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Autore: cherokee    10/09/2011    4 recensioni
Mi chiamo Nikita Cacciatore, e questa è sempre stata la mia rovina. Perchè, con un nome simile, uno si aspetterebbe come minimo una valchiria alta, bionda e bella come Michelle Unziker, quando io a stento arrivo al metro e sessanta, ho una criniera di dreadlocks rosso ravanello e il sex appeal di Marilyn in bikini. Marilyn Manson. Ci si aspetterebbe un qualche pedigree esotico quando io sono di Cautano, Benevento, da sette generazioni. Ci si aspetterebbe una superspia con un braggio al tugsteno e un bazooka nella borsetta, sempre pronta ad affrontare qualunque avversità, quando io sono riuscita in soli tre mesi a cacciarmi nel guaio in cui ora mi ritrovo invischiata. Anche se, devo ammetterlo, non ho fatto tutto da sola: una mano me l'hanno data anche la famiglia di sbroccati new age da cui mi sono trasferita, senza contare un malefico conte vampiro con tanto di villa arroccata sulla collina, due folli vecchietti innamorati ed un ospizio in piena rivoluzione proletaria. Più, ovviamente, la mia solita dose di provvidenziale sfortuna.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’ospizio di S.Pietro era dall’altra parte della città e sembrava un soufflé di mattoni scodellato nel bel mezzo di un giardino all’inglese.

Ci andammo l’indomani, domenica, accompagnati da Mario il fruttivendolo in cambio di un congruo compenso, sulla sua ape color basilico.

Fu lì, rannicchiati tra casse di pomodori e melanzane, che io ed Helaku avemmo la più intensa delle nostre conversazioni.

“Lo sai che ieri ho fatto due chiacchiere con il conte Dracula?” buttai lì distrattamente, ignara del guaio in cui mi stavo cacciando.

“Ah si?” ribatté lui con forzata noncuranza, irrigidendosi tutto accanto a me.

“Si. Ed avevi ragione, mi ero sbagliata sul suo conto.

Helaku si girò a guardarmi, il viso ombreggiato da un ciuffo di  cicoria verdognola che gli pendeva sulla testa. “Dici sul serio?”

“Sul serio. È ancora più insopportabile di quanto pensassi.”

“Niki!”
“Che c’è? È la verità!”

“Non è come pensi.” Mormorò. Non l’avevo mai sentito parlare con voce tanto accorata. “Secondo me è solo ch ha paura, ecco. Teme che qualcuno gli possa spezzare il cuore.”

“Io lo farei volentieri. Con un paletto di frassino, ad esempio.”

“Tu non capisci.” Sussurrò di nuovo. E fu qui che mi sorse il Dubbio. quel malefico Dubbio, con tanto di lettera maiuscola e tutto il resto, che mi si insinuò sotto pelle e che mi avrebbe tormentato per molti giorni a venire.

Che Helaku, il mio Helaku con lo sguardo vacuo e la bocca a cuore, fosse innamorato di Lefevre?

 

Forse fu a causa del dubbio, o fu il connubio di sobbalzi dell’ape sulla strada dissestata + colazione made in Barbara comprensiva di larve sbollentate nell’aceto e frittelle di crusca con marmellata alle ortiche, ma quando Mario ci depositò davanti all’ospizio ero sul punto di vomitare.

Helaku mi fissò con sguardo interrogativo mentre barcollavo penosamente sul marciapiede, tenendomi lo stomaco con le mani. “Tu-tutto bene.” Balbettai incespicando.

D’altronde eravamo in missione, quindi avrei sopportato stoicamente la nausea e il cuore spezzato pur di raggiungere il nostro obbiettivo.

D’altra parte mai avrei immaginato che una tranquilla gita domenicale all’ospizio mi avrebbe fatto capire quanto Tom Cruise fosse un dilettante, in fatto di missioni impossibili.

 

Perché, come nessuno a parte gli addetti ai lavori sapeva, quello di S.Pietro più che un ospizio era una caserma.

Tutte le infermiere erano corpulente austroungariche dai capelli a spazzola, e mandavano avanti la clinica con ferrea disciplina militare: sveglia alle sei, pochi pasti ipocalorici e a letto prima del tramonto.

Tuttavia nell’instaurare il loro regime non avevano fatto i conti con l’animo battagliero dei vecchietti modenesi, i quali erano andati avanti tutta la vita a birra e sigarette e non avevano intenzione di rinunciare proprio adesso al loro carburante.

La guerra intestina tra le monolitiche infermiere svizzere e i gracili pazienti era andata avanti per anni, logorando gli animi di entrambe le fazioni, fino a quando non era esplosa in un conflitto violento e sanguinario.

E noi, come potevamo non giungere nel bel mezzo di una battaglia?

Fatto sta che, ignari e fiduciosi, varcammo la soglia dell’ospizio con la tranquillità di chi si appresta a entrare… bé, in un ospizio.

E, proprio mentre mi guardavo attorno alla ricerca di gruppi di lettura del Grande Gastby e doli vecchiette intente a ricamare, un vaso da notte (rigorosamente pieno) volò sopra la mia testa e andò a schiantarsi contro la porta.

In quello stesso istante un vegliardo in camicia da notte attraversò l’atrio usando l’asta della flebo a mò di monopattino, inseguito da una colossale valchiria bionda che brandiva una siringa manco fosse la spada nella roccia.

“Pssst!” un ragazzo allampanato fece capolino da sotto il bancone della reception, raddrizzandosi gli occhiali sul naso. “Da questa parte!” invitò, facendoci segni frenetici con la mano.

Non ce lo facemmo ripeter due volte: raggiungemmo il bancone strisciando sui gomiti, modello Christopher Walker ne ‘Il cacciatore’, e ci tuffammo al riparo con lo stesso sollievo che avremmo provato se invece di teiere bollenti e vasi da notte avessero lanciato bombe a mano.

Il segretario, o quello che supponevo fosse il segretario, ci guardò con aria sconvolta e un po’ disgustata. “Chi diavolo siete?” sibilò. Sembrava che avesse paura di parlare troppo forte. “Che siete venuti a fare?”

“Siamo qui per vedere nostro nonno.” Risposi con sguardo di sfida.

Sempre accucciato sotto il bancone il segretario prese un enorme registro e cominciò a sfogliarlo tenendolo sulle ginocchia. “Come si chiama vostro nonno?”

Dio, ma non aveva limiti la burocrazia?

“Armando…” cominciò Helaku prima di bloccarsi, raggelato. Si era reso conto che nessuno di noi due conosceva il cognome di questo fantomatico Armando.

“Ma insomma, si può sapere cosa sta succedendo?” gli venni in aiuto io, interrompendolo. Da poco lontano provenivano urla belluine. “Sembra di essere in Vietnam!”

Il segretario trattenne il fiato mentre una piccola truppa di infermiere in assetto da combattimento attraversava l’atrio. “Rivoluzione.” Rivelò poi in un soffio. “Se non avessi due figli da sfamare sarei scappato di casa, ma… un lavoro è pur sempre un lavoro, giusto?”

“Giusto.” Approvai a corto di parole. “Allora, ehm… noi andiamo.”

Il segretario annuì gravemente, dimentico del registro che teneva tra le mani, e si raddrizzò commosso gli occhiali. “Se non dovessimo rivederci, ragazzi, è stato un piacere conoscervi. Siete giovani valorosi. Che la forza sia con voi.” E con questo si appiattì contro il bancone e cominciò a pregare silenziosamente.

Io ed Helaku ci scambiammo uno sguardo di intesa, balzammo fuori dal nostro nascondiglio e corremmo a testa bassa attraverso l’atrio fino alla scala che portava ai piani superiori.

Salimmo precipitosamente, con le spalle al muro e la pistola puntata in aria. Okay, la pistola no, ma avevo davvero la sensazione che in quel momento mi sarebbe servita.

Il primo piano, evidentemente il refettorio, sembrava un girone dell’inferno dantesco: cibo che volava da un capo all’altro della stanza, tavoli ribaltati a mò di trincee, un vecchietto che si era arrampicato su una sedia e sventolava un fazzoletto rosso gridando: “morte ai porci capitalisti!” Non capii come l’espressione ‘porco capitalista’ potesse calzare ad un’infermiera svizzera ma, cavolo, quella se non altro era la dimostrazione che il comunismo non era ancora morto (anche se ci mancava poco…).

Purtroppo non avevamo tempo per la contemplazione. Afferrai Helaku per un braccio e lo trascinai nel mezzo della battaglia, schivando i piatti di pastasciutta e passato di verdure che i duellanti si lanciavano addosso. C’era addirittura qualcuno che si rotolava per terra, ferito a morte dalle lasagne.

Scavalcai un paio di corpi immobili, probabilmente di qualche vecchietto che si faceva un pisolino, e scorsi due robuste infermiere che trascinavano via un’anziana dai capelli cotonati.

“Dove la porteranno?” mi chiese Helaku, con gli occhi sbarrati e la voce roca. Non ebbi il tempo di rispondere che la situazione non mi sembrava poi così tragica.

“Dannazione! Dannazione!” urlava un uomo che, vestito con un camicie di tessuto non tessuto, lanciava mozzarelle contro le truppe nemiche. “Armando, ci stanno distruggendo! Dobbiamo ritirarci!”

Il cuore mi si bloccò in gola.

Armando era a pochi metri da me, e armeggiava freneticamente con un inalatore per l’asma. Quando ebbe ripreso fiato annuì con espressione tragica. “Torniamo alla base.” Decretò.

L’altro, quello delle mozzarelle, si mangiò le ultime munizioni e corse a radunare le truppe zompettando.

Seguimmo il gruppetto di anziani barcollanti che fuggiva precipitosamente fuori dal refettorio e li aiutammo ad accatastare carrelli clinici e barelle contro la  porta.

Quando si furono un po’ calmati ed ebbero cominciato ad avanzare cautamente lungo i corridoi deserti ci azzardammo a risalire la fila fino a trovarci al fianco di Armando.

Lui ci guardò stupefatto, sbattendo le palpebre. “E voi chi siete?” chiese, con una vocina flebile e roca che non sembrava affatto quella di un capo guerrilla.

“Traditori!” sbottò quello delle mozzarelle, sputacchiando con la dentiera traballante. “Troppo giovani per essere affidabili.”

Armando si voltò verso di noi con le folte sopracciglia arcuate. “E’ come dice?”

“No, nient’affatto.” Mi affrettai ad ansimare io. Stavamo attraversando un lungo dormitorio pieno di letti tutti uguali su ambo i lati. “Siamo qui per lei, in effetti. La stavamo cerando.”

Stavolta le sopracciglia si aggrottarono. Erano molto mobili, rendevano il suo viso un libro aperto. “Da questa parte.” Disse poi, bussando ad una porta mimetizzata nella parete che io non avrei mai notato da sola.

“Parola d’ordine.” Intimò una voce soffocata oltre la porta.

“Ho l’Alzheimer, non me la ricordo.” Rispose Armando, molto professionale.

La porta si aprì silenziosamente, ci lasciò entrare e poi si richiuse dietro le nostre spalle.

Una donna ci venne incontro, spingendo con le mani la sua sedia a rotelle, vestita con una giacca di tela verde militare e stringendo una pipa tra le labbra.

“Generale.” La salutò Armando con un cenno del capo.

Lei ricambiò. “Com’è andata, Armando? Vittime?”

“Hanno preso Mariàpi.” Ammise lui. “E Gualtiero continua a lamentarsi per l’artrite.” Aggiunse, indicando probabilmente Gualtiero, che grugnì qualcosa lasciandosi cadere su una sedia.

Mi guardai attorno nella stanza, pervasa di un piacevole senso di irrealtà che, lo sapevo, mi avrebbe consentito per un po’ di affrontare qualsiasi cosa senza stupirmi.

Dovevamo essere nella famosa ‘base’. L’ambiente era arredato con delle amache costruite con le lenzuola e appese con dei ganci al soffitto, poltroncine dall’aspetto morbido piene di cuscini, un frigo che ronzava in un angolo. Armando lo aprì, rivelando per un attimo il suo straripante contenuto, ne estrasse una bottiglia di vino bianco senza etichetta e ne bevve alcuni sorsi rumorosi.

Quindi si voltò verso di noi asciugandosi la bocca con il dorso della mano e ci invitò a seguirlo in un angolo appartato.

“Allora, che cosa vi porta da me?” chiese con un sorriso nella voce. Aveva degli occhi sorprendenti, di un azzurro cupo e profondo come mare di maggio.

Dato che non sono brava con i preamboli, andai subito al sodo. “Rosita ci porta da lei. Ci ha mandato a cercarla.” Okay, non era del tutto vero, ma non potevo certo dirgli che l’avevamo fatta ubriacare per estorcerle informazioni, giusto?

Con orrore idi le lacrime montare dietro i suoi occhi e velargli lo sguardo. “Rosita…” sussurrò per sua sfortuna, ne avevo abbastanza di vecchietti che piangevano e mi raccontavano dei loro drammi.

“Si, Rosita.” Sbottai. “E’ molto curiosa di sapere perché, dopo tutti questi anni, non si è mai fatto vivo anche se era pochi passi da lei.”

Invece di offendersi, o di cercare una scusa imbarazzato, Armando parve rattristarsi ancora di più. “Ha detto… ha detto proprio così?”

“Si, proprio così.”

Armando tirò violentemente su col naso. “Ma io credevo… è sposata.”

“Non ha un marito.” Osservai io. “Non so cosa ne abbia fatto, però. Potrebbe essere rinchiuso in cantina.”

Lui m’ignorò. “Per tutti questi anni io… ho sempre pensato…” scosse la testa. “Devo andare da lei!”

“Alla buon’ora.”

Mi fissò, smarrito. “Non dire così. Non sai quello che ho passato. Per tutto questo tempo… anche se le ero così vicino… mi sono rinchiuso qui per evitare di interferire nella sua vita, nella sua serenità.”

“Un gesto degno di un gentiluomo, ma può anche finirla di fare il martire. Non mi interessano le sue  motivazioni.”

“Come facciamo a uscire?” intervenne Helaku, prima che potesse replicare.

Il vecchio si girò verso di lui come se lo vedesse per la prima volta. “Effettivamente non ci avevo pensato.”

“Che cosa vuol dire?” intervenni, sentendo già il panico serpeggiarmi tra le viscere. “Non saremo chiusi dentro!”

“No.” mormorò Armando scuotendo la testa. “No, in teoria no. Ma non credo che sia prudente uscire dall’ingresso principale, con quelle tedesche schizofreniche appostate giù in mensa.”

“Cioè, siete liberi di andare e venire?”

“Bé, si.”

“Allora non capisco. Perché questa guerra? Perché, semplicemente, non andate da qualche altra parte?”

Armando ridacchiò. “Ma cosa pensavi, che ci tenessero prigionieri? Semplicemente, molti di noi non hanno un altro posto dove andare. Qui siamo come una grande famiglia. Lo so, suona un po’ troppo come uno di quelle stronzate da boy-scout, ma è così. E in più, questa rivoluzione è stata la cosa più divertente che abbiamo fatto da secoli. Se cambiassimo ospizio, che razza di emozioni ci sarebbero ad aspettarci? Tornei di scacchi e circoli di bocce…” sbuffò sprezzante e in quel momento mi parve di capire il motivo per cui, tanto tempo prima, donna Rosa si era innamorata di lui.

“Perfetto, ma come facciamo a uscire?” ripeté Helaku, che poteva diventare piuttosto monocorde quando era stressato.

Armando rifletté per qualche istante. “Finestra.” Disse poi semplicemente, e quell’unica parola ebbe il potere di gelarmi il sangue nelle vene.

“Finestra?” ripetei, seguendolo mentre si alzava e si avvicinava risoluto al generale.

Lo vidi sussurrarle qualcosa all’orecchio, poi lei annuì, si portò la pipa alle labbra, inspirò una boccata di fumo e lo soffiò via in piccoli cerchi perfetti.

Quindi Armando si avviò verso la porta e noi gli andammo dietro, accompagnati dagli sguardi di pochi vecchietti curiosi.

Ripercorremmo il dormitorio deserto fino ad una finestra che sembrava troppo piccola per far passare un gatto, figuriamoci un essere umano. Dal piano di sotto provenivano tonfi inquietanti.

“Probabilmente non sono ancora riuscite ad uscire dal refettorio.” Osservò Armando, gli occhi che brillavano divertiti. “Bé, se non altro non moriranno di fame.”

“Armando… non avrai intenzione di farci uscire da lì, vero?” ero troppo terrorizzata per apprezzare il suo humor inglese. Ho mai accennato alla mia trascurabile fobia per l’altezza?

“E non saluti nessuno?” aggiunse Helaku, che la sua barbara educazione (letteralmente Barbara… ah ah) rendeva insensibile ai dettagli davvero importante.

“Ho avvertito il generale della mia partenza, e lei ha capito. Detesto gli addii strappalacrime.”

Okay, lo capivo anch’io, ma… “Armando, non avrà davvero intenzione di farci uscire da lì, vero?”

Armando mi lanciò un sorriso sardonico e poi si calò fuori dalla finestra (che ovviamente era larghissima, ma la mia paranoia la faceva sembrare minuscola).

Helaku aspettò che lo precedessi prima di insinuarsi dietro di me.

Mi andò meglio del previsto, nel senso che sotto la finestra non c’era il baratro oscuro e fiammeggiante che avevo immaginato, ma un salto di appena due metri e poi il tetto del palazzo adiacente.

Dal tetto scendemmo in strada con una scala antincendio. Quando finalmente i miei piedi toccarono la superficie stabile del marciapiede dovetti trattenermi per non gettarmi al suolo a baciare il terreno. Mi contenni solo per il dignitoso decoro di Armando che, da bravo quasi-centenario, se ne stava là a sorridere tranquillo mentre io ero tutta un acciacco.

Stavo giusto per rilassarmi quando la porta dell’ospizio di spalancò e ne uscì una mandria di infermiere al trotto.

“Oh cazzo…” mormorò Helaku, esprimendo per una volta il sentimento generale.

Poi nessuno espresse più niente. Tutti e tre ci girammo simultaneamente e ci precipitammo dalla parte opposta, verso la strada principale, dove il fedele Mario ci aspettava a bordo della sua ape giungliforme.

“Fermen, pampinen, tu riporta nonno intietro! Io denuncia te, tu capito?!” sbraitò un’infermiera alle nostre spalle. Ipotizzai che fosse il capo, dato che sembrava la più incazzata e la più simile ad un armadio.

Quando raggiungemmo Mario e montammo goffamente sul retro dell’ape, facendoci largo tra le cataste di casse di agrumi, quello strano ibrido tra essere umano e mobilia si fermò, sconfitto, e ci guardò rabbioso.

L’ape partì con una sgommata da Fast&Fourius e l’ultima cosa che vidi fu l’infermiera che alzava il pugno bellicosa gridando: “Pampini italiani tutti kaput!”

 

Mollammo Armando davanti casa di donna Rosa e ce ne andammo, lasciandogli la privacy necessaria per affrontare il suo amore ritrovato.

Non avrei saputo com’erano andate le cose tra loro ancora per un po’, dato che erano cominciate le vacanze di Carnevale e non avrei lavorato per una settimana.

Peccato che il tempo libero fosse l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento. Le ore passare a far niente misero in luce un sacco di pensieri che mi ero data tanta pena a relegare negli angoli più remoti della mia mente, primi tra tutti Helaku e il suo profilo ombroso, la voce appena soffocata, le frasi sospese che gravavano tra di noi. E tutto quel silenzio, che si accumulava giorno dopo giorno come un muro invisibile, mi soffocava. Vederlo così simile al solito, fragile e allegro e indifferente mi irritava.

E poi c’era Lefevre, che ‘non era come pensavo’. Lefevre odorava di buono, di brughiera, di giornate uggiose nelle lande, passate a leggere dietro una finestra ascoltando la pioggia battere sul vetro.

Poi c’erano Rosa e Armando e il loro amore controcorrente, che resisteva ancora dopo anni di lontananza. E se avesse resistito proprio grazie alla lontananza? Mi sorgeva a volte questo dubbio, ma era facile scacciarlo, perché avevo visto quei due piangere le stesse lacrime.

Poi c’era quel pressante Dubbio amletico a cui preferivo non pensare.

Ultima ma non per importanza, la nerboruta infermiera che minacciava di denunciarmi mi aveva messo addosso un po’ di inquietudine.

Fortunatamente, di lì a poco avrei avuto ben altro a cui pensare.

 

Cominciò quel pomeriggio, mentre io ed Helaku tornavamo dalla coop carichi di buste di plastica, tutte piene della roba più assurda per la cena di Carnevale di Barbara. Alcuni ingredienti mi sembrava illegale perfino venderli in un supermercato.

“Ma i pachidermi non sono animali protetti?” Domandai per l’ennesima volta, esaminando la scatola contenente le orecchie di elefante in salamoia.

“Forse sono di mammut.” Ipotizzò Helaku con una scrollata di spalle.

Mi stavo giusto apprestando a spiegargli che la terra non vedeva più un mammut dai tempi dell’era glaciale, quando la mia attenzione fu attratta da qualcuno che camminava avanti e indietro in un vicolo.

Fu un’immagine rubata di sfuggita, che mi rimase impressa nella retina e mi indusse a tornare sui miei passi per controllare.

Ed effettivamente era proprio lui, Giuseppe Annichiarico, quello il cui padre faceva il giardiniere dai Lefevre prima di venire licenziato. Camminava nervosamente su e giù con le mani intrecciate dietro la schiena. Un altro ragazzo lo guardava con aria preoccupata, spostando inquieto il peso del corpo da un piede all’altro.

“Signò… a faccia mij sta sotto e per vuost, ma…” cominciò quest’ultimo avvicinandosi di un passo, impaurito.

Helaku mi guardava, confuso.

“Che c’è? Voglio guardare!” Mi giustificai io sulla difensiva,ù.

“Voglio guardare anche io, ma non capisco una parola di quello che dicono.”

“Oh…” bé, effettivamente parlavano in Napoletano stretto. Anche io, che ero di Benevento, faticavo a capire alcune parole. “Dice che la sua faccia è sotto i piedi di Giuseppe. In gergo, è come dire che sa chi comanda.”

“Che gergo?”

Lo zittii con una scrollata di spalle per non perdermi il resto del discorso.

“Ne ho abbastanza di stà tarantella, Pasquà.” Sbuffò Giuseppe, in italiano ma con accento molto marcato. “Quann putit ij?”

“Gli chiede quando può andare.” Tradussi in un sussurro.

“Nun o’sacc… domani pomeriggio?”

Giuseppe annuì, poi gli puntò un dito contro minaccioso. “Pasqualì, me raccumann! Arricuord, a faccia tua è calamita e paccheri, e a panza tua è fodera e curtiell!”

Rabbrividii. “Dice che la sua faccia è calamita per gli schiaffi e la sua pancia come una fodera di coltello… Helaku, questo è un codice mafioso! Un po’ antiquato, ma ho sentito le stesse parole uguali in un mucchio di film di serie B!”

Lui si girò verso di me con gli occhi sgranati. “Dici che quei due sono mafiosi?”

“Mi mordicchiai il labbro e tornai a guardare Pasquale e Giuseppe. Mafiosi? A diciassette anni? Ma d’altronde, se uno è precoce è precoce…

“E nun ve date penzieri… ce pienz’io, a stù guagliuncello che ha disonorato a famiglia vuost.” Stava rassicurando Pasquale servizievole.

“Non ti preoccupare, ci penso io a questo ragazzo che ha disonorato la tua famiglia.” E mentre quelle parole – che sembravano stranamente innocue se pronunciate in italiano – uscivano dalla mia bocca, collegai: mafia. Annichiarico. A famiglia vuost. Guagliuncello.

Martin Lefevre.



NOTA DELL'AUTRICE: mi sono divertita a scrivere questo capitolo. Ho pensato parecchio a quei tragici film di guerra in cui sono sempre tutti coperti di fango e l'eroe di turno si vede morire in braccio il migliore amico... e ho cercato di trasporre quello spirito tra i vecchietti di S.Pietro xD spero che il capitolo vi strappi una risata...
Un grazie ENORME a tutti quelli che hanno recensito gli scorsi tre capitoli... ho già risposto singolarmente quindi mi sembra stupido rifarlo qui, anche se vorrei. ma vi ringrazio di nuovo perchè mi fate davvero felice :)
Dopo questo mancano soltanto tre capitoli, che per me e per il mio animo nostalgico è un po' come dire che la storia è finitiùa... sig :(
Bà, non so più che dire... se il capitolo vi è piaciuto, recensite! anche se non vi è piaciuto... insomma, fatemi sapere che ne pensate! Un bacio.
  
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