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Autore: Aleena    14/09/2011    0 recensioni
Dal primo capitolo:
La sirena risuonò, rompendo il silenzio della notte.
Da qualche parte, una frenata brusca, un’imprecazione soffusa, dispersa dalla brezza marina.
Sola, guardavo il soffitto della mia stanza, contando i battiti che, dal cuore, mi rimbombavano nel cervello.
“Una non è nulla. Una non significa niente. Vedrai che smette, vedrai... è l’avviso, una tromba d’aria, un altro terremoto forse. Vedrai che smette, vedrai che smette”
Non ho mai saputo pregare; non c’era un luogo di culto qui in città, quasi nessuno era più devoto. Ormai, la ragione aveva avuto la meglio.
Questa è la nostra punizione, dicevano i Radicali.
Se è così è ingiusto, affermavo io.
“Una non è nulla” mi ripetevo senza convinzione. Pregavo, anche se non lo sapevo.
Genere: Fantasy, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies'
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Piccolo spazio-me:
Gea è un racconto che fa parte di una sorta di un ciclo intitolato “Lullabies”, ossia ninnananne. Sono una serie di storie senza nesso le une con le altre, accumunate tutte dalla stessa aria sovrannaturale che regna in questa. Le pubblicherò man mano, ovviamente indicando nel titolo che sono Lullabies. Alcune saranno one shot, altre brevi long-fic, della lunghezza di questa all’incirca. Spero vi piaccia e vogliate seguirle.
Buona lettura!
 
Ah, giusto, quasi dimenticavo: Questo scritto è di mia unica proprietà; è pertanto Vietato copiare/riportare/tradurre altrove questo (integrale, sue parti, i personaggi etc etc) senza il consenso dell’autrice (ovvero la sottoscritta)! Nessuno vorrà farlo, ma è sempre meglio prevenire! ;)
 
 
 
 
 
La sirena risuonò, rompendo il silenzio della notte.
Da qualche parte, una frenata brusca, un’imprecazione soffusa, dispersa dalla brezza marina.
Sola, guardavo il soffitto della mia stanza, contando i battiti che, dal cuore, mi rimbombavano nel cervello.
“Una non è nulla. Una non significa niente. Vedrai che smette, vedrai... è l’avviso, una tromba d’aria, un altro terremoto forse. Vedrai che smette, vedrai che smette”
Non ho mai saputo pregare; non c’era un luogo di culto qui in città, quasi nessuno era più devoto. Ormai, la ragione aveva avuto la meglio.
Questa è la nostra punizione, dicevano i Radicali.
Se è così è ingiusto, affermavo io.
“Una non è nulla”mi ripetevo senza convinzione. Pregavo, anche se non lo sapevo.
 
Quando la sirena suonò di nuovo, sentii i miei genitori agitarsi, alzarsi velocemente e aprire cassetti. Sapevo cosa cercavano: da mesi ormai vivevamo con le valigie stipate di vestiti e degli oggetti più cari, pronti al peggio.
Dalla stanza vicina, un singhiozzo. Mia sorella non si era mai realmente arresa. La sentii correre a chiudere le persiane con forza, quasi che, tenendo fuori l’eco dell’allarme, potesse cancellarlo.
Io rimasi distesa al letto. Le braccia lungo i fianchi pesanti come fossero di marmo, incapace di muovermi. Avevo il fiato corto, il respiro interrotto. Sospesa, mentre fuori la quiete della notte era ormai persa. La gente gridava, si chiamava, accendeva la luce.
“Due rintocchi significano guerra. Guerra! C’è ancora speranza, ancora speranza, oh Dio, se ci sei, se ci sei mai stato, dimmi che c’è ancora speranza”
Dalla stanza vicina arrivava l’eco di un pianto ora. Vibrante, rimasi in attesa; sapevo, con funerea certezza.
 
Quando la sirena suonò ancora, la città parve come attraversata da una folata di vento; spazzò via ogni rumore, ogni frenesia, ogni speranza, lasciando l’immobilità. Nessuno respirò, consci della gravità del momento.
«Tre suoni significano Fine. L’Apocalisse» sussurrai, e fu come se la mia voce avesse interrotto la pausa, risvegliando il mondo.
Mio padre corse in camera mia, sollevandomi di peso e trascinandomi all’armadio. Come in trance, lo seguii fuori, sul pianerottolo in cima alle scale, trascinando la valigia, la borsa col pc portatile a tracolla. Fuori dalla mia stanza, mia madre e mia sorella piangevano abbracciate. Un borbottio, un grido acuto; mio padre apparve dal buio con mio fratello fra le braccia, uno zainetto dei puffi in precario equilibrio su una spalla.
«Ora, state tranquille. Tranquille. È un’esercitazione, solo un’esercitazione, ne abbiamo fatte a centinaia, ricordate? Dobbiamo scendere in strada, fare cento metri, e saremo al rifugio. È un’esercitazione. Non…» mio padre tacque. Cercava di rincuorarci, aprendosi in grandi sorrisi fin troppo simili a smorfie di dolore. Aveva paura, ma era in dovere di dimostrarsi forte. Mi guardò, quasi aspettandosi che perdessi il contegno, ed io gli restituì il sorriso, precedendolo lungo le scale.
Non avevo paura. Non provavo nulla, in realtà: né timore, né speranza, né aspettativa, né fastidio. Lo sapevo, l’avevo saputo sin dal primo suono. Ero preparata a questo momento: me lo sentivo ripetere da quando ero nata, a scuola, a casa, al corso di sopravvivenza dei week-end.
 
Venimmo smistati all’ingresso del capannone da un militare dall’aria assente, collo taurino e spalle massicce del giocatore di football che doveva essere stato venti o trenta chili prima, al college. Controllò i nostri certificati di nascita e le carte d’identità –mio padre le teneva in un marsupio che non si toglieva mai, salvo per fare la doccia- quindi ci spedì al bancone, davanti al quale la fila scorreva veloce.
Ci assegnarono una zona riposo ed un’area servizi igienici, consegnandoci una cartina dello stabile su cui erano segnate le aree rilevanti, come le mense, quindi ci diedero un bracciale di metallo verde con su stampato un numero. Il nostro posto letto. Mi guardai il polso: 283. Scossi il capo cacciando via quella sensazione di gelo e disagio, e seguii la mia famiglia.
Salimmo le scale, incontrando i nostri vicini, i signori Dickens. Come lo scrittore, anche se il padre, un allampanato operaio edile dalla pelle color caffè, non aveva mai voluto leggerlo per sfregio. Controllando i loro numeri, scoprimmo che avrebbero dormito accanto a noi.
«Questa era una fabbrica tessile, una volta. Il mio bisnonno ci lavorava, facevano la seta damascata ed il broccato per la capitale» sentii il figlio minore dei Dickens dire a mia sorella, che arrossì. Aveva una cotta per lui da tre anni, da quando erano finiti in classe insieme, in prima media.
Guardandomi intorno, potevo vedere ancora l’ombra delle enormi macchine tessili, simili a quelle dei disegni sui libri di storia, che tendevano fili su fili senza sosta, riempiendo l’aria di vapore e rumore sordo.
Fu a quel punto che lo notai.
La mia vita era stata, come quella della maggior parte dei nati nell’era moderna, contraddistinta da un ronzio basso, nota di sottofondo costante ed inascoltata. Il vibrare della corrente, di apparecchi elettronici in funzione, la tensione nei cavi, nelle lampadine, nei frigoriferi e nelle tv. Il sottile lavorio di ingranaggi sempre più moderni.
Ora, il silenzio era perfetto.
Non c’erano lampadine accese nella soffitta. Una donna dalla faccia pratica con una torcia chimica in mano ci indicò un corridoio davanti a noi, ricavato attraverso pareti di cartongesso che dividevano lo stanzone in cubicoli, ognuno dei quali chiuso da una porta di compensato dall’aria economica.
«Dal numero 281 al 285» lessi a voce alta, e meccanicamente ognuno di noi si guardò il polso; poi mio padre aprì la porta, lanciando un cenno di saluto distratto ai nostri ex vicini di casa, ora vicini di letto, che s’inoltravano nel cubicolo alla destra del nostro.
Entrammo; illuminati da una luce chimica aranciata c’erano cinque letti in ferro che mi portarono alla mente quelli degli ospedali, ognuno con le coperte piegate ed appoggiate sopra un cuscino dall’aria triste. Rimpiansi di non aver preso il mio, uscendo di casa.
“Casa… la rivedrò mai?”sospirai tra me eme rifacendo il letto, ed un’ondata di nostalgia mi travolse. “Chissà come gli sconvolgimenti cambieranno il mondo. Lo riconoscerò, uscendo?”
 
 
 
 
Piccolo spazio-me (ancora): La storia è classificata come Soprannaturale. Ammetto di aver avuto un attimo di smarrimento cercandone la classificazione precisa, ma trovo che questa sia quella che le si addice benissimo. Spero saprete dirmi voi, in seguito, se ho fatto la scelta giusta. Nel caso, vedrò di confermare o modificare :)
Inoltre ho deciso di dividerla in bevi chap non molto lunghi, di cui questo è il primo. Li aggiornerò ogni mercoledì.
Immaginate un mondo molto simile al nostro, però a qualche anno di distanza: più tecnologico, più evoluto. È un mondo di ragione e scienza, senza fede (il Dio che nomino potrebbe essere qualunque divinità, esistente o meno) sull’orlo dell’Apocalisse annunciato. Cosa lo provoca, e cosa accadrà, vedremo poi :)
La città e lo stato in cui si svolge la storia non verranno precisati. Immaginatela dove volete: America, Scozia, Italia, Pakistan o il mondo che avete in testa e dove ambientate i vostri sogni! Scegliete voi :) e magari fatemi sapere dove vi piacerebbe fosse ambientata! Ai fini della storia, comunque, non è importante sapere il dove, ma solo che Gaia è il nome di questo mondo ipotetico .
 
 
 
  
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