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Autore: Aleena    16/09/2011    0 recensioni
"Ricordo la mia vecchia vita.
Il vento inframmezzava ogni cosa, un vento freddo e persistente. Soffiava dalle montagne, portandosi dietro l’eco dell’inverno eterno ed il sapore di una terra lontana, appena oltre i monti.
Ha accompagnato tutta la mia vita, quel vento."
1a classificata al contest "Nei panni del vampiro" indetto da VaniaMajor sul forum di Efp
Vincitrice del Premio "Miglio Personaggio Femminile Protagonista" al contest "And the Winner is..." indetto da Dark Aeris. Sul forum di Efp.
Genere: Dark, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies'
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Una nave attraccò in porto, recando seco la metà dell'equipaggio e la malattia annidiata fra il sartiame, il legno ed il sudore dei marinai; soffusa fra le sete, le spezie e i profumi, dilagò come un’inondazione, travolgendo in ondate via via sempre più intense la popolazione già allo stremo.
Era inverno da troppo tempo e la mia gente aveva fame.
La peste trovò terreno fertile: non c’erano dottori in grado arginarla, né incendi in gradi di distruggerla. Crebbe, sviluppandosi come l’edera velenosa nel mio giardino di anime, consumandone la vita per alimentare la propria.
Più forte delle preghiere, della scienza, della natura stessa.
Mio padre seguì mia madre due mesi dopo che l'epidemia era scoppiata e, compressa nei pizzi del mio funebre vestito nero, pensavo solamente a ciò ch'era divenuto mio e a come il mio seno pallido, i miei capelli fulvi e la mia pelle perfetta risaltassero a contrasto con l'oscurità del lutto.
Avevo passato ore a scegliere i gioielli più fini e le sete migliori per quell’abito, non risparmiando alle mie servette la fatica di cucirmelo in tutta fretta, anche a costo di esporle alla malattia; ero orgogliosa di quella veste, e più del mio corpo che vi risaltava alla perfezione.
Molti dei nobili di mio padre mi volevano, lo leggevo nei loro sguardi avidi, nella piega maliziosa delle labbra, nel loro modo di avvicinarmi, di sfiorarmi; molti mi avrebbero presa perfino lì, a poca distanza dal corpo dell’uomo cui avevano giurato fedeltà. Diedi segno di non notarlo, mostrandomi deferente e contrita come si confaceva, recitando la parte della figlia devota che non ero mentre dentro fremevo.
Restai immobile quando avrei voluto dipingere quel momento, fermarlo sulla tela: tutti quei volti, tutta quella bramosia, la lussuria che creavo. Era la prima volta che mi trovavo fra i nobili, e le loro occhiate mi lusingavano.
Mi ripromisi di non frenarmi mai più.
Ero bella, la più meravigliosa ragazza che quel luogo avesse mai visto; ero ricca, nobile, arguta, affascinante. Come non desiderarmi?
 
Contro ogni precauzione, diedi ai miei genitori l’onore di riposare nella terra invece di essere bruciati, come la cautela imponeva.
«Mi hanno messa al mondo. La più nobile delle creature hanno generato; solo per questo, meritano di dormire con gli Dei.» rispondevo a medici e monatti, sorridendo in quel mio modo che scioglieva il cuore di ogni uomo, avvinghiandolo alla mia voce, alle mie labbra.
Feci celebrare loro il più bel rito funebre che il Druido avesse mai compiuto, poi li dimenticai.
Erano un’altra vita, un altro mondo. Ora, c’ero io.
Non seguivo consigli, non accettavo ordini. Ero libera e nessuno mi avrebbe privata di questo, ne ero certa; né uomo né donna avrebbe avuto più potere di me. Decisa, aprii la mia corte dopo tre giorni dalle esequie.
Era l’occhi del ciclone, quando il pericolo sembra passato e, scioccamente, ci si acquieta, cercando di recuperare quella normalità ormai irrimediabilmente perduta.
Convita che tutto fosse ormai finito, offrii un banchetto per i nobili ed i mercanti, tornati in porto con animali esotici e frutti mai visti.
Assaggiai l’uva succosa ed il mandarino, ridendo alle battute. Giocai, mi nascosi, ammirai il pavone e la scimmia. Danzai, volteggiando con un abito di velluto giallo come il sole, gioielli d’ambra indosso.
Dopo quella sera, molti furono i pretendenti alla mia mano. Li rifiutai, perché non c'era uomo che possedesse il mio valore, che mi fosse eguale. Grassi, sciatti, volgari approfittatori privi di avvenenza. Giocavo con loro, concedendogli il lusso di farmi doni. Civettavo, accaparrandomi amicizie e favori senza concedere che la vista delle mie labbra, un accenno di seno, una caviglia scoperta per gioco e pudicamente celata.
Oh, com’ero bella quando arrossivo! Una vergine casta come la terra, pura come l’acqua. Lasciavo la sete della passione negli uomini, facendola germogliare come un fiore raro ed impuro nei loro animi, corrodendoli senza concedere più che un sorriso. Li ammaliavo, facendoli impazzire. Giocavo con loro, divertendomi a guardarli lottare, tifando ora per l’uno ora per l’altro.

 
Li tentavo, ma nessuno colse il mio fiore. 
  
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