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Autore: NeverThink    11/09/2011    2 recensioni
Ferma, lì, persa nei ricordi, guardavo la sedia a dondolo, rovinata dal tempo e dall’umidità. Ferma, immobile, fredda.
L’immagine dai caldi e vividi colori fu rimpiazzata da quella realtà cruda, desolata e piena di struggente dolore e malinconia.
Mi avvicinai alla sedia a dondolo e la sfiorai con i polpastrelli. Sentii le venature del legno sotto la pelle.
Sorrisi, consapevole che non appena mi sarei rifugiata in camera, circondata dalle pareti che un tempo furono la sua dimore segreta, sarei scoppiata a piangere.
«E tu chi sei?»
«Importa?»
«Quello è il mio posto.»
«Oh. Non vedo scritto il tuo nome.»
«E’ il mio posto da sempre. Lo sanno tutti.»
«Ed io ti ripeto che qui sopra non c’è scritto il tuo nome. Finché non trovo scritto il tuo nome io non mi muovo di qui.»
Il sorriso, prima o poi, torna.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.

 

 

Capitolo diciannove.
Lilian.



Vorrei tu me lo permettessi.
Ma che diavolo gli era preso? Come gli era venuto in mente di dire una cosa del genere? Cos’ero, un altro premio? Un’ulteriore tacca sulla cintura?
Non ti sto impedendo di entrare. Lo so. L’ho detto davvero? Quale razza di cretina direbbe mai una cosa del genere? Un’adolescente innamorata, certo. Ed io non lo ero. No. Ero una ragazza matura, non innamorata di una ragazzo tanto bello da far perdere qualsiasi cognizione di causa, dai profondi e magnetici occhi neri.
Andiamo, Lily, che ti prende!, mi ammonii prima che la campanella suonasse, mettendo fine alla lezione di inglese.
Mi stava guardando, lì, dal suo posto accanto alla finestra? Dovetti usare tutta la mia forza di volontà per non voltarmi a guardarlo, con le gote intinse di rosso.
Imbarazzata dai miei stessi pensieri scattai in piedi quando la campanella trillò e uscii dall’aula in fretta, cercando di mimetizzarmi fra gli studenti, ringraziando la mia piccola statura. Volevo evitare, in quel momento, qualsiasi contatto con David, troppo emotiva e imbarazzata da me stessa, da quell’irrazionale e spaventoso desiderio di immergermi nel cielo notturno dei suoi occhi.
Mi diressi a passo svelto verso la sala mensa, senza passare nemmeno dall’armadietto. Con il libro sotto il braccio e lo zaino sulla spalla zigzagavo fra gli studenti, fino a che, sulla soglia della sala mensa non mi scontrai con un qualcuno, ed il mio libro cadde. Solo una volta averlo recuperato mi resi conto con chi mi ero scontrata.
«Ciao!» esclamò James.
«Ciao.» risposi sistemandomi lo zaino in spalla. Avrebbe potuto aiutarmi, mi aveva fatto cadere il libro, poteva anche mostrarmi un minimo di gentilezza e cortesia. Quel suo mancato gesto, mi irritò appena, non tanto da permettermi di mostrarlo.
«Sam ed Aaron sono già seduto al tavolo.»
Annuii. «Okay.»
Sorrise e insieme ci dirigemmo al tavolo in fondo alla sala. Nel vedere la fila di persona in attesa del pranzo, sbuffai.
«Anche tu già stanca della scuola?»
Mi voltai a guardarlo, alzando un sopracciglio. «Come?»
«Sembra che tu sia già stanca di venire a scuola. Ti capisco perfettamente. Sono qui solo perché sono costretto.» rise.
Feci un risolino isterico. «Già.» aggiunsi roteando gli occhi e guardando dalla parte opposta.
Rise ancora.
«Cosa c’è?» chiesi corrugando la fronte.
Eravamo a un paio di metri dal tavolo, ormai. Sam ed Aaron ci guardavano sorridendo. James mi afferrò per un braccio, costringendomi a voltarmi verso lui.
«Ti va di uscire con me?»
Sgranai gli occhi. «Cosa?»
«Ti va di uscire con me?»
Non sapevo cosa dire. No, in realtà, lo sapevo: certo che non volevo uscire con lui! Me lo chiese, lì, vicino al tavolo a cui sedevano Sam ed Aaron, che di certo avevano sentito. Boccheggiai non sapendo cosa rispondere, cercando un modo gentile e cortese per declinare, senza essere sgarbata, come troppo spesso mi accadeva nell’ultimo periodo.
«D-devo andare in bagno.» farfugliai voltandomi e scappando dalla sala mensa, diretta la bagno. Mi sciacquai il viso, rinfrescandomi la pelle accaldata.
Perché? Perché mi aveva chiesto di uscire? Perché le persone non facevano che complicare le cose?
Cosa gli avrei detto ora?
Nella mia testa piano l’immagine del viso di David si fece chiara, un’immagine che mi fece stringere con forza i bordi del lavando e scuotere il capo per l’irritazione, quasi potessi liberarmene.
Perché avevo pensato a lui? Cosa mi stava succedendo?
Chiusi un attimo gli occhi, ignorando le ragazza che mi guardavano quasi impaurite, e feci un respiro profondo, cercando di calmarmi.
Quando gli riaprii compresi che non avevo alternativa. Dovevo dire a James che non sarei uscita con lui. Non era il mio tipo. E probabilmente non lo sarebbe stato mai e non perché non fosse attraente. No, a volte, c’era qualcosa nel suo sguardo che mi faceva venire i brividi.
Prima di andare in sala mensa decisi di passare dal mio armadietto e lasciare i libri superflui, poi m’incamminai nei lunghi corridoi poco affollati. Quando entrai nella grande stanza la fila per il pranzo si era esaurita, così non dovetti aspettare molto. Quel giorno c’era la pizza. Ne presi un pezzo, insieme ad una soda, e mi diressi verso il tavolo al margine della stanza, accanto alle finestre. Mentre camminavo con lo sguardo chino, mi sentivo osservata, certamente non era così, ma quella sensazione mi accompagnò per tutto il tempo.
«Ehi, Lily, cominciavo a preoccuparmi!» esclamò Sam mentre mi sedevo accanto a lei, di fronte a James, che mi fissò senza battere ciglio.
Sorrisi.
Mentre mangiavo il mio pezzo di pizza, Sam ed Aaron mi rivolsero qualche domanda al quale risposi a monosillabi. James non parlò, rimase a guardarmi. Evitavo il suo sguardo, sentendomi terribilmente a disagio. Mi muovevo spesso sul posto, irritata da quel suo odioso comportamento.
Mentre masticavo l’ultimo boccone di pizza alzai lo sguardo dal mio vassoio, posandolo oltre la figura di James, incontrando un viso familiare che per un momento, per qualche assurdo motivo, mi tranquillizzò.
Al centro della stanza, seduto con un ragazzo ad altre tre ragazze, sul viso di David vi era dipinto un sorriso sghembo. Sorrisi a mia volta e certamente quel mio flebile sorriso non sfuggì a James che si voltò, torvo.
Grugnì. «Maledetto Smith. Hai ceduto anche tu al suo bel faccino.» sputò incrociando le braccia al petto e guardandomi.
M’accigliai. «Scusa?»
«Mi hai sentito.» ribatté.
«Va al diavolo, James.» sbottai scattando in piedi. «Tu non mi conosci. Non sai niente di me.»
Sentii la mano di Sam sfiorarmi il braccio. «Calmati, Lily.»
Non l’ascoltai, continuai a guardarlo con aria di sfida, ma dovetti mettere fine a quel contatto perché la campanella suonò.
Sbuffai d’irritazione e afferrai il mio zaino. «Ci vediamo in classe, Sam.» sibilai camminando verso l’uscita e lasciando il vassoio.
Le parole di James non avevano fatto altro che irritarmi, dopo avermi messa tremendamente a disagio. Come aveva potuto? Sam era l’unica persone con cui avevo un rapporto che poteva essere –anche alla lontana- definito amicizia. E amici di Sam erano James e Aaron. Loro pranzavano insieme… ed io non volevo finire ad un tavolo vuoto o in cortile al freddo.
Mia nonna avrebbe proposto David, ma non potevo pranzare con lui, sulla difensiva com’ero. E, in fin dei conti, era ancora il mio nemico di banco. Non potevo socializzare con la fazione avversa, anche se, in fondo, non volevo ammetterlo a me stessa, stava già capitando.


«Lily, mi spiace tanto per prima.» sussurrò Sam.
Eravamo a lezione di algebra e il professore era di spalle, scriveva equazioni sulla lavagna. Mi allungai con il busto verso di lei, che si trovava al banco dietro al mio.
«Non importa.»
«James è fatto così. Rovina sempre tutto.»
«Tranquilla.»
«Ascolta… ti va di uscire domani sera? Solo tu ed io.»
Mi voltai quel che bastava per guardarla in volto. «Okay. Mi farebbe piacere.» risposi sincera. E, certamente, avrebbe fatto felice mio padre ed i miei nonni.
Sorrise. «Bene.»
«Ci vediamo alle otto, al molo.» sussurrò prima di tornare a seguire la lezione.


Quel giorno saltai l’ora di ginnastica. Era l’ultima e non avevo voglia di saltellare a destra e sinistra rincorrendo una palla da basket. Così, mi rintanai sotto un albero, quello ai confini del parco della scuola, nascosta dalle siepi. Se fossi tornata prima a casa avrei trovato mia nonna intenta a cucinare e, probabilmente, mio padre che usciva da scuola. Non mi andava di mentire, di trovare una scusa per il mio arrivo in anticipo, così rimasi lì seduta, con il libro di letteratura inglese, cominciando a scrivere un breve saggio assegnatoci su Keats.
Cominciai a scrivere qualche riga, ma presto mi ritrovai a scarabocchiare sovrappensiero, pensando ad un paio di occhi color della notte. Quando me ne resi conto, immediatamente, scossi il capo, come a volerli eliminare dalla mia fervida immaginazione. In quella frenetica mattinata mi stava capitando troppo spesso, forse la pazzia, o qualche forma di demenza, si stava impadronendo di me. Stavo perdendo il senno, il lume della regione. Quando alzai il capo incontrai un paio di occhi così diversi da quelli che, quasi, mi fecero rabbrividire.
«Ciao, baby.» mormorò con voce roca, quasi ghignate.
«Ciao, James.» cercai di mantenere il tono di voce più neutro possibile. «Come puoi ben notare, ora sono impegnata. Ci si vede.» mi limitai a dire, ritornando a guardare il libro, fingendo di immergermi nella lettura.
«Hai saltato la lezione?» chiese.
Mi morsi l’interno della guancia. «Uhm-uhm.», grugnii senza alzare il capo.
«Anche io. Perché sei qui tutta sola?»
Non risposi subito, dopo alcuni istanti alzai il capo e lo guardai inespressiva. «E tu perché sei qui?»
«Perché ci sei tu. Mi dispiace, per prima.» rispose con un sorriso beffardo sul viso pieno.
Deglutii. «Devo studiare, James.» ripetei.
C’era qualcosa nei suoi occhi, non saprei dire cosa, ma l’unica cosa che in quel momento mi sovveniva alla mente era una lucertola. Sì, una lucertola. James mi ricordata una lucertola con la pelle di una rana. Quell’immagine mi fece rabbrividire e grugnire di disgusto, tutto questo non gli sfuggì.
«Cosa c’è, ti disgusto? Per questo non vuoi uscire con me?» chiese inclinando il capo e corrugando la fronte stretta.
«Scusa, devo andare.» dissi afferrando la mia roba e alzandomi.
Lui mi afferrò per un braccio e mi costrinse a voltarmi verso di lui. «Non hai risposto alla mia domanda, Lily. Ti disgusto?»
«No.» soffiai guardandolo negli occhi, le gambe non rispondevano all’impulso di andar via.
«Lasciami il braccio, mi fai male. Devo andare.»
«Dobbiamo andare.» disse sorridendo e lasciandomi il braccio. «Vengo con te.»
«Non puoi.» mi affrettai a dire camminando verso la scuola a passo svelto.
«Perché?»
«Ho lezione.»
«Bugiarda.»
«Devo studiare.»
«Bugiarda.»
Mi voltai, lasciandomi assalire dalla rabbia che, per un attimo cancellò la paura. «Dio, James, lasciami in pace!» strillai allargando un braccio al cielo.
Sorrise nello stesso modo di prima, come se le parole appena pronunciate non avessero importanza, come se non le avesse nemmeno udite. Mi guardava…
«Ehi, cosa succede qui?», nell’udire quella voce provai un’improvvisa ondata di tranquillità, fu come respirare dopo aver trattenuto a lungo il fiato e solo quando ebbi una leggera vertigine mi resi conto di aver davvero trattenuto il fiato. I miei muscoli di distesero.
«Non servi qui, Smith.» disse con cattiveria James, mentre io mi voltavo a guardare i suoi occhi scuri. Incontrare il suo sguardo fu un sollievo, un’irrazionale (in realtà, assolutamente razionale) sollievo. Esattamente come in precedenza mi era accaduto in sala mensa.
«Non servo qui, Lily?» chiese lui inclinando il capo di lato e alzando un sopracciglio.
«Ciao, James.» dissi dandogli le spalle e avvicinandomi a David.
«Ci vediamo in giro, baby.» ridacchiò lui prima di allontanarsi.
«Uhm.»
Alzai lo sguardo sul viso di David. «Cosa c’è?»
«Conosco James da un po’. Non i è mai stato simpatico… credevo fosse innocuo.»
Spalancai appena gli occhi. «Cosa intendi dire?» chiesi con una punta di preoccupazione, che non gli sfuggì.
Sorrise. «Tranquilla, Hemsworth, ci sono io a proteggerti.»
Rotei gli occhi e cominciai a camminare verso l’albero più vicino. James aveva ragione, non dovevo andare da nessuna parte, era troppo presto per tornare, volevo solo fuggire da lui e dalle sue movenze di lucertola.
«E’ tutto okay?» chiese premuroso. Quel repentino cambio di voce, quell’avvolgente tono che m’infuse sicurezza, mi fece fremere.
«Sì.», lo dissi guardandolo negli occhi, mentre mi sedevo incrociando le gambe. «Adesso mi pedini?»
Rise, sedendosi sull’erba, di fronte a me. «Ho saltato la lezione di ginnastica.»
«Non siamo nello stesso corso.»
Sorrise. «Lo so. Abbiamo professori diversi però.»
«Oh.» mormorai portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«E’ una cosa che fai spesso.»
«Cosa?»
«Portarti i capelli dietro l’orecchio.»
Deglutii, sperando non si accorgesse che era segno d’imbarazzo. «Quindi, abbiamo avuto entrambi l’idea di saltare la lezione di ginnastica e di venire qui a passare il tempo?» chiesi inclinando il capo.
Fece spallucce. «Esatto. Non ti pedino.»
«Uhm… okay.»
I suoi occhi mi scrutarono e non potei, in quel momento, non notare quanto fosse attraente, quanto il suo viso, nonostante l’antipatia nata il primo giorno di scuola, fosse rassicurante. Era strano, non mi era mai capitato prima di allora. Era come se, lentamente, come la lava che cola lungo un pendio, si stesse insinuando nella mia testa, bruciandomi, divorandomi. Quasi non riuscivo a rendermene conto. Un processo così lento da non sembrare nemmeno reale.
«Non mi sembri il tipo da saltare una lezione di ginnastica. Fai jogging al mattino e chissà cos’altro ancora.»
«Surf.»
Schioccai la lingua. «Appunto.»
Sospirò. «Evito una persona.»
«Una ragazza.» dissi scrutando il suo viso.
Fece una smorfia. «Una pazza.»
Risi. «La tua ragazza?»
«No. Una pazza.»
In qualche strano modo, mi sentii sollevata. «Così, David Smith scappa da una ragazza.»
Si grattò la nuca. «Se vogliamo porla in questo modo… sì. e tu, invece?»
«Non avevo voglia di saltellare facendo rimbalzare un pallone.»
«Cattivo sport il basket.»
Feci un risolino abbassando appena lo sguardo, quando lo rialzai incontrai il suo. «Non ne avevo semplicemente voglia.»
«E’ un modo per dire che la coordinazione mano occhio non è il tuo forte?» mi stuzzicò.
«Oh, lo è invece. Sono molto coordinata… è solo che sono più topo da biblioteca che ragazza sportiva.»
Sorrise. «Sei la prima a cui lo sento dire.»
«Beh… c’è sempre una prima volta, David.» mormorai incapace di scostare lo sguardo dal suo viso.
«Sì, direi di sì. Ultimamente c’è così tanto di nuovo.», negli occhi una strana luce.
Le parole che mi uscirono poco dopo, non riuscii a fermarle. «Pensi davvero quello che ha detto questa mattina?»
Non rispose subito, per attimi eterni i suoi occhi rimasero fissi nei miei, potei avvertirli accarezzarmi l’anima. L’intensità di quello sguardo, mi spaventò. Cosa stava succedendo?
«Ogni singola parola.»
«Sono un casino, David.»
Non rispose, i suoi occhi indugiarono nei miei.
Dischiusi la bocca, mentre il respiro accelerava appena. La mia vita stava cambiando, era cambiata. Era tutto nuovo, a volte doloroso, a volte triste, a volte senza colore. Mi resi conto che il quel momento, per un qualche scherzo del destino, la mia vita era appena colorata. Non aveva tonalità lucenti, intorno a me il verde dell’erba, il marrone degli alberi erano slavati, ma pur sempre appena colorati. Non era tutto grigio, come quando ero arrivata… no, non lo era affatto. Quell’improvvisa consapevolezza mi fece paura. Una strana sensazione di soffocamento. Non riuscivo quasi a muovermi, dovetti concentrarmi il più possibile per alzarmi dall’erbetta fresca e umida.
«Dove vai?»
«Ho… ho… bisogno di andare in bagno.» farfuglia allontanandomi da David… allontanandomi, inconsciamente, da me stessa.

 

Tossi l’ultima volta e tirai lo sciacquone, prima di uscire dal piccolo bagno dalla porta nera e le mattonelle lucide. Arrancai ai lavandini del bagno della scuola, con una mano poggiata sullo stomaco dolente. La gola mi bruciava, la testa pulsava di dolore.
Poggiai le mani su uno dei lavandini e aprii l’acqua per sciacquarmi la bocca ed il viso. Mi asciugai con la carta dei contenitori appositi, situati accanto agli specchi e mi guardai in uno di essi. Ero pallida, più pallida del solito e ciò che vidi non mi piacque affatto.
Cosa mi stava accadendo?
Non riuscivo a focalizzare chi fossi, perché fossi lì e quali eventi mi ci avevano portato. Era come se fossi giunta lì senza nemmeno rendermene conto. Non era come se avessi camminato per inerzia.. come se… una forza, più potente di me e della mia volontà, mi avesse attratto a sé. E fu in quel momento, in quel preciso istante che quasi potei avvertire la presenza di mia madre, la sua mano sfiorarmi i capelli, il suo profumo inondarmi i polmoni. Fu come se fosse lì, chiusi gli occhi per imprimere quella sensazione inaspettata nella mente, intrappolarla nel mio cuore e  non lasciarla più andar via.
Mamma…

«I cambiamenti, piccola mia, possono essere di due tipi. Possono essere tanto radicali che tutto è diverso, subito, tanto velocemente da togliere il fiato. Oppure così costanti, così lenti, che non senti nessuna differenza, che ti accorgi che tutto è cambiato solo quando tutto cambia.»

Aprii gli occhi di scatto prima di correre nuovamente nel piccolo bagno.

 

Quando uscii da scuola, mi sentivo ancora lo stomaco sottosopra e di certo la situazione non migliorò quando, scendendo le scale e non notai la figura seduta sugli scalini.
«Lily!» esclamò mentre avanzavo nel parcheggio.
Mi fermai e chiusi per un memento gli occhi. Mille emozioni contrastanti m’investirono, dandomi alla testa. Sospirai, prima di voltarmi.
«David.» dissi abbozzando un sorriso.
«Sei sparita prima. Tutto okay? Non hai una bella cera.»
«Sì… ehm… tutto okay. Ho solo un po’ di mal di stomaco.»
Si avvicinò a me, con espressione preoccupata. «Mia madre è una farmacista. Se ti va puoi passare da casa… ho tanti di quei medicinali da far concorrenza ad un ospedale.» disse sorridendo.
Mi morsi l’interno della guancia. «No, tranquillo, è tutto okay.»
«Ti accompagno a casa.»
«Non ce n’è bisogno.» mi affrettai a dire.
«Sì, invece. Sei di strada.»
«Meglio se prendo un po’ d’aria.»
Cercavo ogni scusa per evitare di rimanere sola con lui nell’abitacolo dell’auto. Anche se, una piccola parte di me, fremeva per l’impazienza di salire su quell’auto… per tornare prima a casa, ovvio.
«Non credo tua nonna me lo perdonerebbe.»
Alzai un sopracciglio. «Non è detto che debba saperlo.»
Si passo una mano fra i capelli. «Beh… non sarei io a perdonarmelo. Non posso lasciarti andare da sola in queste condizioni. Abiti a pochi metri da casa mia.»
«Ti ho detto che sto bene.» sbuffai, leggermente irritata.
«Sei più bianca del solito. Sembri fatta di panna.» disse incrociando le braccia al petto. «Avanti, ti accompagno.»
Scossi il capo. «Non mollerai mai, vero?»
«Dovessi seguirti con l’auto, non ti lascerò andare da sola. Se svieni ci vuole un prode cavaliere a soccorrerti.»
Sbuffai, riducendo gli occhi a due fessure. «Ti odio.»
Rise. «Anche io, Lily.»

 

*
Salve gente, eccomi qui… di nuovo.
Purtroppo scrivere in questo periodo è un’impresa. L’estate è sempre frenetica e fra mare ed amici il tempo è sempre poco. Ora, si comincia a studiare e la sera, in teoria, dovrei riuscire a recuperare questi due mesi di “silenzio”.
Grazie a voi che, nonostante tutto, continuate a seguire la storia.

Un bacio, Panda.

 

   
 
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