagliata sulla schiena al
ricordo di quelle stesse striature, le sue, sulle lenzuola del letto di Chuck.
“Jenny” la salutò Blair
d’improvviso, materializzandosi davanti a lei in tutta la sua luce “Eccoti qui”
“Grazie per avermi
invitata” si sentì in obbligo di dire Jenny, sistemando le tartine vegetariane
sopra il piattino da portata. Sapeva che non sarebbe sopravvissuta un giorno di
più nell’UES se Blair non le avesse riservato uno sguardo di benevolenza.
“Volevo chiederti”
ricominciò l’altra con voce zuccherosa e subdola “Se hai visto Dan da qualche parte…”
“No” rispose Jenny
sinceramente colta alla sprovvista, mentendo spudoratamente. Aveva saputo che
Blair e Dan ormai erano in buoni rapporti, si diceva che fossero anche stati
ottimi amici per un periodo. Gossip Girl li aveva descritti come “inseparabili”,
ma Jenny aveva sempre creduto fosse un’esagerazione, quindi si stupì di
sentirsi chiedere del fratello con tanto slancio. Sapeva benissimo dove fosse
Dan, ma lui le aveva pregato di non farne parola con nessuno. Solo qualche
minuto prima le aveva stretto il braccio nervosamente e sussurratole all’orecchio
che non poteva restare a farle compagnia e che se la doveva cavare da sola
almeno per un po’. Jenny lo aveva visto particolarmente agitato nel suo
completo di alta sartoria, un abbigliamento che non era abituata a vedere su di
lui, e aveva deciso di essere discreta e di appoggiarlo: “Lo stavo cercando
anche io” convenne subito dopo, fingendo di guardarsi in giro alla ricerca dei
riccioli impomatati del fratello.
“In realtà cercavo
Serena” chiarì Blair con una smorfia graziosa e un leggero gesto della mano “Ma
se non l’hai vista…”
“No, mi dispiace”
ribadì Jenny secca, facendo qualche passo per allontanarsi da lei.
Blair però non sembrava
voler cedere, le si parò nuovamente davanti: “Piccola Jenny…”
soffiò il suo nome spazientita e quasi sdegnosa “Se sai qualcosa, qualsiasi
cosa, è meglio per te che tu la dica, c’è in ballo molto di più di…”
“Blair” la interruppe
Chuck avvicinandosi alle due “Posso parlarti… solo
per un istante?” chiese sfiorandole lascivamente il braccio. Poi, come se si
fosse accorto solo in quel momento della presenza di Jenny, la salutò con un
rispettoso segno del capo: “Jenny…”.
Jenny deglutì e rispose
al saluto, grata che si fosse portato via Blair e decisa a trovarsi un
posticino tranquillo, lontana dal radar di chiunque intendesse farle domande o
conversare con lei. C’era sicuramente Eleanor da
qualche parte e non voleva rischiare di imbattersi anche in lei. Sopravvivere a
quel brunch si stava rivelando difficile, non che si aspettasse nulla di
diverso, quindi abbandonò il piattino da antipasto su un tavolino e, a passi
svelti, imboccò il primo corridoio.
Fuori, all’aria aperta,
si sentì immediatamente più distesa. Il giardino era tinto di una sfumatura di
verde tenue e rilassante, c’erano pochi cespugli e solo qualche ombra copriva
di chiazze scure il prato appena tagliato. Passeggiando con il naso all’insù e
i tacchi che affondavano nel terreno, si lasciò stordire dal profumo dell’erba e
dai giochi di luce tra le fronde e non si accorse di non essere sola finché non
si sentì salutare.
“Hey
Jenny”.
Seduto su una panchina poco
lontano c’era Nate, la stessa aria pensosa di quella sera gelida a New York e
la stessa scatolina tra le mani. Il viso più squadrato, lo sguardo più deciso, Archibald – se possibile - era ancora più attraente di come
lo ricordasse. Le fece segno si sedersi accanto a lui e Jenny si avvicinò: “Nate!”
rispose pronta, lasciandosi andare a un tiepido e imbarazzato sorriso.
“Avevo sentito che
saresti venuta… è passato molto tempo” constatò con
una punta di malinconia.
Jenny osservò gli occhi
bassi di Nate e l’espressione seria del suo viso. Le sembrava ferito, ma non dalla
sua mancanza. Era sempre stata consapevole di quanto i suoi sentimenti fossero
solo parzialmente corrisposti: non aveva bisogno di lei, era solo una sorella
minore da proteggere e tirare fuori dai guai. Senza contare che lui era
dell’UES mentre lei di Brooklyn, come le aveva chiarito Penelope – ferendola -
un pomeriggio di diversi anni prima. Non che non ne fosse consapevole, ma
sentirselo dire nel proprio loft e con indosso un abito da lei creato, era
tutt’altra faccenda.
Nate aveva quello
sguardo afflitto per qualcos’altro.
“Ora sto bene” disse
Jenny, come se solo in quell’attimo fosse riuscita a scrollarsi da dosso il
peso di quegli anni in esilio e si sentisse in dovere di rassicurare il suo
abituale salvatore.
Nate le sorrise appena,
poi ricominciò a guardare davanti a sé. Nel silenzio del giardino si sentiva
solo il rumore della scatolina verde che passava tra le sue dita lunghe e forti:
era un movimento nervoso e continuo. Sembrava non trovare pace. Dopo qualche
minuto Jenny se la trovò sotto il naso, lui gliela stava porgendo di nuovo,
come quella volta.
“E’ per Serena” spiegò.
A Jenny non serviva
aprirla per indovinare il suo contenuto, se lo ricordava bene, ma si comportò
come da copione. Di nuovo fece scattare il meccanismo di apertura e rivide il
prezioso cimelio di famiglia. Al sole brillava ancora di più, sembrava dotato
di una nuova luce, trasparente e luminosa, come se fosse fatto d’acqua e non di
pietra.
“Wow” si lasciò
sfuggire “L’anello di tua madre” mormorò.
“Pensavo di chiederle
pubblicamente di sposarmi, la amo da sempre e lei dice di provare lo stesso per
me. Dovrei interrompere il brunch…” esplicò Nate con un
veloce gesto della mano, come se avesse dovuto spazzare via qualcosa “Ma non so
dove sia finita… la cerco da un po’” concluse
sorridendo amaramente e alzando gli occhi azzurri, sottolineati da decise
sopracciglia, verso Jenny.
Lei trasalì,
trattenendo il respiro: “Forse non dovrei dirlo…” cominciò
dopo un attimo di esitazione, incapace di tenere la bocca chiusa “Ma penso che
in questo momento sia con Dan, so che aveva bisogno di parlare con lei.
Possiamo cercarli insieme…” propose roteando gli
occhi e cercando di risultare innocente.
“Quando finirà tutto questo?” domandò al vento
Nate, alludendo all’indissolubile rapporto che Serena e Dan portavano avanti da
anni.
“Finirà soltanto quando
tu lo fermerai” aveva suggerito Jenny senza mezzi termini.
Nate la guardò aggrottando
la fronte, poi un’espressione tradita gli si dipinse sul volto. Crollò portandosi
una mano alla tempia, accarezzandosi la testa con disperazione, senza dire più
nulla.
E fu in quel momento
che Jenny si rese conto che il suo esilio lontano dall’UES non aveva sortito
l’effetto sperato: non sarebbe mai cambiata. Sentì un peso posarsi sul cuore,
come quella mattina in cui aveva scattato una foto di suo fratello e di Serena
- addormentati nello stesso letto - e l’aveva mandata senza alcuna pietà a
Gossip Girl. Perché Nate sapesse, perché tutti sapessero. All’epoca non le
importava se qualcuno rimaneva ferito - anche se questo qualcuno era il suo
amato fratello maggiore, oppure Serena, la sorella che non aveva mai avuto - e
si era solo illusa, grazie all’esilio che Blair le aveva imposto, di aver
imparato dai suoi errori. Smascherare una tresca tra Dan e Serena, e mettere quest’ultima
in cattiva luce, non le sarebbe servito per farsi notare da Nate, ma l’avrebbe
fatto soffrire irrimediabilmente, ferendo anche se stessa di conseguenza.
A quel ricordo Jenny smise
di accarezzare l’astuccio, lanciò uno sguardo scuro alla tavola: il pensiero di
non meritarselo la colse di colpo facendola esitare. Si sentì gli occhi
pesanti, come se il nero del trucco che ormai aveva smesso di usare, si fosse
riposato sulle sue palpebre. Cercò di ricordarsi di tutti i passi avanti che
aveva fatto in quegli ultimi due anni: il successo alla Parsons,
l’amore di Nate, le feste di Gala, lo sguardo benevolo di suo padre e del
Capitano Archibald. Persino Anne Vandebilt
aveva cominciato a guardarla con approvazione e non con la solita aria di
superiorità che riservava a tutte le giovani donne dell’UES: gli occhi verde
chiaro di quell’elegante e raffinata signora le sembravano, giorno dopo giorno,
meno glaciali e più disponibili. Nervosamente si apprestò quindi ad aprire la
busta: strappò la carta e il rumore spazzò via i suoi brutti pensieri. Dentro ci
trovò un biglietto quasi bianco e solo due lettere scritte a penna: “Sì” lesse ad
alta voce.
Non fece in tempo a
rendesi conto del significato di ciò che aveva detto, che due mani la
afferrarono per i fianchi, sorprendendola all’improvviso. Un soffio caldo le arrivò
al collo e un profumo familiare la avvolse: “Sapevo che avresti accettato” le sussurrò
Nate con la voce ruvida delle prime parole del mattino.
Jenny rise pensando che
qualcuno doveva aver dato a Nate l’idea di quello strano teatrino, che fosse
stato Dan? Oppure Chuck? Ma Nate non le lasciò altro tempo per pensare: la girò
verso di lui, facendola roteare come una trottola per la vita e, ignorando la
sua espressione indispettita, le diede uno schioccante bacio sulla bocca: “Per
ben due volte ero sul punto di consegnare questo anello a qualcuno, ma tu hai
sempre fatto in modo che non ci riuscissi…” le disse
tutto ad un fiato, sorridendo brillante.
Jenny rimase in
silenzio: credeva che Nate non le avrebbe mai rivolto quello sguardo devoto,
quell’espressione gioiosa e innamorata che solitamente rivolgeva solo a Serena,
illuminato dalla luce che solo lei sapeva donargli. Si era ricordata
improvvisamente di quella volta in cui Blair le aveva detto che nessuno la
amava, forse nemmeno suo padre. Quindi sbatté le ciglia per mascherare
l’emozione e sorrise timidamente, confortata dalla sincera felicità di Nate.
Gli mise le braccia intorno al collo e appoggiò il naso sulla sua guancia, mentre
lui le scostò i capelli arruffati dal viso.
“E’ tuo” disse poi, guardandola
dritta negli occhi. “Sempre che tu lo voglia…”
aggiunse con un po’ di confusione.
“Sì” ripeté Jenny
sorvolando sull’imbroglio del sì strappato con l’inganno. Davanti a quella
incredibile proposta non era incapace di aggiungere altro. Nate tirò fuori
l’anello: lo sollevò tenendolo con il pollice e l’indice e facendolo dondolare
un pochino. Jenny allargò ancora di più il suo ampio sorriso e alzò la mano
sinistra prontamente perché lui ci infilasse il prezioso gioiello.
Con quell’anello, che
tutto l’UES le avrebbe invidiato, Jenny si sentiva davvero una persona
speciale, così, come Nate le aveva sempre detto. E forse quel mondo non era
così vuoto… se ci si sapeva guardare dentro.