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Pioggia
Era stata una giornata calda. Il terreno
appariva sfocato alla vista, ma poteva anche essere per la stanchezza degli
occhi.
Le prime gocce di una
pioggia leggera caddero dalle nuvole addensate su Twilight
Town come una cappa grigia di malaugurio. Dall’erba secca si levò
all’istante uno sfrigolio spento. Era come se la terra stessa sospirasse
– difficile stabilire se di sollievo o di sconfitta.
In un modo o
nell’altro, quella era una fine.
* * *
Cloud Strife
aveva venticinque anni, ed era stanco.
Non era una stanchezza
fisica; nasceva molto più in fondo.
C’entravano
qualcosa gli occhi di Aerith, pieni di lacrime. C’entravano
gli occhi di Tifa Lockhart, sconvolti. C’entravano
gli occhi sbarrati di Zexion Ienzo,
un ricordo tanto tangibile da essere quasi palpabile, e adesso anche quelli di Demyx Mizu.
Quanti altri sguardi
simili avrebbe dovuto sostenere?
Notoriamente, Cloud non era un uomo che si lasciasse coinvolgere
facilmente da ciò che gli stava intorno. Anche con le persone era sempre
stato ermetico; solo Aerith riusciva talvolta, con la
sua aura buona, a penetrare le sue barriere. Eppure quella dannata storia era
diversa dalle altre.
Che si trattasse
dell’interessamento particolare del tenente verso quel ragazzo, o del
fatto che lui stesso avesse ucciso per la prima volta, o delle persone
innocenti che loro malgrado erano rimaste coinvolte, sentiva che non avrebbe
mai superato davvero e del tutto
quella serie di disgraziati eventi.
Sotto la pioggia, si concesse
di ammettere di sentirsi stanco.
* * *
Aerith Gainsborough
teneva lo sguardo basso, perché non aveva il coraggio di guardare la
ragazzina dai capelli neri.
Per l’ennesima
volta si chiese cosa ci fosse adesso dietro quegli occhi liquidi, cosa si provasse
a vedersi crollare il mondo addosso, e se un’anima potesse finire
squarciata e il dolore arrivare a un punto in cui le lacrime e le grida e i
pugni sui muri non erano più niente.
Ripensò al
momento in cui Tifa Lockhart aveva spalancato la
porta del suo ufficio ed era schizzata fuori ordinando a lei e Cloud di seguirla alla villetta; ricordò la sua
espressione quando erano arrivati e avevano visto le porte aperte, le stanze
silenziose, il corpo riverso a terra. Cercò di immaginare come si fosse
presentata a casa della ragazza e le parole che aveva scelto per dirle che il
fratello maggiore che era tornato da lei se n’era andato di nuovo,
stavolta per sempre.
«Voglio farlo
io» aveva mormorato soltanto.
Le vennero in mente gli Ienzo, superstiti senza lacrime di un’altra condanna.
Aveva trovato la
risposta: sì, era possibile ritrovarsi con l’anima squarciata.
Sollevò il capo;
cercò di mettere a fuoco il lungo rettangolo di terra smossa davanti a
lei, ma la pioggia negli occhi non le facilitava il compito.
Poi si accorse che le
gocce si erano fermate: erano lacrime, ancora e soltanto lacrime, quelle che le
offuscavano la vista. Alzò lo sguardo, confusa, e le sembrò di
vedere la mano di Cloud a sorreggere l’ombrello
che la riparava dalla pioggia.
Sospirò e scivolò
con la testa sulla spalla del compagno. Sentì il suo braccio libero
circondarla, prima di rifugiarsi nel buio inutile delle palpebre abbassate.
Sotto la pioggia, si
concesse di accogliere dentro di sé tutto il dolore di qualcun altro.
* * *
Tifa Lockhart non si
curava del fango sui vestiti.
Quando era bambina, i
suoi genitori non la finivano mai di sgridarla per quelle brutte macchie sui
pantaloni, per le corse pazze nella melma, per le battaglie a schizzi di
pozzanghere con i figli dei vicini.
«Ti prenderanno
per un maschiaccio» le dicevano sempre. «Non vuoi diventare una
bella signorina e trovarti un bel ragazzo? Come pensi che qualcuno voglia
uscire con te, se sei sempre conciata così?»
«Io non voglio un
ragazzo!» strillava lei, arricciando il naso o pestando i piedi.
«Io i ragazzi li pesto. E lo farò anche da grande. Anzi, meglio:
li manderò tutti in prigione!»
Suo padre e sua madre, a
quel punto, scoppiavano a ridere.
Oggi le cose non erano
cambiate: sedeva sulla nuda terra sotto la pioggia, lontana dagli uomini, e il
fango non contava niente.
Trovò
semplicemente ridicolo stare
lì a pensare alla sua infanzia mentre assisteva alla fine di
un’altra vita.
Un’altra persona. Quello era stato Demyx.
Uno dei tanti.
Uno dei tanti da cui lei
avrebbe dovuto diffidare. Uno dei tanti che lei avrebbe voluto salvare. Uno dei
tanti suoi fallimenti.
Pensare che aveva
comunque fatto tutto il possibile per lui non le era di alcun conforto. Avrebbe
dovuto parlargli delle sue paure. Quando quel criminale era uscito di galera e
per prima cosa aveva chiesto di Marluxia, lei aveva
avuto un presentimento, una sensazione orribile, ma l’aveva tenuta per
sé. Avrebbe dovuto chiamarlo,
e subito, invece che rimuginare sulla plausibilità di quella sensazione.
Invece no, aveva taciuto, aveva aspettato troppo, e ora davanti ai suoi occhi
c’era solo una nuova lapide piantata prima che fosse giunto il momento
giusto.
Non aveva ancora
compiuto diciannove anni...
Tifa avvertiva una
presenza accanto a sé; la ragazzina dai capelli neri che aveva
accompagnato, avvolgendola nella sua giacca nella vana speranza di fermarne il
tremito, che si era aggrappata alla sua mano come se non avesse avuto altro al
mondo, che adesso era là in piedi al suo fianco, vuota anche delle
lacrime.
Sentiva la sua presenza,
ma le sembrava lontanissima.
Non trovava neanche la
forza di desiderare di superare la
barriera.
Se c’era un limite
a separare la passione dalla follia, lei lo aveva attraversato. Ormai stava
cedendo. Magari quel lavoro era al di là delle sue capacità. Si
soffriva più del previsto, si soffriva troppo...
Sotto un velo
d’acqua – pioggia? Lacrime? – cercò di visualizzare la
lapide, la scritta nera funesta nella pietra chiara, e si disperò perché
dentro di sé non sapeva scegliere le parole per mandarlo via.
Avevamo una cena in sospeso, Demyx.
Sarebbe stato così facile salutarti solo per tornare a casa...
Sotto la pioggia,
nessuno vide l’ombra fredda del suo sorriso disperato.
* * *
Roxas piangeva. Ed era la
prima volta che lo faceva per un estraneo.
Qualcosa lo faceva
sentire ancora fuori posto, sbagliato, in quel cimitero. Lui non aveva mai
conosciuto Demyx; era l’unico dei pochi
presenti a non averlo mai neanche visto. Ma aveva visto lo sguardo tormentato di Axel,
quella mattina, quando aveva ricevuto la telefonata del tenente Lockhart. Aveva sentito il tono spento della sua voce
mentre ne parlava con lui e gli raccontava tutto. Soprattutto, aveva avvertito
fin dentro la pelle ciò che era successo.
C’era qualcosa a
legarlo a Demyx. E non si trattava soltanto della
presenza di Axel. Era una scelta, quella di entrambi:
la scelta di rialzarsi.
La differenza era che
oggi lui poteva andare avanti, Demyx no.
Così, aveva
voluto essere lì anche lui.
Non aveva mai
partecipato a un funerale dopo quello dei suoi genitori. Di quel giorno aveva
un ricordo confuso, pieno di lampi di dolore fitto alle gambe e di un senso
ovattato alla testa, per via dei medicinali e dei tranquillanti che gli avevano
inferto. C’erano tante persone, tantissime. C’era il sole, e in
qualche modo lui aveva trovato la lucidità per odiarlo. C’erano
silenzi e sguardi tristi e mani strette e subito dimenticate.
Questo funerale non avrebbe potuto essere più diverso; il
cimitero era vuoto, il silenzio rotto solo dal ticchettio della pioggia, e ogni
contatto umano e visivo praticamente inesistente. Soltanto le dita di Axel serrate a pugno sulla sua spalla ricordavano
l’esistenza di un mondo che andava oltre la pioggia.
Roxas piangeva. Non poteva
evitarlo.
Era questo che ci si
doveva aspettare, dopo la curva? Era questo che meritava una persona che aveva
ripensato la sua vita pur di proteggere una sorella? Era questa la fine della
storia? Non era giusto.
La mano di Axel si serrò un po’ di più. Roxas chiuse gli occhi e inspirò: l’odore
della pioggia, quello che aveva sempre amato, si filtrò in quello
plastificato e neutro della giacca a vento di lui. Si passò le mani sulle
palpebre e le riaprì.
La ragazza di cui Axel gli aveva parlato era laggiù, accanto alla
tomba. Roxas osservò i suoi lineamenti
regolari e colmi di vuoto, la pelle del viso bianchissima sotto i capelli neri
bagnati. Sentì di capirla come non aveva mai capito nessuno in tutta la
vita, forse neanche Axel.
Conosceva fin troppo
bene quello sguardo: erano gli occhi di un naufrago, in bilico su un precario
pezzo di legno, che si volta a guardare la sua nave affondare nella bufera. Gli
occhi di chi ha perso anche se stesso.
* * *
Axel sapeva che era un
incubo, però non riusciva a svegliarsi.
Ma chi voleva prendere
in giro? Quella era la schifosissima realtà. Una realtà che prima
ti dava l’illusione di poter cambiare e poi, di colpo, ti fotteva in tutta
la sua spietatezza.
E lasciava libero un
pazzo scatenato che già sembrava essersi dissolto nell’aria.
Il tenente Lockhart gli aveva raccontato tutti i particolari quel
pomeriggio, quando si erano visti prima del funerale. Aveva detto che a quel
punto non le importava più un cazzo della segretezza,
dell’etichetta professionale, né di un eventuale licenziamento
– che, anzi, forse sarebbe stato una liberazione. Gli aveva parlato di Saïx, della scarcerazione, dei suoi sospetti quando
sulla bocca dell’uomo era affiorato il nome di Marluxia,
della sua telefonata a Demyx, del nome che lui aveva
sussurrato nella cornetta prima di lasciar cadere il telefono, e anche dei
segni di strangolamento rinvenuti sul suo corpo.
«Axel» aveva concluso, con uno sguardo febbricitante.
«Se anche tu conosci quest’uomo, devi dirmelo. Per il tuo stesso
bene. Mi capisci?»
Lui capiva, ma aveva
scosso la testa.
«Non ho avuto modo
di conoscerlo; era già in carcere quando ho conosciuto... quando sono
entrato nel gruppo. Non posso aiutarvi.»
E fu così che l’uomo nero sparì nella
notte buia e tempestosa...
Neanche a dirlo, si
udì l’eco di un tuono.
La spalla di Roxas sussultò sotto le sue dita, più volte,
piano, come se il ragazzo cercasse di reprimere i singhiozzi. Dischiuse le dita
e lo strinse. Nonostante tutto, era felice di averlo accanto a sé.
«Per il tuo stesso bene...»
E se Saïx,
invece, avesse saputo chi era lui? Quante volte aveva già rischiato di
perdere Roxas? Non credeva di poter sopportare
l’idea che...
Lo sguardo gli cadde
sulla figurina nera accanto alla tomba, e si sentì improvvisamente
egoista.
Senza distogliere gli
occhi da lei, si chinò perché la sua voce raggiungesse
l’orecchio di Roxas.
«Vado a
parlarle.»
Lui tirò su col
naso. Si scostò la frangia zuppa dalla fronte, tirò su le spalle
e annuì. «Ti aspetto qua.»
Axel lo guardò,
premette ancora una volta la mano sulla sua spalla – era lui ad aver
bisogno di quel contatto, lui: perché
lui non sarebbe mai stato forte come Roxas – poi la ritrasse, si strinse nel bavero
della giacca a vento e s’incamminò lentamente tra le pozzanghere.
Senza il contatto di Roxas, sentiva freddo.
Arrivò
all’altezza della ragazza e ancora non aveva deciso cosa dirle. Le si
fermò accanto, imbarazzato; si conoscevano già, ma in quel
momento temeva di non essere altro che un estraneo per lei, per il suo dolore.
Un altro tuono. Il
crepuscolo si faceva sempre più scuro, impossibile vedere le prime
stelle.
Perché durante i
funerali doveva sempre piovere? Gli era capitato di vedere scene esattamente
identiche a quella, nei pochi film e nei pochissimi libri che aveva avuto modo
di esaminare in orfanotrofio. Forse era una qualche metafora di purificazione.
Forse era solo per rendere il tutto più deprimente – come se non
lo fosse già abbastanza il fatto di dover “dire addio a una
persona cara”.
Il piccolo Axel non aveva mai capito la faccenda della persona cara. Lui non aveva persone
care, non aveva parenti, non aveva neanche degli amici. Non c’era nessuno
di cui gli importasse davvero qualcosa. Non prima né dopo di Xion.
Però, adesso c’era Roxas.
Abbassò infine lo
sguardo sulla ragazzina che gli stava accanto in silenzio, lontana un passo o
chissà quanto. Quella era stata la prima persona che avesse mai osato
definire ‘cara’; buffo, davvero buffo che la sua crescita fosse
iniziata con lei e che anche alla fine comprendesse lei.
Una buffa ennesima
coincidenza.
Una cosa che nessuno
avrebbe mai potuto dire con assoluta certezza di poter capire.
In quel momento, per la
prima volta, la ragazza distolse lo sguardo dalla tomba di suo fratello e lo
puntò su di lui.
«Mi sarebbe
piaciuto rivederti in circostanze diverse.»
Era la voce che
ricordava. Disillusa.
Annuì.
«Anche a me.»
Lei fece un sorriso
triste. Axel si chiese dove trovasse la forza per
cambiare espressione. Poi la vide chiudere gli occhi e portare le mani al viso,
la sentì soffocare un gemito.
Da quando era entrata
nel cimitero, non aveva versato una sola lacrima.
Istintivamente, Axel l’attirò e la strinse a sé. I suoi
piccoli pugni gli si aggrapparono al petto mentre la diga si rompeva, e i suoi
singhiozzi gli penetravano nella pelle e scuotevano anche il suo cuore.
Era così piccola.
Sola. Alla deriva.
Proprio come Roxas.
Proprio come lui.
* * *
Quando glielo dissero, si sentì
curiosamente spaccato in due.
Sapere di Saïx, della sua fedeltà che ancora resisteva al
tempo, del suo commovente desiderio di dimostrargli che non era cambiato nulla,
lo aveva toccato nel profondo. Ma se da un lato ritrovava intatto tutto
ciò che lo aveva legato a lui, dall’altro vedeva frantumarsi
definitivamente tutto ciò che era stato con Demyx.
Marluxia rimase a lungo immobile
nella sua cella, rannicchiato sul pavimento, a chiedersi se era davvero giusto
che la storia finisse così.
Lo sapevo che mi saresti mancato, piccolo mio...
Alla fine, sotto il
rumore dolce della pioggia oltre le sbarre alla finestra, si addormentò.
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Disperazione pura. La provai quando scrissi
questo capitolo anni fa e la provo oggi che lo rileggo, per motivi più o
meno analoghi.
Nella realtà
il lieto fine non esiste quasi mai. Era ciò che volevo esprimere. È
passato del tempo, ho accumulato altre esperienze, e ne sono più che mai
convinta.
Ma queste note non sono per deprimervi
quanto sono depressa io; al contrario, vogliono solo ringraziarvi di essere
giunti fin qui, e dirvi che, se vorrete seguirla ancora, questa storia si chiuderà
definitivamente tra due capitoli.
Aya ~