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Autore: Aleena    12/09/2011    2 recensioni
Due fazioni, diverse tra loro come il Giorno e la Notte, un'antica tregua infranta.
Due eroi.
Due mondi divisi dalla luce.
Benvenuti nelle Terre Rare.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Takrin correva scompostamente, la lunga veste sollevata a lasciar libere le gambe. Trafelata, la piccola jalil aveva le mani e le ginocchia sbucciate, laddove il suo sangue denso era sgorgato a contatto con la pietra liscia della Città. Due volte era caduta, Takrin: la prima, per colpa delle gonne pesanti, la seconda nei pressi del fiume, quando il frastuono si era fatto più intenso.
Cèlia era stata la prima ad avvertire quei rumori che Takrin, i sensi schermati dalla Mutazione, non era stata in grado di percepire: era il tramonto, e l’Arcimaga era troppo occupata a valutare la distanza dall’Accademia e la lunghezza delle ombre rossastre, tanto che aveva sentito il rombo cupo solo quando i due inseguitori erano ormai troppo vicini e la Notte troppo incombente perché Takrin si potesse fermare e castare un incanto. Cèlia aveva emesso un gridolino isterico, prima di sollevarsi le gonne quel tanto da evitare che l’intralciassero; nonostante questa precauzione, era scivolata nei pressi del Ponte di Mezzo, ed aveva allungate le mani verso Takrin, rischiando di trascinare la jalil dritta nel fiume assieme a lei.
«Corri, stupida» le aveva sibilato l’Arcimaga con astio, pur sapendo che a nulla valeva tenere la voce bassa: le avevano viste, ed ormai l’alone rossastro del tramonto sbiadiva.
L’unica cosa che importava a Takrin era di mettersi al sicuro: quando fosse stata in grado di fermarsi, avrebbe attinto al suo potere, e l’indomani mattina i servi della Città avrebbero ripulito ciò che restava di quella feccia che osava minacciarla. Li avrebbe fatti soffrire, oh, eccome. Tutta la Notte li avrebbe sentiti gridare.
La distanza fra le due femmine e gli inseguitori era diminuita, ma Takrin li aveva condotti dove sperava: sentì le imprecazioni di uno dei due –un nano, a giudicare dall’accento- volare lungo lo stretto vicolo nel quale lei e Cèlia si erano infilate.
«Dovranno… seguirci a piedi» ansimò Takrin tenendosi un fianco e maledicendo quel corpo Trasfigurato troppo lento e debole. Cèlia non le rispose: aveva le iridi dilatate, gli occhi spalancati pieni di panico ed un sussurro rauco sulle labbra, simile ad un singhiozzo, che lasciò andare con disperazione accorgendosi di ciò che era loro dinnanzi. Un muro di mattoni rossi, qualche piccola porta da retrobottega, finestre sbarrate troppo alte: un vicolo cieco.
«No» boccheggiò Takrin, girando rapida la testa e sentendosi stupida, così simile ad un animale in gabbia mentre i due inseguitori scendevano dalle moto, incamminandosi verso di loro; uno dei due, quello alto con tutta probabilità, rideva.
Cèlia si mise a piangere forte, slanciandosi contro il più vicino dei piccoli usci e tempestandolo di pugni, invocando aiuto. Takrin le rivolse un’occhiata sprezzante quindi fece un passo indietro, socchiudendo gli occhi: non l’avrebbero avuta così facilmente. Dimentica di tutto, cercò di immergersi in quella rada corrente magica della Notte, ma un sibilo acuto –il rumore di qualcosa di pesante che viene trascinato- la distrasse, facendola voltare.
«Mi dispiace, Maestra» sussurrò Cèlia con un’alzata di spalle tutt’altro che contrita, prima di chiudersi la porta in ferro alle spalle.
«Cèlia» urlò Takrin, dimentica della dignità ostentata fino ad un minuto prima, il terrore che l’avvolgeva. Era così vicina alla vetta, così vicina… non poteva cadere, non ora!
Qualcosa schioccò nell’aria, avvolgendosi attorno al suo petto, legandola stretta; una massa pesante le colpì la tempia sinistra.
 
C’era puzza di nano e di oro nero nell’aria, mischiata ad un vago sentore di erbe ed acqua stagnante e ad una traccia più fine, evanescente: terriccio e sottobosco. Ma soprattutto, l’odore della gomma calda, lo sferragliare stridulo di vapore ed ingranaggi, i fumi, il rombo che squarciava prepotente il velo della notte. E l’eco di risate.
«Rei» sussurrò Siryo, masticando la parola come fosse qualcosa di amaro e disgustoso.
« Del genere peggiore» convenne Edhel, arricciando il naso.
 
Gudra girò attorno al corpo immobile della ragazzina, osservandone i lineamenti chiari con lascivia, la lunga ascia di nuovo assicurata al fianco, premuta contro le gambette muscolose.
«Aspetta di portarla alla base, capo. Prima devi arruolarla, no?» Nighe ridacchiò, strofinandosi i lunghi capelli color malva. Nella mano sinistra stringeva ancora il laccio di cuoio grezzo coi pesini tondi alle estremità che aveva lanciato per immobilizzare la femmina «sempre che non l’abbiamo ammazzata, ovvio. Dici che gli Attinidi se la prenderanno? Sembra un pezzo grosso, guarda che vestiti che indossa» aveva un accento marcato eppure melodioso che gli conferiva un’aria falsamente delicata, tipica dei Far Shee* tanto quanto lo era la sua capigliatura, il suo fisico, la sua pelle violacea –quasi spettrale- o la sua inopportuna loquacità. Gudra lo ignorò, appoggiando un ginocchio a terra per avvicinarsi al volto della ragazza. Il petto della femmina si alzava ed abbassava regolare, mentre  un rivolo nero le scendeva lungo la tempia, che aveva battuta al terreno, alla la guancia destra, finendo per gocciolare sulle pietre della strada.
«Allora capo, è viva?» Nighe sputò al suolo, dando un colpetto col piede al fianco della donna, cosa che fece innervosire Gudra: non era mai stato un tipo particolarmente paziente, ma il Far Shee lo stava decisamente mettendo a dura prova. Perché, dei, doveva essere così dannatamente abile come cacciatore? Il nano detestava doverselo portare dietro.
«Caricatela in moto. C’è un eco che non mi piace» commentò Gudra, secco.
 
L’inseguimento aveva portato Siryo ed Edhel fuori strada, facendoli smarrire fra le vie sempre più strette della periferia, tanto che il giovane uomo aveva ripreso a lamentarsi della lentezza dei cavalli, di come gli zoccoli scivolassero sul selciato pietroso e di quanto odiasse la Città.
Ora, tuttavia, entrambi i giovani erano all’erta, armi in pugno; silenziosi, osservarono –nascosti all’ombra di un vicolo- un nano pel di carota e un Far Shee trasportarsi dietro il corpo privo di sensi di una ragazza.
«Ce ne siamo fatta sfuggire una, e dire che una caccia così fruttuosa capita raramente! Eh, amico mio, se m’avessi fatto tirare prima. Ora ne avremmo una per uno, fresche fresche da marchiare e da infilare nei lett…»
«Ma tu non stai mai zitto, bastardo viola?» domandò il nano, slacciando l’ascia e prendendo a passarsela da una mano all’altra.
Siryo si voltò, incrociando lo sguardo di Edhel, ed annuì. Con un gesto fluido, il giovane uomo sollevò la pistola e sparò un colpo, dritto alla fronte del Reo dai capelli viola.
La detonazione fu acuta, l’eco poderoso ampliato dai vicoli deserti e silenziosi. Il frisone che cavalcava scosse la testa e batté a terra uno zoccolo, infastidito, ma non si ribellò. 
 
Nighe si era abbassato appena in tempo, lasciando cadere la femmina priva di sensi al suolo. Ora imprecava, la voce più alta di qualche ottavo, cercando di estrarre la daga dal fodero: troppo tardi.
Un elfo era sbucato dal vicolo, la sciabola fina sguainata, ed ora gliela puntava addosso sorridendo compiaciuto, quasi sfidasse il Far Shee a reagire. Gudra sollevò l’ascia, ma il ragazzo umano aveva già ricaricata la pistola e gliela puntava contro, serio. Il nano arretrò d’un passo, la lama dell’elfo si strinse di più sulla gola di Nighe.
«Non una parola, spilungone, o giuro che ti taglio la gola» esordì l’elfo, sussurrando alle orecchie  del Far Shee. Indi, più forte «Sembra che siate in trappola» commentò, con la sua voce cortese e colloquiale, dannatamente calma e fuori posto. Un nervo sulla gola di Gudra si contrasse: pallidi o scuri che fossero, odiava gli elfi come ogni nano che si rispetti «vorreste per cortesia gettare le armi? Non vi verrà fatto alcun male. È la ragazza del Giorno che vogliamo, non voi»
«Alcun male? Sbattitronchi che non sei altro, vieni a misurarti lama a lama con me, e vedremo chi non si farà male» sputacchiò Gudra, stringendo la presa sull’impugnatura della lama e piegando le tozze gambe, pronto a dar battaglia.
«Sei sotto tiro, nano. Non ti conviene» sentenziò il giovane uomo, avvinando il cavallo di qualche passo.
«Ragazzino, fatti crescere un po’ di peli sul mento. Un poppante come te non dovrebbe maneggiare armi più grandi di lui» riprese Gudra, ma Nighe lo interruppe con un verso di gola, simile ad un miagolio lamentoso. Nonostante cercasse di tenere il tono basso, il nano poté chiaramente percepire la parola “lasciagliela”.
«Il tuo amichetto qui pare tenere più di te alla sua vita. Ma non importa, la ragazzina ce la prendiamo lo stesso. Fratello!» disse l’elfo, volgendo un cenno del capo al giovane umano, che esplose un colpo.
Bang! Gocce di sangue volarono dalla mano di Gudra, e Bang! Dalla gamba, facendo esplodere focolai di dolore dove i proiettili si erano conficcati. L’uomo ricaricò la pistola puntandola poi velocemente sul nano, che aveva lasciata cadere l’ascia e si trascinava al suolo, imprecando.
Nighe era a terra, colpito alla testa dal piatto della lama dell’elfo che, raccolta l’Attinide da terra, la stava issando sulla groppa del suo cavallo, una fastidiosa espressione compiaciuta in volto
«una bella caccia, non trovi?» domandava il ragazzo umano, arricciando divertito il naso «è sempre divertente prendere a calci qualche Reo» concluse, facendo ridacchiare l’elfo; per Gudra fu troppo, più intollerabile del dolore: si rialzò, muovendosi a tentoni verso l’ascia, ma i cavalli dei due ragazzi erano già lanciati al galoppo.
Bestemmiando tutti gli dei caduti, Gudra lanciò l’ascia contro un muro, frantumandone l’intonaco.
 
Da una finestra, una figura sorrise. 





* Corrispettivo maschile di una Banshee.
  
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