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Autore: Exelle    16/09/2011    3 recensioni
Seguito di tutte quelle Charles&Erik che ho scritto precedentemente.
... Solo che questa ha più capitoli.
"Charles si chiedeva se la colpa non fosse sua. Forse era perchè Westchester non gli era mai sembrata tanto accogliente, al pensiero che Erik fosse lì, che dormisse a poche porte di distanza dalla sua."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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WELCOME TO WESTCHESTER
Charles&Erik (X-Men First Class) Pt. 4 
 
 
What you touch do not feel 
Do not know what you steal 
Destroy everything you touch today 
Please destroy me this way 
 
Destroy everything you touch today 
Destroy me this way 
Anything that may delay you 
Might just save you 
 
                                                                         Ladytron, Destroy Everything you Touch
 
 
 
CAPITOLO III
 
 
 
Westchester, New York, 1962
 
“Credo che Erik abbia davvero ragione” disse Moira, richiudendo la cartelletta di plastica blu. 
I fermagli metallici scattarono con un colpo secco, facendo trasalire Charles, cancellando l’ espressione meditativa dalla sua faccia.
Sentendo gli occhi di lei su di sé, annuì lentamente. “Shaw sarà a Cuba.”
“E non sarà il solo” disse Hank allontanandosi dalla scrivania metallica sul fondo della stanza e raggiungendoli, seduti all’altro capo, ad un tavolo sotto alle alte finestre.
Charles si grattò la fronte, raddrizzando un poco la schiena e spostando a lato un plico di incartamenti della CIA.
“Dovremmo partire domani, non è vero?”
Moira assunse un‘aria pensierosa. “Potevamo già partire oggi, ma non me la sento di…”
“Nemmeno io.”
Moira tolse l’elastico attorno ad un tubo di cartone rigido, sfilandone quella che sembrava una mappa plastificata blu, con lunghi tracciati bianchi e rivelando la ricostruzione cartografica di un’isola grande e altre più piccole vicino, in tratti più marcati. 
Charles sapeva bene di cosa si trattava, era l'argomento di discussione principale tra lui e Moira. Kennedy alla TV non era stato il solo, a ribadire quante delle sorti mondiali si stessero giocando nell’arcipelago dei Caraibi Settentrionali, ma adesso, Charles riusciva solo a pensare che l’annuncio del Presidente, era seguito subito dopo al momento in cui aveva aiutato Erik a capire qual era la forza necessaria a far voltare il satellite. A dimostragli che aveva un potere più grande del suo. 
Sbatté le palpebre, appoggiandosi meglio sulle braccia ora conserte, chino sul tavolo. Sentì Hank avvicinarsi al suo fianco.
Stava chiedendo a Moira la posizione precisa degli SS-5 Skean sovietici già sull’isola e la posizione probabile dove Shaw avrebbe potuto trovarsi, per essere vicino alla zona del fuoco incrociato. Una posizione che gli avrebbe consentito di sopravvivere e tuttavia anche in grado di permettergli di intervenire, se la situazione non si fosse svolta a suo favore.
Moira indicò la rotta tenuta dalle due flotte, tracciando con una penna dei punti probabili. Charles tuttavia, era così concentrato dal pensare a cosa dire per cercare di non apparire del tutto indifferente, che non diceva nulla. Si limitava a fissare le linee delle rotte con gli occhi, senza formulare un vero pensiero concreto su quello che stava facendo in quel momento.
Era così negligente da parte sua, ma non poteva farne a meno.
“Il jet è pronto a partire, ho solo bisogno di qualche ora per approntare le ultime modifiche” spiegò Hank, aggiustandosi gli occhiali.
Charles si voltò a guardarlo, cercando di riscuotersi.
“Ore?” chiese sorpreso.
Hank sospirò. Sembrava dispiaciuto. “Non me la sento di chiedervi più tempo, anche se…”
“Ti occorre più tempo?” domandò Charles, guardando sia Hank che Moira. La donna si strinse nelle spalle, lanciando un’occhiata alla mappa.
“Io non so se…”
“Con tutta probabilità… Non saranno alla linea di confine prima di mezzogiorno, non è vero?”
“Charles…”
“Shaw sarà già sicuramente là” puntualizzò Hank aggiustandosi gli occhiali sul naso. “Ma le navi sono navi da guerra con armamento pesante e anche viaggiando alla massima velocità di nodi da loro consentita… Potrei calcolare l’ora precisa in cui raggiungeranno la linea…”
“Da Langley ti hanno passato quest’informazione?” Charles lo disse come una domanda, anche se aveva già letto la risposta nella mente di Moira, mentre si voltava verso di lei.
Moira tamburellò lentamente le dita sulla carta, colpendo ogni volta lo stesso punto con l’indice. “Se partissimo prima avremo più probabilità di…”
“Ma è anche vero che con il jet pilotato da qualcuno di esperto, potremo essere lì in molto meno di due ore” osservò Charles, tracciando con l’indice un immaginario percorso aereo che dal ripiano del tavolo, si fermava a pochi centimetri dal luogo prefissato.
“Essenzialmente, il problema dell’essere puntuali non si pone.”
Moira corrugò le sopracciglia. “E dove troviamo…”
“…Un pilota abbastanza bravo? Hank” spiegò Charles facendo un cenno con la mano verso il ragazzo. “Non pensare che saremmo stati così impreparati” aggiunse con un sorriso. “E da quello che mi hai detto, tu stessa non hai scarsa difficoltà a volare.” 
Moira annuì, anche se i sui occhi non sembravano ancora del tutto convinti.
“Pensi che sia una buona idea?” chiese, guardando Hank che a sua volta lanciò un’occhiata a Charles.
“Se Charles pensa che sia così, io sono d’accordo con lui. Domani mattina.”
Con gli occhi di lei ancora su di sé, Charles afferrò un plico di  documenti, parte della documentazione che la CIA aveva fatto avere a lui e Moira, mettendoseli sottobraccio. Sorrise fiduciosamente ad entrambi, quando dopo aver chiesto a Moira di avvisare gli altri,  disse ad Hank che se fossero sorte delle difficoltà sarebbe stato più che felice di aiutarlo.
Per un attimo Moira sembrò quasi che volesse seguirlo, ma forse ebbe solo la delicatezza di notare che il passo di Charles era un po’ più affrettato e i suoi occhi un po’ preoccupati, per pensare che volesse parlare ancora.
 
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“Dov’è Charles?”
“Non ne ho la minima idea” replicò Raven allontanandosi dalla finestra. “Sarà da qualche parte con Moira, probabilmente” aggiunse, con un’ultima occhiata al cielo grigiastro. “Pioggia, eh?”
Erik annuì lentamente, lanciando un’occhiata alla porta. Non era nemmeno interessato a cercare una parola educata per allontanarsi dalla stanza, né triviali commenti sul tempo, ma era combattuto; poteva andare a cercare Charles, che era quello che davvero voleva fare, o rimanere a lasciare che le sue ultime ore a Westchester scivolassero via, nell’oblio di qualche conversazione inutile.
Non era colpa di Raven, in fondo.
Gli andava a genio, a suo modo. Era decisa e schietta, e il suo unico problema era quella spasmodica ricerca di attenzione che sembrava portarla ad aggrapparsi spasmodicamente a chiunque le capitasse a tiro.
Guardandola sedersi sul divano, con le gambe accoccolate davanti a sé, ancora intenta a guardare il cielo di ferro, Erik comprese che fondamentalmente, lei non gli dispiaceva.
Poteva mascherarsi con i capelli biondi, con un viso ordinario e un aspetto convenzionale, ma lei era tutt’altro. Si ritrovò a domandarsi che cosa ne sarebbe stato di lei, se si fosse decisa a lasciar perdere quella facciata, se finalmente avrebbe scelto di essere ciò che era.
Un po’ come aveva fatto lui.
E Raven, Raven era anche l’esempio di ciò che significava vivere a contatto con Charles ogni giorno. 
Si chiese se fosse stato lui a spingerla a mantenere quasi sempre inalterata la sua apparenza esteriore, ma poi scacciò quell’idea. 
Charles non era così, si disse. Ma poi, si ritrovò a rendersi conto che non aveva alcuna base per sostenere questa teoria e che fondamentalmente, anche se Raven  forniva un chiaro esempio di come doveva essere crescere a Westchester in compagnia di Charles Xavier, non era un esempio poi così gratificante.
Era Raven che voleva essere considerata normale o era Charles che l’aveva… No, non poteva essere così.
Charles si era sempre e solo dimostrato felice di parlare, discutere e, dio, di far sapere a chiunque che essere un mutante non era per nulla strano. Che era normale, nella sua eccezionalità, perché non erano soli.
Gliel’aveva detto e dimostrato ogni giorno da quando si erano conosciuti, ma ora, con Raven a pochi passi, quella che Charles chiamava sorella e che sembrava essere l’unica persona vicina a lui, non poteva non apparire come un esperimento.
Come se Charles, potesse aver in qualche modo influito su di lei, facendola apparire come il modello perfetto di mutante integrata.
“Perché cerchi Charles?” gli chiese d’un tratto, roteando gli occhi verso di lui. “Avete litigato?”
“Cosa?” domandò Erik bruscamente.
Lei sembrò per un attimo sorpresa, ma poi sorrise, riprendendo a guardare distrattamente fuori dall’ampia vetrata.
“Charles non è mai stato capace di farsi degli amici” disse con noncuranza, flettendo le dita. “Non che sia mai stato capace di trovarne. O di tenerseli, ma… E‘ come se non ne avesse mai avuti. O voluti.”
“Non dovresti parlare così” le disse Erik in tono indifferente.
Raven inarcò le sopracciglia, dubbiosa. “Se tu glielo chiedessi ti direbbe la stessa cosa. Non che sia un problema di carattere… Ma forse, è solo un po’ difficile per uno… Per lui contano solo i suoi mutanti, adesso. Preferisce il ruolo del capo, non di quello alla pari degli altri.”
Erik alzò un sopracciglio, poco convinto dalle parole di lei. “Tu sei sua amica. Sua sorella”
Raven alzò gli occhi su di lui. “Se introdursi in casa sua di nascosto da’ questo diritto, sì, lo sono. Ma non credere che io lo stia criticando.”
“Ma non ne stai nemmeno parlando bene” disse lui con calma, facendo un altro passo nella stanza. 
C’era qualcosa di piacevole nel sentire parlare di Charles senza che lui ci fosse. Forse non era corretto, ma Erik sembrava avvertire che era qualcosa che portava molte meno complicazioni, di quelle che avrebbe portato l’affrontarlo direttamente, dopo quello che era successo quella mattina. E anche sentire i giudizi severi e  ben poco celati di Raven su di lui, era un modo come un altro per non pensare alla considerazione che Erik non aveva mai passato tanto tempo, senza vedere Charles, a Westchester. E c’erano ancora tante ore lunghe e vuote davanti a lui, ore che non voleva riempire né con libri, né contemplando il cielo, in attesa che si facesse scuro. 
“Non è così. Sono abbastanza contenta che finalmente Charles parli con qualcuno. Spero solo che tu sappia qualcosa di genetica.”
Erik  accennò un sorriso diffidente.
“Charles parla con Cassidy, con Moira e Summers e con McCoy, non credo che faccia differenza. Parla con tutti noi.”
Raven lo squadrò, sorridendogli in un modo che voleva essere accattivante. “Rispetto a te, sicuramente.”
“Non stiamo parlando di me.” 
“Giusto” replicò lei, strascicando fin troppo la ‘s’. “Stiamo parlando di Charles. Buffo, è sempre al centro dei pensieri di tutti, anche quando non c’è. Comincio a credere che siete così abituati a vederlo nel ruolo di capo che non quando sbaglierà, non farete altro che dargli ragione.”
“Non sembra che gli dispiaccia quel ruolo” le disse Erik un po’ sovrappensiero, incrociando le braccia.
“Tutt’altro. Lo adora” il viso di Raven s’incupì. “Credevo avrebbe buttato la sua vita vivendo solo in quel modo in cui viveva Oxford… Pensavo avrebbe lasciato tutto andare, non sembrava gli importasse niente, a parte festeggiare sciocchezze e trovarsi qualche ragazza di cui poi si sarebbe dimenticato il nome, e adesso…” la fronte di Raven venne attraversata da rughe di perplessità. “Forse sarebbe stato meglio, da un certo punto di vista. Ora passa il suo tempo a dirci quanto siamo speciali, quanto dobbiamo essere fieri, di quanto lui è fiero di noi…”
“E non deve essere così?”
Raven alzò gli occhi su di lui, con espressione dura. “Non farti ingannare, Erik. Ti dirà che un giorno avrai un potere più grande del suo e questo ti lusingherà, e tu gli crederai, perché è così che Charles si comporta. Ma te lo ripeto, è solo un trucco, perché lui sa di essere più forte di te, di me e probabilmente di tutti gli altri che incontrerà. Lo fa solo per accondiscendenza. Non lo nasconde neanche tanto, ma dietro quella sua ottimistica facciata cortese, è fin troppo arrogante e soprattutto, egoista.”
Erik le restituì un’occhiata in tralice. Raven parlava con la voce di chi è stata messa da parte, ma Erik, dentro di sé, cominciava a sentire che quelle parole, in fondo, erano vere. Ma non poteva neanche darle ragione perché, anche se per lei Charles poteva essere pienamente nel torto, lui voleva ancora concedergli il beneficio del dubbio.
Quel suo essere arrogante, non poteva essere così negativo come Raven lo dipingeva.
“Non sono qui per Charles.”
“Anche questo è vero.”
Gli occhi di Raven si adombrarono un poco. Erik si chiese perché avesse scelto proprio lui, per parlare del risentimento che sembrava dominarla. Un risentimento quasi scontato. Il suo ruolo a Westchester era stato messo in discussione e qualunque fosse lo speciale legame che la univa a Charles, aveva cominciato ad indebolirsi il giorno in cui Charles aveva compreso che non erano più soli.
“Con loro parla” riprese Raven, girandosi ancora verso la vetrata. “Ma tratta te come se fossi al suo livello. Ma Erik…” e qui si voltò di nuovo su di lui. “Temo che ci consideri solo come le sue pedine. Forse adesso gli è venuta voglia di condividere il suo gioco con la CIA con qualcun altro, ma qualunque cosa lui possa dirti, credimi… Ormai c‘è solo lui. E‘ solo lui, non aspettare che ti comprenda, non fino in fondo. Può essere capace a leggerti nella mente, ma non può essere in grado di capire, non tutto…” 
C’era un certo innegabile disprezzo nel suo tono di voce, ma Erik, pur capendo la sua amarezza, rifiutava di concordare pienamente con lei. Poteva anche conoscere Charles da più tempo, ma Raven sembrava più presa a considerare ciò che era importante per lei, ciò che le spettava, ciò che lei pensava, per accettare di considerare un orizzonte più ampio in cui lei non era contemplata personalmente. Aveva solo bisogno di attenzione e quell’essere scostante e il prendersela con Charles ne erano solo una manifestazione. 
Erik si chiese se la cura che McCoy stava preparando, l’avrebbe aiutata a riconciliarsi un poco con quella parte di sè che la portava a denigrare quello che Charles stava cercando di fare.
Indifferente al silenzio di Erik, Raven si aggiustò una ciocca di capelli che si curvava appena vicino alla guancia, aggrottando appena la fronte.
“Credo che l’abbia baciata” disse piano. Era ben più che un’affermazione decisa, ed Erik suo malgrado, si ritrovò a spalancare un poco gli occhi, cercando di allontanare l’espressione sorpresa che per un attimo gli aveva attraversato il volto. “Cosa?”
Raven fece un verso quasi, come se stesse cercando di smorzare una risata derisoria che le saliva alle labbra.
“Moira, naturalmente.”
“Immagino tu li abbia visti” replicò impassibile Erik ma evitando di guardarla direttamente, questa volta.
“Ho detto che non ne sono sicura” Raven abbassò le gambe, sedendosi meglio e voltandosi verso di lui. “Ma potrei anche benissimo dire che forse è assolutamente vero. Basta vedere il modo in cui…”
“Se non l’hai visto, non è vero” le disse Erik cortesemente, cercando di nascondere il suo fastidio. “E anche se fosse, ti pregherei di non parlarne con me, perché non mi interessa.”
Raven lo fissò un momento, poi abbassò gli occhi con un‘aria che poteva solo essere descritta come colpevole.
Erik si chiese nuovamente perché dovesse sentirsi messo al corrente dei suoi problemi sentimentali. Raven non poteva essere così futile, non fino a questo punto. 
“Perché dovrei aver litigato con Charles?” domandò Erik con noncuranza, cercando di allontanare l’argomento McTaggert da quella conversazione, argomento che sembrava infastidire esteriormente Raven molto meno rispetto a quello che Erik sentiva, inopportunamente, dentro di sé.
“Scusami?” lei sembrò trasalire, riscuotendosi dai suoi pensieri.
“Prima, mi hai chiesto…”
“Ricordo cosa ti ho chiesto, Erik” mormorò. “Era una sciocchezza. Credo che se litigasse con te, sarebbe talmente dispiaciuto che si metterebbe a piangere” ma prima che Erik potesse replicare, gli sorrise e aggiunse: “Ora sto scherzando.”
Erik, colmo di disappunto, fece un verso sarcastico prima di inclinare un poco la testa e guardare il cielo perlaceo fuori dalla finestra.
“Non sono qui per Charles” le disse ancora, senza una ragione precisa, mettendosi le mani in tasca. “Ma a te farebbe bene smettere di pensare a lui.”
“Perché?”
Erik le sorrise, gentilmente questa volta. Non mancò di notare che i suoi occhi erano diventati gialli, e quel particolare insolito, in quel viso di una bellezza così ordinaria, lo affascinò.
“Perché ti rende cattiva” le rispose, prima di uscire con calma dal salone, pronto ad andare alla ricerca di Charles.
 
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“Charles, seriamente…”
Charles rise, sfilandogli il drink di mano e posandolo sulla balaustra di pietra dietro di lui. 
“E’ un problema perché non siamo un uomo e una donna?” gli chiese scaltramente, con un sorriso che voleva essere ammiccante, aggiustandosi i bottoni del cardigan.
Erik sbuffò, distogliendo lo sguardo da lui. “Temo sia un po’ tardi per porsi il problema per quello.”
Charles abbassò il capo, nascondendo la sua espressione divertita prima di dire: 
“Eri comunque attraente vestito da donna, amico mio. Credimi” disse Charles, compiacendosi un poco nel vedere che era riuscito a mettere Erik in difficoltà. La pausa di tempo che ci stava impiegando per replicare, aveva già il dolce gusto della vittoria. 
Il sorriso trionfante di Charles si allargava sempre più ed Erik dovette notarlo, perché incrociò le braccia e lo guardò sprezzante.
“L’ho trovato poco adorabile da parte tua, Charles” commentò accarezzandosi pensierosamente il mento.  “Credo che l’aggettivo più giusto per definire quello che hai fatto sia ancora...  perverso.”
Charles spalancò gli occhi. “Non è assolutamente vero. Era per divertire la ragazza” affermò in tono convinto. “Sarebbe venuta a Richmond con più facilità se avesse visto che eravamo persone… Persone divertenti.”
Erik sollevò le sopracciglia, diffidente. “Ti assicuro che sembrava molto più compromettente.”
“Io l’ho trovato divertente” provò a giustificarsi Charles, anche se stava di nuovo arrossendo.
“Tanto divertente che siamo finiti qui, mentre cerchi di invitarmi per…”
Charles abbassò le sopracciglia sottili in un‘espressione furba. “Devo invitarti?”
“Charles, smettila. Non so perché ti sia venuta quest’idea malsana…” Erik socchiuse un poco gli occhi, cupo. “Ma se hai intenzione di essere banale, o scontato, o qualunque sciocchezza ti sia venuta in mente, sappi che non è così che si fa’.”
Charles abbassò gli occhi, turbato. Non voleva fare arrabbiare Erik, voleva solo scherzare con lui. 
La sera precedente, era stato così ingenuo da credere che invitarlo in camera sua sarebbe bastato a fargli passare una serata piacevole.
Charles arrossì, perché in parte, in buona e grandissima parte, era stato davvero così, ma questo non gli aveva impedito di chiedere ad Erik di raggiungerlo sulla terrazza vicino al tetto, arrampicandosi sulle vecchie scale dei piani alti, quasi tutti chiusi, con un giradischi e i drink,
prima di dirgli dov’era.
Ma a quanto pareva Charles non ne era in grado, non era in grado di divertirlo e tuttavia, Erik ora lo stava di nuovo, inspiegabilmente, assecondando. 
Nella sua mania di fare qualcosa di più, Charles aveva di nuovo fallito. Fece per allontanare le mani, aggrappate alle sue braccia conserte e allora, Erik si raddrizzò con la schiena, prendendolo per le spalle, tenendolo un poco distante da sé per poi prendergli le mani, palmo contro palmo, intrecciando le dita.
“Vai un po’ indietro” mormorò, facendo un passo in avanti, nella sua direzione. Charles annuì. Credeva che l’imbarazzo si sarebbe presto impossessato di lui, ma stranamente non sentiva niente, nemmeno soddisfazione nel vedere che Erik sembrava assecondarlo.
Voleva solo seguire qualsiasi cosa lui gli avesse detto.
“Ti assicuro che il prossimo libro che ti leggerò sarà Delitto e Castigo”  gli disse Erik sottovoce, mentre stringeva ancora le mani di Charles, sentendo le sue dita incastrarsi saldamente alle sue, quando furono quasi al centro della terrazza.
Aveva la testa un po’ inclinata a destra, e non si capiva bene cosa stesse davvero guardando.
Charles lo osservava di sottecchi. Per quanto quella fosse stata una sua idea, si era reso conto che non aveva mai pensato a come comportarsi,
se mai Erik l’avesse accontentato. Ma ora, inevitabilmente, il problema sembrava essere stato cancellato.
Era Erik che decideva, e a lui andava benissimo che fosse così. Perché era così semplice essere tanto arrendevole nei suoi confronti, così semplice pensare che Erik si preoccupava per lui, che ci sarebbe stato, che avrebbe esaudito qualsiasi inezia per farlo felice.
Erik sciolse un attimo la stretta e con un cenno della mano verso il giradischi, l’astina si sollevò e andò in posizione, e il disco cominciò a scorrere, grattando leggermente.
“Lo stiamo facendo veramente?” domandò Charles a mezza voce.
Erik gli mise le braccia sulle spalle, unendo le mani dietro alla sua nuca. “Non ho alcuna obiezione sullo smettere adesso, tanto perché tu lo sappia. Ma se vuoi… ”
Charles lo guardò, meravigliato, accennando un passo indietro prima di immobilizzarsi.
“Lo stai davvero facendo solo perché io te lo chiesto, anche se non vuoi?”
Erik sembrò quasi mordersi il labbro, perplesso. “Ci devono essere altre ragioni?”
“Pensavo…”
Erik sembrava infinitamente a disagio. “Charles, se una cosa ti può far piacere…”
Cercò quasi di distogliere lo sguardo da lui, ma poi abbassò solo le mani, liberando quelle di Charles dalla stretta. L’unica cosa che lui riuscì a fare, fu passargli il dorso della mano sulla linea tagliente dello zigomo.
“Anche se è qualcosa di inopportuno?” chiese Charles piano.
“Charles…”
“Anche se è qualcosa che giudichi insensato?” 
Erik non rispose, limitandosi ad osservarlo a lungo, aspettandosi forse che Charles, trovasse da solo la risposta che più gli piaceva. Lo vide sbiancare dopo un momento.
“Oh, Erik, quanto sono stato cieco” disse infine, allontanandosi da lui ed andando a spostare l’astina, bloccando la musica graffiata. Tornò lentamente da lui, mettendoglisi di nuovo di fronte, dopo aver recuperato il bicchiere.
“Non saprò mai bene come comportarmi davvero, con te, amico mio.”
“Charles…” rispose Erik con un mezzo sorriso. “Sinceramente. Credevi davvero che sarei stato felice di ballare con te?”
“Pensavo…” Charles socchiuse un poco gli occhi, abbassandoli. “Pensavo…”
“Tu pensi sempre” disse Erik sorridendogli, a metà tra il divertito e l‘ironico. “Sempre. Vorrei provare a immaginare cosa ti ha portato a questo.”
Charles si strinse nelle spalle. Il tono di Erik era leggero, ma presupponeva che ora avrebbero dovuto di nuovo affrontare una qualche conversazione spinosa in cui Charles, non era mai sicuro di riuscire a spiegarsi bene.
“Non l’ho immaginato. Insomma…” Charles incrociò le braccia, dopo aver sporto il Cointreau a Eric che ne prese un lento sorso, guardandolo da sopra il bordo, nell’attesa che Charles finisse di parlare.
“Erik io voglio passare del tempo con te. Ma non è possibile passarlo sempre a … Capisci …” Charles gli lanciò un’occhiata rapida e che sperava il più allusiva possibile, pregando che i capelli gli nascondessero le orecchie in fiamme.
“Chi lo dice?” domandò Erik serio, facendo tintinnare il ghiaccio semisciolto contro il vetro.
Charles sollevò le sopracciglia, interdetto. “Il… Il buon senso, ritengo. Ma non è questo il punto, Erik, io so che un giorno…”
Con la fronte sempre più aggrottata, Erik gli ripassò il bicchiere, che Charles prese distrattamente. “Io so che un giorno ti stancherai.”
“Che intendi?” mormorò Erik, un poco perplesso.
Charles guardò il liquido opalescente, quasi come se potesse trovarci la risposta più adatta.
Ho paura che tu possa stancarti di me.
“Ti ritieni così poco interessante?” replicò Erik, gli angoli della bocca che cominciavano a tendersi in un altro sorriso, prima di tornare serio. “Perché ti fa paura qualcosa che non sai nemmeno se succederà?”
“Perché quando ho una cosa bella, ci tengo a non farla allontanare da me.”
Ballandoci assieme?”
“Non stavo parlando di te… Era in generale, stavo parlando in termini figurati, cerca di comprendere”  sbottò Charles, improvvisamente agitato, tanto che Erik dovette trattenergli la mano che reggeva il bicchiere. Charles lo guardò, un poco offeso. “Non sono così sbadato.”
“Farò finta di crederci.”
“Erik...”
Con un’occhiata molto poco convinta, Erik lo lasciò andare, dubbioso. “Non lo capisco, perché dovrei essere io quello che si stanca? Charles, se dovessi io venirti a noia? Cosa dovrei fare?”
“Credo che una simile eventualità non sia possibile” disse Charles serio, aggrottando la fronte, suscitando di nuovo la risata di Erik. 
“Se riguarda te, va bene sminuire tutto vero? L’irreprensibile Charles…”
“Non mi sto sminuendo. Ma è ovvio che venga da pensarlo, Erik.”
“Quando parli di genetica sembri molto più sicuro di te, Charles. Mi dispiace ammetterlo, ma appena esci dal tuo campo, sembri un completo incapace.”
“Dunque questo è il tuo campo?” obbiettò Charles sollevando un sopracciglio nel sentire Erik ridere ancora, girandosi un poco per posare il bicchiere ed appoggiarsi con la schiena alla balaustra. Erik lo imitò, ma ancora non gli rispose. Rimasero in silenzio, a fissare alcune falene instupidite dal riflettore, posto sulla porta d’accesso alla terrazza, che illuminava parte del lastricato con una luce bianca e asettica.
“Non capisco come ti vengano certe idee, comunque.”
Charles scosse la testa guardando fisso davanti a sè, ed incrociando le caviglie. “Non chiedermelo adesso. L‘ho fatto solo perché volevo… Volevo passare del tempo, e…”
“Non potrei semplicemente venire a correre con te ed Hank?” domandò Erik tranquillo.
Charles alzò le spalle, innervosito. “Non voglio che tu mi veda correre, Erik. Sarei impresentabile, tutto… tutto sudato … e accaldato. Non corro da tantissimo tempo e sarei davvero…”
Erik sollevò un sopracciglio, un poco perplesso mentre Charles sgranava gli occhi. “Giusto. E io non ti ho mai visto in quelle condizioni, vero?”
“Erik…”
Cadde di nuovo il silenzio, finché Erik non chiese, con una voce un poco strana:
“Charles, tu pensi… Tu pensi che io sia come una donna?” 
Charles si girò di scatto verso di lui, appena in tempo per vedere che Erik stava di nuovo per ridergli in faccia. 
“Non…” cominciò alzando l’indice e sentendo la pelle del viso tendersi e accalorarsi fin troppo intensamente. “Non…”
Erik gli lanciò uno sguardo obliquo, cercando di congelare il suo stesso sorriso. “Te lo sto solo chiedendo. Non è… Non è un'accusa. Voglio solo capire se è…”
“E’ una sciocchezza, ecco, perché non è così…” ribattè Charles alla svelta fulminandolo con lo sguardo, cercando di dissimulare con l‘ironia il suo disagio. “Ti assicuro che posso capire benissimo la differenza tra te e una… E una donna.”
Erik lo scrutò, le palpebre un poco abbassate sugli occhi scintillanti e un mezzo sorriso sulle labbra.
“Te lo domando perché… Charles, cerca di comprendere, il ballare e qualsiasi cosa tu possa magari progettare…” gli disse, dando un cenno al giradischi. “Forse non fa’ per noi. Tutto qui.”
“Non è mai stato niente del genere” sbottò Charles, preso alla sprovvista. “Non mi sono mai posto questo problema.”
“Seriamente?”
“Davvero. E nel caso tu abbia dei dubbi…” Charles voltò la faccia verso di lui, pregando che il rossore se ne fosse del tutto andato, “Sappi che io non sono così” A me piacciono davvero le ragazze.
Un bagliore interdetto attraversò per un momento gli occhi di Erik, prima di venire sostituito da un‘espressione imperscrutabile.
Charles lo fissò ancora un poco, prima di allontanare gli occhi da lui e seguire la traiettoria di una falena malandata, che si affannava a sbattere contro la griglia di ferro del riflettore, intestardita a battere sempre nello stesso angolo.
Solo che adesso preferisco te.
Charles sorrise e probabilmente Erik doveva aver fatto lo stesso, sentendolo nella sua mente, ma ne ebbe solo la conferma quando sentì la sua mano posarsi a lato del suo viso, prima di avvicinarsi per baciarlo.
Di tutti i modi in cui Erik lo baciava, quello con cui Erik lo baciava adesso era forse quello che Charles preferiva. 
Non era aggressivo, né troppo gentile od indulgente; era come qualcosa di abitudinario, qualcosa che era diventato ormai così normale accettare, che Charles si domandava perché ogni volta dovesse ritrovarsi sorpreso, con il respiro spezzato e la voglia di averne ancora, come se in quel modo potesse appropriarsi di Erik, tenerlo sempre e solo vicino a sé, quasi dovesse impossessarsi di un pezzo di lui, piano piano,
come un collezionista paziente.
Da qualche parte, nell’universo della scienza, Charles era perfettamente a conoscenza che un sistema di leggi e sistemi ormonali poteva benissimo spiegare ogni sua minima reazione, anche il  semplice fatto che non poteva fare a meno di accarezzare Erik, cercando di spingerlo nella parte un po’ più buia della terrazza, facendogli una leggera pressione sui fianchi con le mani e arretrando un poco nell’ombra.
Ma quei sistemi erano tentativi di spiegazione astratti e sterili, rispetto a loro, rispetto a tutto ciò che Charles sentiva.
“Charles” Erik allontano appena la testa, guardandolo di sottecchi. “Entriamo in casa. Qui siamo…”
“No.” Scosse il capo, sfiorandosi distrattamente la tempia. “Stanno dormendo tutti.”
“Charles…” cominciò come se volesse rimproverarlo, ma Charles fu più svelto e premette di nuovo la bocca sulla sua, socchiudendo le labbra finché Erik non si fece di nuovo convincere. Non che ci volesse molto, notò Charles con soddisfazione. Forse era vero, ed Erik aveva ragione. Forse tra loro bastava solo quello, forse l’amore non c’entrava e la notte passata, Charles si era sbagliato.
Forse Erik era solo una cosa nuova che lui adesso voleva disperatamente come sua, perché non aveva avuto mai niente di più vicino…
Niente di più vicino a sé stesso.
“Vuoi ancora andare in casa?” mormorò Charles, cercando di celare l’affanno, tenendo la fronte premuta alla sua, sentendo le mani di Erik che dal stringergli le spalle, erano passate a cingergli saldamente i polsi.
“Fammi sentire a cosa pensi” chiese Erik con un mezzo sorriso, schiacciandolo con il bacino contro la balaustra di pietra. Charles deglutì, mordendosi il labbro, prima di tornare a guardare con un’espressione che sperava il più sincera possibile. “Prova ad indovinarlo.”
Erik scosse un poco il capo, senza perdere il sorriso. “Voglio sentire quello che pensi davvero.”
“Ma Erik…”
Erik lo strattonò via dalla balaustra, di modo che si ritrovarono a fare un mezzo giro su sé stessi. Charles si sentì scivolare a terra, cadendo goffamente sul lastricato. Si sarebbe fatto quasi male se Erik non l’avesse un poco trattenuto, prima che anche lui s’inginocchiasse sul lastricato, tenendolo giù.
“Vuoi picchiarmi?” sbottò Charles con una smorfia divertita, non appena il peso di Erik gli fu quasi del tutto addosso, mal distribuito sulle sue gambe. Erik si piegò su di lui, ridendo piano, schiacciandogli le braccia a terra.
“Abbassa la voce…”
“Hai fatto tutto da solo” sibilò Charles, senza riuscire a trattenere un altro sorriso e una risata gorgogliante. “Dovrò buttare anche questi vestiti, Erik…”
Erik si sistemò un po’ meglio e Charles provò a sollevarsi, divincolandosi dalla sua stretta, ma Erik lo inchiodò di nuovo a terra, cercando di trattenersi dal ridere, almeno finché un cigolio sospetto non attraversò l‘aria. 
“Abbassa la voce!” bisbigliò Charles, sgranando un poco gli occhi. Si girarono di scatto verso la porta metallica. 
A quanto pare doveva esserci della corrente d‘aria, perché la porta sbatté ancora, anche se più  piano, facendo tintinnare il chiavistello ritratto.
Charles alzò un poco la testa, ma Erik stava ancora osservando la porta, incupito.
“Ehi” Charles gli stinse il braccio, sorridendogli gentilmente. “Non è niente. Torniamo in casa, se… Se preferisci…”
Erik lo guardò un attimo e si alzò, togliendosi da lui, ma non si mise in piedi. Anzi, non fece altro che sdraiarsi accanto a Charles che sospirando, si rannicchiò un poco per terra, a guardare con lui il cielo nero.
“Vedi qualche stella?” domandò Charles incuriosito, dandogli una leggera pacca sul braccio, cercando di rompere il silenzio. Lo sentì sospirare, ma solo dopo un po’ la mano di Erik cercò quella di Charles, che accettò di buon grado la stretta, stupendosi nel sentire quanto le loro mani fossero diventate fredde.
“Credevo che non sarei mai più riuscito a stare bene” mormorò Erik dopo qualche altro attimo silenzioso, accarezzando lentamente, con la punta delle dita, le nocche della mano di Charles.
“Se potessi…” gli rispose dopo un momento, “Se avessi potuto scegliere, sarei venuto prima da te.”
Erik sorrise, appoggiando meglio il capo sulla dura e fredda superficie di pietra. “Non mi conoscevi neanche, Charles…”
“Sto cominciando a credere che ti avrei trovato comunque” replicò Charles sfiorandosi la tempia, anche se Erik, sdraiato dalla parte opposta, non poteva vederlo.
“Saresti venuto a salvarmi, Charles?” chiese Erik ridendo e allora, Charles si ritrovò solo a constatare che il suo cuore fu attraversato da una fitta, e all’improvviso la gola gli serrò, stretta, tanto che forse non sarebbe più riuscito a deglutire, ma non come se dovesse piangere.
Solo come se non avesse la risposta, come se non potesse parlare, anche se la conosceva. Era un sì, un maledetto sì… 
Perché Charles, poteva anche girarci intorno ed illudersi che quella fosse solo un‘altra delle sue novità, un‘altra cosa che poteva desiderare, ma era davvero innamorato di Erik. 
Era una considerazione così chiara che avrebbe potuto abbagliarlo.
Temendo di non riuscire a trattenersi, preferì non dire nulla. Lo pensò, si limitò a pensarlo fra sé e sé perchè non voleva condividere i suoi pensieri con lui. Non voleva che succedesse così.
“Credi che ci abbiano sentito?” lo sentì domandargli dopo un po‘, voltando un poco il viso in direzione della porta.
“Dormivano, a quanto ne so…” Charles scosse la testa, levando gli occhi divertiti al cielo. “E se non ci hanno sentito ieri…”
“Sai quanto sarebbe imbarazzante, vero?” chiese Erik pacatamente.
“Per me o per te?” replicò Charles divertito, cercando di allontanare la sua preoccupazione.
“Charles…”
“Chiedevo…” risose Charles in un sospiro. “ E comunque posso sempre cancellarglielo dalla mente.” 
“Lo faresti?” chiese Erik cauto, aggrottando appena la fronte.
Charles pensò a cosa rispondere, ma non se la sentiva di dire menzogne ad Erik.
“Se fossi costretto, sì.” 
Erik non disse nulla. Charles non pensava che Erik si sarebbe messo a giudicarlo, non sull’uso del suo potere, ma quel silenzio era strano lo stesso, da parte sua.
Respirò profondamente l’aria della notte. Era fresca e piacevole sulla pelle, eppure Charles non riusciva a trarne davvero piacere. Una sensazione di freddo, un freddo viscerale che avvertiva solo lui, s’era impossessato delle sue membra.
Come se si sentisse schiacciato ed oppresso, da qualcosa più grande di lui.
“Quando troveremo Shaw, cosa intendi fare?” aggiunse ad un tratto, mentre il silenzio cadeva di nuovo tra di loro.
Charles sentì la stretta di Erik allentarsi e dovette cercare di reprimere sia l’istinto di alzare il capo per guardarlo in faccia, sia quello di entrargli nella mente, per capire come aveva reagito a quella domanda che cercava di porgli da fin troppo tempo.
“Perché vuoi parlarne adesso?” gli disse Erik, con voce fin troppo bassa.
“Perché altrimenti non me ne parleresti mai” replicò Charles con semplicità.
“Questo non è vero. E’ solo che non mi sembra il momento…” disse Erik laconico. “Comunque, non lo so ancora.”
“Non lo sai o non vuoi dirmelo?”
“Charles, cosa vorresti che facessi?” Erik alzò un poco il capo, girandosi verso di lui, in modo da guardarlo.
Charles sorrise appena, inclinando il capo fino ad appoggiarsi alla spalla e rinsaldando la stretta di mano. Le stelle notò, erano del tutto scomparse e il cielo sembrava solo infinitamente nero e vuoto, con qualche cresta di nuvola irregolare, poco più chiara della notte.
“Non voglio essere io a dirti quello che è meglio fare. Vorrei solo che tu lo capisca da solo.”
“Hai mai notato quante volte parli di volere, Charles?”
Charles sorrise, alzando gli occhi al cielo. “Solo quando si parla di te.”
 
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Charles spalancò gli occhi e venne quasi accecato dal verde smagliante.
Vincendone il bagliore, contemplò quel verde marino, che ricordava sia il colore di un camice, sia quello di piante acquatiche.
Ma era troppo omogeneo e lucido per essere naturale.
Non era stata la superficie verde della piscina a catturarlo. Solo i suoi stessi pensieri.
Charles scosse la testa, cercando di provare a non rimuginare ancora su un’altra delle varie sere che ultimamente -sempre- aveva trascorso con Erik. 
Si chiese, tuttavia, perché fosse scivolato proprio nel ricordo della sera della terrazza. 
Era stato…. cinque, sei sere prima, non lo ricordava bene. Era successo proprio dopo la prima sera che Erik era venuto in camera sua, e ancora non riusciva a ricordare perché dopo tutte le rassicurazioni di Erik, sul fatto che anche se Charles si fosse limitato a stare zitto e seduto davanti a lui, Erik l’avrebbe trovato comunque piacevole -adorabile, era il termine che aveva usato-, Charles si era impegnato a inventare qualche altra solenne sciocchezza, astenendosi, fortunatamente, dal chiedere in prestito altre armi a Moira o mettersi volontariamente in situazioni potenzialmente pericolose.
Il trampolino, ormai rotto, era ancora lì, reso monumento alle sue strane inclinazioni e idee di divertimento.
Charles era stato così avventato. Alla meno peggio, avrebbe rischiato di rompersi l’osso del collo, se non addirittura di spararsi addosso.
E volontariamente, oltretutto.
Proprio lui, Charles, che odiava anche la minima influenza, il minimo dolore solo perché poteva debilitarlo, si era messo in testa di rischiare la vita per una dimostrazione.
Forse era per quello che aveva ripiegato su una cosa innocua come il ballo. Solo per divertire Erik, ma Charles era così preso dal considerare divertente quell’idea, che non aveva calcolato che forse Erik non l’avrebbe affatto trovata così. Anzi, forse credeva addirittura che Charles lo considerasse alla stregua di una …fidanzata?
Il pensiero lo fece rabbrividire, ma non certo per dispiacere. Erik aveva ragione, forse in qualcosa Charles era davvero perverso, ma era stato… Non avevano ballato, grazie a dio no, ma anche solo rimanere a guardare per un po’ il cielo, finchè Erik non si era alzato e tenendone stretta la mano, aveva lasciato che lo guidasse di nuovo nella sua stanza… L’aveva reso contento.
Charles si domandava se sarebbe cambiato qualcosa, se gli avesse detto quello che l’aveva fatto allontanare dalla cucina poche ore prima, se gliel’avesse detto una di quelle sere passate. 
Se gliel’avesse detto su alla terrazza o quando, poco dopo essere stato con lui, rimanevano entrambi un poco ansanti a parlare, o anche solo abbracciati, sfiorandosi ogni tanto, aspettando il momento in cui si sarebbero davvero addormentati.
C’erano cose che non poteva dire ad Erik, cose che rimanevano e dovevano rimanere, su piani separati. 
Erik era come una parte di lui che doveva rimanere nascosta ed era così tanto importante, così infinitamente importante, che Charles desiderava solo tenerlo fuori da tutto.
Ogni variabile rappresentava un pericolo. Shaw, Cuba, la vendetta, lui stesso… Charles non poteva controllarlo e questo era ingiusto.
Non voleva controllarlo davvero, ma era una tentazione troppo forte, una necessità… Era innamorato di lui, e questo bastava a giustificare tutto, a mettere tutto in una luce positiva, possessiva.
Sistemò il plico di fogli davanti a sé, lanciando un’occhiata storta ai grafici e ai bilanci, poi abbandonò il tutto sul ripiano smaltato del tavolino, allungandosi sulla sedia e recuperando la sua Seltz&Lime.
Come avrebbe fatto ad evitare Erik, evitarlo fino a…
Non poteva evitarlo, avrebbe dovuto vederlo. E soprattutto, voleva vederlo, anche se non avrebbe mai saputo come comportarsi, adesso.
C’era ancora una bruciante vergogna, mista a piacere nel ripensare alla scena di quel mattino.
Erik era stato gentile e Charles, Charles si era lasciato trasportare. 
Si chiese perché avesse trovato attraente, l’idea di farlo con Erik in cucina, quando tutti avrebbero potuto vederli. La sola voglia di stare lì, davanti a lui, a tracciare con le dita il contorno dei morsi che gli aveva fatto, a toccarlo e a farsi toccare, concentrandosi lo sul fatto che non avrebbe mai voluto smettere di baciarlo.
Era stato qualcosa che in quel momento l’aveva del tutto destabilizzato, alterando la sua capacità di giudizio. 
Come se l’averlo ogni sera non fosse abbastanza, come se si fosse fatto … non c’era altra parola, trascinare. 
L’intera idea era sbagliata, l’intera maledetta successione di eventi, lo era. Lui aveva sbagliato, perché se avesse mantenuto il controllo, non gliel’avrebbe detto. Non gli sarebbe nemmeno sembrato poi così importante …
Si passò una mano sul viso, sentendolo arrossato. Si vergognava, ma non poteva fare a meno di pensarci, non poteva fare a meno di chiedersi se sarebbe successo di nuovo. Non riusciva a non rimpiangerlo veramente.
Avrebbe dovuto tenere per sé quello che pensava davvero su cosa lo legava ad Erik, ma non l’aveva fatto ed ora, era solo vittima dell’umiliazione e della pietà verso sè stesso. Ed era costretto ad arrabbiarsi, ad essere arrabbiato con Erik, perché non aveva la minima idea del perché si fosse comportato così, del perché se ne fosse andato.
Poteva guardargli nella mente, certo, ma Charles non se la sentiva di risolvere la questione in quel modo. Era troppo importante, doveva risolverla con lui, anche se la sua unica tentazione adesso, era cercare un modo per evitarlo.
Lanciò uno sguardo obliquo al bicchiere. Non faceva tanto caldo. Avrebbe potuto prendere qualcosa di più, non aveva affatto bisogno di un qualcosa di così insipido e soprattutto, analcolico.
Il sapore amaro in bocca lo disgustava e con un sospiro contrito, non poté che alzarsi dalla sedia, avvicinandosi a passi lenti al bordo della vasca. Con uno scatto, mosse il braccio e una liquida striscia di seltz si disegnò nell’aria, prima di cadere e dissolversi nell’acqua piscina, che si rifletteva negli occhi spenti di Charles. 
Era ancora arrabbiato e non si stupì quando, con un gesto meccanico, fece finire anche il bicchiere nella vasca, lanciandolo verso il centro, lo sguardo fisso. E allora, avvertì la presenza di qualcuno che si era avvicinato. 
Era qualcuno a cui non credeva di dover dare nessuna spiegazione per quel gesto, perciò, con un altro sospiro e gli occhi guardinghi, incrociò le braccia, aspettando che Erik si avvicinasse.
L’avrebbe mandato via, già lo sapeva. Era troppo a disagio, perché potesse affrontarlo.
 
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“Và via” gli disse Charles a voce bassa, continuando a guardare davanti a sé. 
“Charles…”
“Per favore.” 
Erik sentì il tono quasi addolcirsi e per un attimo pensò che forse era tutto passato, che Charles avrebbe capito, che gli avrebbe permesso di spiegarsi. Che avrebbe messo da parte la sua reazione di quella mattina, giungendo a capire che entrambi avevano sbagliato. 
Non era così, quando lo vide allontanarsi dal bordo della vasca, dandogli le spalle e cominciando a raccogliere i fogli sul tavolino, più velocemente che poteva, affastellandoli con malagrazia.
“Per favore, vattene via” ripeté in tono smorzato. “Per favore, torna …”
Erik si era accorto di non poter sopportare quella cantilena, così si era avvicinato e ignorando le alte finestre della villa in lontananza, l‘aveva afferrato per le spalle, cercando di tirarlo verso di sé.
“Smettila” gli disse quasi all’orecchio, con la voce che gli usciva roca dal fondo della gola. Era quasi certo di sentire il cuore di Charles battere con un ritmo più accelerato, ma era così crudele non riuscire a guardarlo in viso e non capire cosa volesse fare. 
Finché non lo senti divincolarsi ed Erik dovette lasciarlo andare. Alcuni fogli gli erano sfuggiti dalle mani, ma Charles non si chinò a raccoglierli anzi, si girò verso di lui, pronto ad affrontarlo, la fronte corrugata.
“Non voglio dover sentirmi in contrasto con te, Erik. Non voglio litigare per una sciocchezza. Se…” Charles abbassò un momento il capo, inspirando appena e tornando ancora a guardarlo. “Domani sarà tutto finito. Dobbiamo affrontare Shaw come alleati e non è mia intenzione complicare la situazione. Pertanto, amico mio…”
“Mi dispiace per quello che è successo.”
“Non è successo niente” replicò Charles in tono fermo. “Va bene così.”
“Charles, tu non…” Erik si accorse di non sapere cosa dire. Come giustificarsi. 
Non poteva né raccontare la verità, né mentirgli. In entrambi i casi avrebbe fatto qualcosa di sbagliato. 
In entrambi i casi, avrebbe fatto un torto a qualcuno. Perché Charles si era instupidito tanto da dirgli una cosa del genere?
“Tu sei qui solo perché è ciò che ti conviene. Nient‘altro” disse Charles con semplicità, lanciando un’occhiata di sbieco alla piscina. Niente riflessi del sole oggi, sull’acqua; solo un verde smorto, il connubio delle piastrelle e del cielo plumbeo.
“Sono stato così ingenuo da fingere di averlo dimenticato, da non pensarci…” proseguì Charles, chinandosi a raccogliere due fogli ai suoi piedi. Sembrava sorridergli quando tornò a guardarlo, soffocando una risata, in cui mostrò appena i denti candidi. “Credevo davvero che fosse vero.”
Erik sapeva che la teatrale scelta del passato non era casuale. Avrebbe apprezzato di più che Charles d’introducesse nella sua mente, cercando la verità che lui non poteva rivelare. Voleva dirgli che era vero. 
Ogni singolo gesto, ogni singola parola. Ogni singolo istante che aveva passato con lui, Erik lo sentiva, era un singolo istante per cui era valsa la pena mettere da parte la rabbia e il dolore. Dimenticare la vendetta, l’abbandono e tutte le complicazioni che la sua solitaria esistenza comportavano. Charles riusciva a farle sparire del tutto e non perché fosse perfetto o infinitamente speciale, ma proprio perché aveva dei difetti, perché era quasi umano ed eppure non lo era. Perché era Charles. 
Non sembrava essere niente all’inizio, ma inspiegabilmente, per Erik era diventato tutto. 
Lui stesso, era stato così cieco da non pensare che anche per Charles fosse così, solo perché sarebbe stato troppo bello da concepire. 
Non aveva capito quanto lui stesso era importante per Charles, perché era troppo preso a pensare a quanto Charles, fosse importante per lui.
Era stato tutto vero. Non ammetterlo, non rendersi conto di quello che era stato e che c’era ancora, perché Erik si rifiutava di accettare che dagli occhi di Charles fosse sparito quello scintillio sincero, era insano.
Ma non riuscì a contraddirlo. Ribattere, avrebbe significato rinunciare a Shaw, cedere all’idea di vendicarsi e mancare alla promessa che aveva fatto a sé stesso. Avrebbe distrutto lo scopo che lo portava ad essere lì, di fronte a Charles. Lo avrebbe reso impotente, obbligato ad una scelta che per quanto piacevole, non poteva fare perché avrebbe precluso qualcosa che avrebbe voluto comunque. 
Avrebbe voluto accettare quello che Charles gli aveva detto quel mattino, senza riserve, ma non ci riusciva, non del tutto.
Avrebbe significato arrendersi e per tanto, l
’amore di Charles poteva apparirgli reale solo nella luce di essere un ricatto. 
Qualunque cosa fosse passata per la testa di Charles quella mattina, non era amore. Raven forse aveva davvero ragione.
Era solo mero egoismo e aveva avuto l’arroganza di pensare che per lui, Erik, sarebbe stato facile da accettare.
Che ne sarebbe stato solo… felice, senza complicazioni.
Guardando Charles davanti a lui, ripensò a tutte le volte in cui aveva ribadito che sarebbe stato meglio con Moira. A quando aveva provato ad allontanarlo, vedendolo così confuso e incerto.
Non erano cose che avesse mai voluto davvero. Aveva invece ottenuto tutto l’opposto e non se ne sarebbe mai pentito, ma non poteva accettare che Charles desse un prezzo e stabilisse un legame preciso fra di loro. 
Non così, non ora che era così vicino a Shaw.
“Charles…”
“Charles! Charles!” Charles sgranò gli occhi, flettendo le dita. “Non sai dire altro?” gli domandò aspramente, prima di mordersi il labbro e cercare di assumere un’espressione più composta, prima che i lineamenti gli si componessero in un’aria profondamente colpevole.
“Non sono un ragazzino. Non ho bisogno…”
“Non è questo che penso di te” lo corresse bruscamente Erik. “Tu sei come me.”
Charles appoggiò le carte sul tavolino, incrociando le braccia. “Non è così.”
“Ti sto solo chiedendo di capire.”
“Allora dimmelo in modo chiaro, perché io non sono in grado di comprenderlo.”
“Certo che puoi.” Erik fece un cenno verso la sua tempia, lanciandogli uno sguardo allusivo. Charles scosse la testa in un cenno di diniego.
“Non è così che intendo risolvere questo problema.”
“Da quando è un problema?”
“Lo è sempre stato, Erik. Non è mai stato semplice, ma ho solo creduto che potesse funzionare.”
“Charles, il tuo funzionare vuol dire chiudere tutto fuori Westchester, tutto fuori…”
“Puoi biasimarmi?” replicò di slancio, aggiungendo: “E comunque non è vero.”
“Charles, essere qui… stare qui… Non è mai stato niente di definitivo, non adesso, per quanto tu possa fare progetti nella tua testa. E tu lo sapevi” proseguì Erik con calma.
Charles annuì piano, questa volta senza contraddirlo. “Lo so. Me ne rendo conto, non passerei tutto quel tempo a cercare di capire cosa dovremmo fare con Moira se non…”
“Perché ho l’impressione che tu lo viva solo come un passatempo? E’ quella la cosa più importante, Charles. E’ come se tu te ne sia quasi dimenticato, come se la cosa principale fosse diventata…” Erik non finì la frase. Non aveva voglia di specificare tutto, Charles quello poteva comprenderlo, perché era la stessa cosa che riusciva a leggere dietro ai suoi occhi, improvvisamente opachi.
“Credi che sia incapace di affrontare il resto?”
Erik scosse la testa. “Non sto dicendo questo.”
“Però pensi che io non sia in grado di distinguere quello che è giusto fare da… Da… Maledizione” Charles strinse le mani a pugno. “Non so neanche perché ne stiamo parlando. E’ stata una nostra scelta, Erik.”
“Di cosa stai parlando adesso?”
Charles arrossì, suo malgrado. “Del fermare Shaw. Dell‘essere qui. Non ho intenzione di venire criticato da te per questo.”
“Non ti sto criticando. Ti ho sempre appoggiato e qualunque cosa deciderai di fare…”
“Mi appoggerai anche se decidessi di non intervenire? Io non credo.”
Erik lo scrutò severamente, un poco adirato. Perché Charles doveva essere così cieco? “Ci sono cose che possono essere risolte solo affrontandole, basta con il cercare compromessi.”
“Se non volessi aiutare la CIA, sarebbe una scelta definitiva. Questa scelta andrebbe bene a te?” gli domandò Charles sardonico.
“Charles” sbottò Erik, irritato. “Questo è fuori questione. Non dirmi che il tuo senso del dovere si è compromesso a tal punto, perché allora sei più sprovveduto di quanto pensassi.”
“Era solo una possibilità” sibilò Charles, fissandosi le mani. “Non ho più intenzione di veder morire nessuno, di non vedere ferito nessuno, anche se sarà uno scontro. E non ho intenzione di tirarmi indietro, l‘ho promesso a Moira.”
Erik cercò di ignorare il fatto che Charles sembrava tirare fuori un po‘ troppo spesso il nome dell‘agente MacTaggert.
“Questo è quello che mi aspetto da te.” 
“Certo” Charles fece ancora quel sorriso strano, quello in cui sembrava quasi che si mordesse il labbro, mentre distoglieva lo sguardo. Quel sorriso che ad Erik piaceva, ma che ora riusciva a vedere solo come qualcosa di falso e sarcastico. Nonostante Charles non possedesse né l’una né l’altra inclinazione.
“Ma se lo facessi, tu cosa faresti?” disse, approfittando del silenzio di Erik. “Tu ti aspetti qualcosa da me perché ti porterà a Shaw, Erik.”
“Questo è vero” concordò Erik con semplicità. “Ma perché, appena dobbiamo affrontare qualcosa che non sia solo quello che riguarda solo te o me, dobbiamo…” Erik scosse la testa, guardandolo interrogativo. “Perché è così difficile accettare che c’è dell’altro? Oltre a te e me, Charles.”
“Perché per te c’è solo Shaw, Erik” disse Charles, lasciandosi per un momento andare all’esasperazione. “Ma c’è qualcosa di più di una singola vendetta. Non siamo più solo noi, siamo noi e il mondo e ti assicuro che non sto ignorando questo. Non ho scordato che c’è qualcosa da portare avanti.”
“Non saremmo qui altrimenti e non si è mai trattato di te o me, non all’inizio” aggiunse. “E‘ stata solo una conseguenza.”
“Le conseguenze sono inevitabili, Charles” affermò Erik con un mezzo sorriso, che Charles sembrò quasi ricambiare quando disse:
“Allora chiamiamolo incidente” gli sorrise, ma gli occhi erano vacui e dolenti.  
“C’è qualcosa di più grande che non riguarda noi, Erik. Cercare di trovare un equilibrio con gli altri è un obbiettivo ben più importante di Shaw e di quello che avverrà domani. Più grande di quello che vuoi tu e di quello che voglio io, e se sbagliassimo qualcosa… Ci ritroveremmo tutti contro, forse. Non voglio ignorare questa possibilità. Ma non chiamarmi ingenuo, se pensi che io non sia in grado di capirlo o che io, sia così egoista da dimenticare tutto il resto, amico mio.”
Erik annuì lentamente; si sentiva quasi convinto. Charles in fondo era così. 
Lui voleva andare d’accordo, mettere d’accordo. L’idea di un conflitto poteva destabilizzarlo, ma non fermarlo. Erik era pronto a riconoscere di avere sbagliato a dargli dell‘egoista, su quell‘argomento.
Charles non faceva esclusive, non faceva scelte. Si adattava, sistemava le cose, cercava il compromesso, tutto per risolvere e mettere a posto, e nel fare questo, non si arrendeva. Tuttavia, Erik provò ancora a domandarsi che tipo di compromesso implicasse il fatto che Charles fosse innamorato di lui.
Ma a parte considerare che quell’ammissione non fosse altro che un ricatto, non riuscì a trovare altro.
Rimasero per un po’ in silenzio, finché Erik arrendendosi, provò a chiedere se ora era tutto a posto. 
Se tutto era risolto, se mai c’era qualcosa da risolvere.
“Non lo so” rispose Charles, avvicinandosi al bordo della piscina, scrutando la superficie dell’acqua. 
Erik rivide sé stesso lanciarsi in acqua con lui, ricordando la sensazione di stringerlo e il modo in cui si era messo a ridere quando erano riemersi dall’acqua. E ora era fermo lì, e non lo guardava.
“Mi stai leggendo nella testa Charles?” gli domandò all’improvviso, incurvando appena le sopracciglia. Non sapeva perché gliel’avesse chiesto, ma forse non era stata una mossa sbagliata, perché quando Charles si voltò, sgranò gli occhi, le mani tanto serrate che le nocche erano sbiancate.
“Non…”
“Lo stavi facendo?” continuò Erik. Non era arrabbiato, ma si rendeva conto che la rabbia sarebbe sopraggiunta molto presto, se Charles non si fosse affrettato a spiegarsi.
I suoi occhi si fecero stranamente risoluti quando rispose: “Non ti ho mai promesso che non l’avrei fatto.”
“Non giocare con me, Charles” ribatté Erik, guardandolo allontanarsi dal bordo e mettersi di nuovo davanti a lui, ma ancora distante.
“Te lo chiedo per favore.”
Charles sembrò incassare il colpo, rimanendo in silenzio, sapendo forse quello che Erik aveva intenzione di dire adesso. Perché non c’era un vero e valido motivo da parte sua per avercela con Erik, non sul piano della missione a Cuba. Era un motivo che era solo nella testa di Charles e che chissà perché, non aveva la forza di trattenere dentro di sé. Alzò gli occhi su Erik, cercando di costruirsi una facciata indecifrabile, affrontando le sue parole.
“Ti comporti così solo perché non ti ho detto…” 
“Non voglio sentirlo. Non mi importa, è stato solo un errore” replicò Charles in fretta impedendogli di continuare, torcendosi  un poco le mani. Erik continuò a scrutarlo, inflessibile.
“Guardami e dimmi che non è vero.”
Charles distolse lo sguardo. Non era mai stato tanto in difficoltà in vita sua. Le increspature calme dell’acqua sembravano un rifugio tanto invitante. Vide che l’asse spezzata del trampolino e la marea di schegge di legno si erano arenate in uno degli angoli, galleggiando pigre e impregnate d’acqua, come mosche morte. Avrebbe dovuto far rimuovere quell’obbrobrio. Portare via tutto, rimettere tutto a posto e in ordine, come era all’inizio…
“Non volevo andarmene questa mattina. Ma non sapevo cosa risponderti. Non lo so nemmeno ora e puoi pensare che non ti abbia risposto perché Shaw è più importante” Erik fece una pausa, ma poiché Charles non rispondeva, proseguì:  “Puoi anche pensare questo, perché io non lo so, Charles. Non lo so.”
“Non voglio nessuna risposta” replicò Charles con calma. “Non importa. Ho sbagliato.”
Erik sospirò. Non sapeva davvero cosa dirgli. Non l’aveva saputo quella mattina, quando l’unica risposta possibile gli era sembrata quella di andarsene, e non lo sapeva adesso, mentre si sentiva invadere da un sentimento che, disgraziatamente, era fin troppo simile ad una vaga pietà,
per Charles e per sé stesso.
“Non volevo ferirti Charles. Sai che non lo vorrei mai.”
Charles lo guardò, raddrizzando le spalle. Erik banalmente si ritrovò a considerare quanto fossero azzurri quegli occhi e quanto era diverso il modo in cui lo guardavano adesso.
“Ma l’hai fatto, Erik. E forse non è poi così importante, perché non conta più… Dopo domani non conterà più.”
Era la sua prima ammissione sincera. O forse voleva solo esserlo, perché probabilmente stava solo cercando di appianare le cose, in vista dello scontro con Shaw. Ma nonostante quella fosse la strada giusta, ora Erik non se la sentiva di accettare quella correttezza, quella diplomazia. Perché si sarebbero rivoltate contro entrambi.
Ricordò lui e Charles pochi giorni prima, sul bordo di quella stessa piscina. A quello che gli aveva detto, al voler ribadire che non gli avrebbe mai permesso di farsi o subire del male, in qualsiasi forma, in qualsiasi modo. Era stato solo felice.
“Ci sono cose più importanti, Charles” disse Erik laconico. Si accorse di non provare niente nel dirlo; era come essere un automa, dire le cose nel tono più inflessibile, lasciar trasparire il meno possibile. 
Ma era crudele, così tanto crudele, dover fargli sempre del male e trovarlo sempre piacevole, a dispetto della sofferenza che questo provocava ad entrambi. Erik non poteva certo lasciarlo così… Non voleva, combattuto tra il chiedergli di perdonarlo e l'essere freddo.
“Tu sai come mi sento quando sei con me. L’hai visto, e lo sai. Io sto bene con te.”
Charles fece una breve risata, come se volesse apparire incredulo, arretrando un poco, anche se erano già lontani l‘uno dall‘altro.
 “Stare bene. Certamente.”
“Non posso mentirti inventando cose che non sono assolutamente vere. Non sarebbe onesto” proseguì Erik.
“Non è…” cominciò Charles, passandosi una mano sulla fronte. “L’ho detto ma non è vero. Lo penso ma non posso dirlo, Erik io non lo so, non riesco a pensare di poter essere così, non è giusto.”
Erik si chiese cosa intendesse dire, perché a quanto pareva nemmeno Charles aveva capito quello che lui stesso aveva detto. Forse era meglio chiudere in fretta quella conversazione, tentare di chiarire quello che sembrava affliggere Charles. 
“Charles non potrei mai darti di più. Non posso prometterti… ”
“Io non ti ho chiesto niente” disse Charles a voce bassa, andando a recuperare il plico di fogli, tenendoli sotto al braccio, raccogliendo quelli caduti e rimasti a terra. “Io non l’ho detto perché voglio qualcosa in cambio.”
Erik fece un passo verso Charles, flettendo il braccio, come se volesse tenderlo verso di lui, per farlo voltare e guardarlo in faccia. Perché non c’era nessuna ragione per essere in conflitto, non c’era nessun motivo per mettersi l’uno contro l’altro.
Ma erano troppo distanti, ed Erik non gli si avvicinò.
“Perché allora sembra che tu pretenda qualcosa da me? Che cosa vuoi davvero, Charles?”
“Fare finta che non sia successo.”
“Mi hai già detto queste parole, Charles. E non hanno affatto funzionato.”
Lo vide ancora scuotere il capo, guardandolo di sbieco. “Mi hai frainteso. Intendevo… parliamone dopo domani. Sempre se…” contrasse un poco la fronte, stringendo un poco più saldamente il plico di carte. Poi sollevò il viso su di lui e lo guardò: “Non ha senso rovinare l’ultimo giorno a Westchester parlando di questo.”
Sembrava sereno, come se la sua strana forma di nervosismo si fosse dissipata del tutto. 
Erik accennò un sorriso gentile.“Giusto.”
“Io torno a casa. Devo parlare ancora un attimo con Moira.” 
Lanciò un’ultima occhiata alla piscina ed Erik capì, anche senza seguirne lo sguardo, che la sua attenzione era rivolta al tratto di bordo dove si erano seduti mattine prima. 
Se con intenzione o per casualità, non lo sapeva.
Si guardarono ancora per un po’, finché Charles non cominciò ad arretrare, voltandosi. Non gli chiese nemmeno di accompagnarlo, tuttavia, quando ebbe fatto due passi, lo vide girarsi ancora verso di lui, sorridendogli amichevolmente.
“Dopo cena potremmo fare una partita a scacchi.”
“Come sempre” rispose Erik sedendosi al tavolino, senza nemmeno guardarlo avviarsi.
 
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Erik non poteva dirgli che lo amava. 
Non sarebbe stato del tutto onesto, anche se c’era una parte di lui che sapeva, sapeva che Charles era la risposta. Una parte di lui che avrebbe voluto restare a Westchester, così, per il resto del tempo a venire.
Quando era con Charles, ogni altra opzione veniva rimossa e niente, fuorché lui, aveva importanza. 
Ma ora che Shaw era più vicino e più pericoloso, Erik doveva fare quel che andava fatto. 
E quello era qualcosa che Charles non sarebbe stato in grado di concedergli. L’avrebbe considerato un punto di non ritorno.
Provare a considerare che l’amore di Charles non fosse niente più che un sentimento egoista, sembrava rendere tutto più semplice e lineare… Ma Erik non riusciva a convivere con l’idea, ben peggiore, che forse era vero.
Charles si era messo fra lui e Shaw, l’unico motivo per cui era sopravvissuto per quasi vent’anni.
L’unico scopo con cui aveva convissuto, andando avanti da solo.
Questo imponeva una scelta che Erik non voleva fare.
Avrebbe voluto stare con Charles, assecondare il suo desiderio di rimanere a Westchester con lui, risolvere e lottare per la situazione inevitabile che si sarebbe creata dopo Cuba, se mai sarebbero riusciti a tornare indietro vivi da laggiù…
Ma Erik, Erik doveva togliere di mezzo Shaw. Non c’era futuro per lui, se l’assassino di sua madre era vivo. 
Era colpa di Shaw, se ora lui era così, pieno solo di rabbia e odio, incapace di accettare qualcosa che non fosse bello e amabile, condannato a vivere con il terrore che potesse essergli tolto, condannato a convivere solo con un’ombra di minaccia.
Accettare Charles e tutto quello che comportava, avrebbe significato rinunciare all’idea di liberarsi di quel senso di oppressione ed infelicità. Accettare di dimenticare e mettere da parte l’odio per quello che gli avevano portato via una vita normale. Per questo, Erik doveva uccidere il suo creatore.
Ma così facendo, l’idea di riprovare a costruire tutto non appena Shaw fosse morto, si dissolveva nel nulla, acquistando contorni sempre più sfocati, una concretezza sempre più sfuggente e indeterminabile.
Il futuro, rappresentato da Charles era destinato a sparire. 
Non era mai esistito, se non nello spazio di pochi giorni e ora, Erik avrebbe solo dovuto essere onesto con lui ed andare avanti, con la minima speranza che forse, una volta che tutto fosse finito, Charles sarebbe riuscito a comprenderlo.
Allora, forse, lo avrebbe amato.
 
 
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“Allora è davvero per domani.”
Erik si appoggiò un momento allo stipite della porta, incrociando le braccia. Il suo sguardo attraversò la stanza, soffermandosi al centro, dove era seduto Charles, a testa bassa. Lui alzò gli occhi poi, con un cenno e dopo aver disposto i pezzi sulla scacchiera, gli fece cenno di entrare.
“E’ così” disse, quando lo vide sedersi di fronte a lui. “Vuoi bere qualcosa?”
Erik annuì lentamente, osservandolo allontanarsi verso una consolle alla parete carica di bottiglie e servizi da cocktail, afferrando alla svelta i bicchieri.
“Mi dispiace per oggi.”
La schiena di Charles s’irrigidì. Erik sentì la bottiglia di scotch venire posata sul ripiano forse un po’ troppo bruscamente, prima che lo vedesse ricominciare ad armeggiare col ghiaccio in uno dei secchielli.
“Non parliamone più” Charles si girò, portando i bicchieri sul tavolino, posandoli lentamente, prima di rialzarsi con un’espressione corrucciata. “Non ti ho nemmeno chiesto cosa volevi” disse piano.
“Che cos’è?” 
“Chandon” disse Charles prendendo posto di fronte a lui, posando lentamente le mani sui braccioli della poltrona bassa. “Möet e Chandon.”
Ringraziandolo con un sorriso un po' debole, Erik afferrò il bicchiere, dopo un averlo levato in un lieve brindisi che Charles non sembrò interessato a ricambiare. Si limitò a sorridergli con fin troppa cortesia e a far avanzare uno dei suoi pedoni.
Dopo un'ultima lunga occhiata verso di lui, Erik ne prese un breve e lento sorso.
“Non è veleno, come vedi” mormorò distrattamente Charles ma con un luccichio deciso negli occhi, aspettando la successiva mossa di Erik.
“Non mi ha nemmeno sfiorato la mente” replicò Erik tranquillo, muovendo uno dei suoi pezzi e congiungendo la punta delle dita. “Da te mi aspetterei qualcosa di più elaborato.”
Charles si morse il labbro, contraendo appena le sopracciglia sottili. “Non volevo finire a parlare di questo. Scusami.”
Erik levò un poco il capo, scrutandolo fin troppo intensamente. “Se non ti va’ di giocare…”
Charles si limitò a spostare un altro pedone, in direzione opposta alla mossa di Erik, che considerò il suo gesto una risposta sufficiente.
Erik cercò inutilmente di capire a cosa pensasse, ma il suo sguardo era fin troppo sfuggente per chiarirglielo, finché lui stesso non pensò:
Sei di nuovo nella mia testa, Charles?
Lo vide trasalire appena, stringendo i braccioli della poltrona, come se cercasse di trattenersi, finché non si decise ad incrociare il suo sguardo.
Sì.
Erik sorrise, vinto. Fece una mossa a caso sulla scacchiera, senza riflettere e prendendo in mano il suo bicchiere. Spero tu  abbia trovato quello che ti interessa.
Charles scosse la testa. Voglio solo… Voglio solo che tu capisca che quello che faremo domani… “… non è importante solo per te, Erik.”
“Hai usato di nuovo la parola ‘voglio’, Charles” mormorò Erik tranquillo, guardandolo spostare un altro pezzo.
Lo stava accerchiando. Per un po’ giocarono in silenzio, ma Erik non chiese più a Charles se fosse ancora nella sua mente.
“Non stavo cercando quello che credi” replicò infine Charles con altrettanta calma, dopo aver tolto di mezzo uno dei suoi alfieri. Erik diede ancora uno sguardo alla scacchiera, bevendo un altro sorso di Chandon.
“Perché Shaw è diventato tanto importante per te, Charles?” gli domandò, anche se ormai, la risposta era chiara. Era fin troppo stanco dei tentennamenti di Charles, del suo girare attorno alle cose; forse era davvero ora di parlare direttamente. Non aveva più voglia di trucchi o lunghi discorsi. 
Niente più cose come la discussione che avevano avuto ore prima, nel parco.
Charles sospirò prima di fare la sua mossa, allontanando la mano dalla fronte.
(*)“Cuba… Russia, America… Non fa’ differenza. Shaw ha dichiarato guerra all’umanità, a tutti noi” disse, accavallando le gambe e raddrizzando la schiena contro allo schienale.
Erik lo guardò. In quel momento, avvertì che la scacchiera, quella facciata di cortesia, quella stanza, tutto era inutile. Lui voleva solo essere onesto su quello che sarebbe successo, qualcosa che Charles non sembrava essere in grado di accettare, esattamente come la reazione di quella mattina.
Era il momento di andare avanti. Di mettere le cose a posto.
“Io non voglio fermare Shaw” disse Erik, guardandolo intensamente. “Voglio ucciderlo.”
Gli occhi di Charles s’incupirono, diventando quasi freddi. Erik avrebbe voluto sorridere di quell’espressione fin troppo seria e immota, ma non poteva farlo. Sentiva ancora la sua espressione severa su di lui, quando, dopo aver posato il bicchiere sul mobile a fianco, si chinò verso la scacchiera muovendo un altro pezzo per liberarsi dall’accerchiamento.
Charles l’avrebbe senz’altro considerato un tradimento, forse l’avrebbe odiato. Ma con sua sorpresa, Erik si rese conto che non gli importava più, perché se Charles non era in grado di accettare qualcosa di tanto lineare, tanto giusto, forse Raven aveva ragione e Charles era davvero solo un egoista. 
Per questo, non si sentì quasi per niente in colpa nel domandargli con calma:
“Tu sei in grado di permetterlo?” 
Tolse un altro pezzo al suo esercito, continuando a guardarlo anche quando si curvò sul tavolino, appoggiando i gomiti alle gambe e unendo le mani, gli occhi fissi sulla scacchiera. Sembrava quasi che avesse voluto soffocare un verso simile ad una risata, ma se perchè l’aveva sempre sospettato o solo per disprezzo, Erik non lo sapeva.
“Sapevi fin dall’inizio perché ero qua, Charles. Ma le cose sono cambiate” continuò Erik con decisione, ma mantenendo il solito tono pacato. “E’ iniziata come una missione segreta, ma domani l’umanità saprà che i mutanti esistono. Shaw, noi, non faranno differenza.”
Charles smise di fingere di stare studiando la sua mossa successiva ed alzò gli occhi su di lui.
“Avranno paura di noi e la paura si trasformerà in odio” proseguì Erik con decisione.
“No. Non se impediamo una guerra, se riusciamo a fermare Shaw rischiando la nostra vita per riuscirci” replicò Charles, la fronte aggrottata e le spalle curve, scuotendo appena il capo. Aveva distolto appena il suo sguardo, ma Erik finalmente vedeva della risolutezza nei suoi occhi.
“Loro lo farebbero per noi?” gli domandò ancora, con un sorriso storto.
Charles gli restituì uno sguardo impassibile. “Ciò che abbiamo deve renderci uomini migliori.” 
Erik spalancò un poco gli occhi, sorpreso. “Lo siamo già. Siamo lo stadio successivo dell’evoluzione umana, sei stato tu a dirlo ” gli spiegò irrequieto, ma Charles scosse la testa sillabando un deciso ‘no‘ e bevendo un altro sorso del suo scotch, abbassando gli occhi sulla scacchiera e rifiutandosi di guardare Erik. 
Perché Charles non capiva? Era così semplice, non c‘era affatto bisogno di giocare con l‘idealismo e le grandi ambizioni. Certo, non era in grado di capirlo davvero perché non l’aveva vissuto, ma avrebbe potuto immaginarlo.
Avrebbe potuto vederlo e l’aveva visto in lui, Erik era l’esempio perfetto. C'erano obbiettivi che richiedevano prezzi fin troppo alti, ma non erano sbagliati se portavano ad uno scopo.
Eppure Charles continuava a chiudere gli occhi di fronte a quella così lampante verità. Non lo guardava nemmeno più in faccia adesso, e questo innervosiva Erik ancora di più. “Sei così ingenuo da non credere che non lotteranno per la sopravvivenza della loro specie?” 
Charles non rispose, così che Erik esasperato da quell’atteggiamento, gli domandò sprezzante:
“O la tua è arroganza?”
Charles adesso lo guardò, punto sul vivo, la fronte appena contratta.
“Scusami?”
“Dopodomani si rivolteranno contro di noi,  ma tu non vuoi vederlo perché tu credi che siano tutti come Moira” gli spiegò con calma. Non voleva fare il nome dell’agente MacTaggert, ma quello doveva essere senz’altro uno dei motivi per cui Charles trovava gli esseri umani tanto… adorabili.
“E tu credi siano tutti come Shaw” replicò Charles impassibile, osservandolo. 
Erik rimase in silenzio, perché in parte era vero, ma a ragione. Tutti gli uomini erano potenziali Sebastian Shaw, se la situazione lo richiedeva, perché erano esseri inferiori che avrebbero solo provato paura e terrore di fronte a loro, a quello che erano lui e Charles.
E la paura rendeva gli uomini cattivi e abbietti, e lui, Erik, lo sapeva fin troppo bene. 
Charles si chinò ancora un poco verso di lui. Parlò in tono calmo e fermo, ma gli occhi erano decisi e ogni luccichio dubbioso od offeso che fosse, si era ormai dileguato dal suo sguardo.
“Ascoltami con molta attenzione amico mio” disse lentamente. “Uccidere Shaw non ti porterà la pace.”
Erik scosse la testa, accennando appena un sorriso sicuro. “La pace non è mai stata un’opzione.”
“Ma esistono le scelte, Erik” ribatté Charles a bassa voce, riappoggiandosi allo schienale, trattenendo il bicchiere tra le mani pallide. “Il fatto che tu non voglia farne, non implica che queste non esistano.”
“Dovrei scegliere tra Shaw e te?” mormorò in tono tranquillo, limitandosi a guardarlo arrossire violentemente, gli occhi più cupi che mai. “O fra l’uccidere e il non uccidere?”
“E’ una semplice distinzione tra giusto e sbagliato, Erik. Una semplice…” ribattè Charles, sbattendo un po’ troppo forte il suo bicchiere sul tavolino, facendo tremare gli scacchi della partita ormai dimenticata. “Per te non può esserci altra soluzione?”
“Credimi, vorrei tanto che ci fosse” disse Erik, distogliendo lo sguardo da lui. “Ma io voglio che Shaw muoia. E voglio essere io ad ucciderlo, perché è questo che voglio e che devo fare, Charles.”
Charles scosse di nuovo la testa, mormorando ‘no’ fin troppe volte, tanto che Erik, infastidito, si alzò di scatto e si protese verso di lui, posandogli una mano sulla spalla. Charles si divincolò ed alzò il viso, gli occhi carichi di disapprovazione.
“Non sono in grado di lavare via il sangue che c’è sulle tue mani, Erik” mormorò in tono fermo. “Né quello che ci sarà, se vorrai andare avanti con quest’idea insana.”
“Ma io non te l’ho chiesto” rispose Erik gentilmente, abbassandosi un poco verso di lui. “Charles…”
“No. No. Non deve andare così” disse in fretta, lo sguardo fisso sulla scacchiera e sul suo disordinato disegno di pezzi. “Non c’è solo la vendetta, non c’è solo…. Ci sono delle alternative, ci sono…”
“Non c’è niente del genere, Charles” commentò Erik in tono freddo e arretrando. Riprese il suo bicchiere, e dopo un lungo sorso disse:
“Se Shaw muore, finirà. E potremo riparlarne.”
Charles gli lanciò uno sguardo smarrito, le mani posate sulle ginocchia. “Riparlarne? Erik, davvero ti aspetti che io possa parlare con qualcuno che crede che solo togliendo di mezzo il problema, questo possa essere risolto? E‘ follia” disse, abbassando di nuovo lo sguardo. “Follia.”
Erik vuotò il bicchiere, riposandolo lentamente sul tavolino. Lo squadrò, incattivito dalle sue parole.
“Vorresti che Shaw si unisse alla tua squadra di mutanti, per caso? Credi che ti aiuterà a collaborare per una pacifica collaborazione con gli umani o che sarà un perfetto alleato, nel caso tu abbia torto e loro si rivoltino contro di te?”
“Io non ho torto” sbottò Charles. “Io consegnerei Shaw alla CIA e loro decideranno cosa ne sarà di lui. E’ un assassino e dovrebbe pagare per quello che ha fatto, lo sai meglio di me.”
Erik rise freddamente, socchiudendo appena le palpebre. “Mi chiedo se ci sia differenza tra me e Shaw, nella tua testa.”
“Scusami?” ripeté Charles in tono meno calmo. 
“Dovresti consegnare anche me alla CIA, secondo il tuo brillante ragionamento.”
Charles lo squadrò, inclinando un poco il capo e l‘espressione imperscrutabile. “Questo lo stai dicendo tu, Erik. Sai che non lo farei. Sai che non è questo che penso di te.”
“Però nella tua testa, chi uccide qualcuno è sempre sullo stesso livello. I moventi non contano nulla, per te... Correggimi se sbaglio” replicò Erik freddamente. Charles non rispose, limitandosi a bere l’ultimo sorso di scotch, come se non lo stesse più ascoltando.
“Io voglio uccidere Shaw. E la tua opinione su questo non conta” tagliò corto Erik, avvicinandosi alla consolle carica di bottiglie. Si versò altro champagne, prima di porgerne un bicchiere anche a Charles, che si limitò a restituirgli uno sguardo cupo.
Si risedette davanti a lui posando entrambi i calici, anche se la voglia di giocare era ormai scemata del tutto. Era un peccato, perché Charles avrebbe potuto vincere in appena tre mosse, ma ora era solo impegnato a guardarlo male.
“Non voglio che le cose vadano in questo modo” gli disse Erik dopo un po’, cercando di parlare in tono più calmo, sopportando la tensione di quello sguardo, dolorosamente accusatore. Voleva solo che capisse...
“Io vorrei davvero restare a Westchester, ma questo non è possibile, non con Shaw vivo, non alle tue condizioni.”
Il luccichio negli occhi di Charles s’indurì appena. Essere innamorato di te, non è una condizione.
“Quella è una sciocchezza, Charles” replicò Erik alla leggera, facendo un cenno di diniego. “Sei più intelligente di così…”
Le mani di Charles artigliarono i braccioli ma lui rimase in silenzio. Erik avrebbe voluto che reagisse, che replicasse, che gli facesse capire qualsiasi cosa… Ma Charles sembrava scivolare sempre di più nell’indifferenza.
“Perché non riesci ad accettare una cosa così semplice?” gli domandò in tono calmo. Voleva solo capire, anche se sospettava già il perché Charles trovasse così orribile l’idea della morte di Shaw. 
Ma Erik voleva solo sentirlo dire da lui, dalla sua bocca.
“Perché le persone non si comportano così, Erik” gli rispose, guardandolo in tralice.
Erik si allungò sulla sedia, nuovamente spazientito. “Noi non siamo persone, Charles. Noi…”
“Forse tu no, Erik, ma io ho una coscienza e so che è sbagliato” ribatté Charles aprendo le mani in un gesto esasperato, prima di mettersi a raccogliere gli scacchi. “E’ sbagliato credere che uccidere non porti con sé delle conseguenze.”
“Non era sbagliato, quando hai fatto uccidere Muñoz.”
Charles allargò solo un poco di più gli occhi, lasciando cadere malamente i pezzi che tratteneva tra le dita, che caddero rotolando sulla scacchiera e per terra. 
Erik non avrebbe mai voluto dire una cosa del genere, non l’avrebbe mai fatto. Soprattutto, perché non era una cosa vera. In circostanze normali, non si sarebbe mai permesso di ferire così Charles, soprattutto non dopo averlo già fatto quel mattino, dandogli le spalle. Ma nella foga negativa dell’intera giornata, non sembrava poi così brutto dargli la colpa anche di quello che era successo, non se serviva ad arrivare a Shaw.
Non se serviva a fargli capire.
Eppure, Erik non poté fare a meno di sentirsi in colpa, di sentirsi ingiusto. Immaginò che adesso Charles l’avrebbe meritatamente aggredito. Che gli avrebbe dato dell’assassino, o forse gli avrebbe dato ragione, dicendogli che l’unico motivo per cui si comportava così era perché era terrorizzato dall’idea di perderlo…
Erik avrebbe desiderato una qualsiasi di queste reazioni, ma non accadde assolutamente nulla. 
Charles non lo guardò nemmeno, quando si alzò dalla sedia, sistemandosi la piega dei pantaloni, ignorando i pezzi caduti.
“Credo che la conversazione sia conclusa” disse lentamente, prima di alzarsi. Erik scattò in piedi, posando il bicchiere e afferrandolo saldamente per il braccio. “Charles, sai che non era… Non era vero, l‘ho detto solo perché tu devi capire. Quello che voglio io è solo liberarmi di lui e andrà tutto bene, saremo...” ma le parole gli morirono freddamente in gola, soffocate dal suo sguardo amaro.
“Non posso accettare tutto quello che vuoi tu, Erik. Come tu non puoi accettare tutto quello che voglio io. Tutto qui” Charles lo fissò, con quei suoi occhi un poco cerchiati di rosso, forse sia per la stanchezza, che per la tensione. “La soluzione è così semplice, amico mio…”
Erik si avvicinò un poco di più a lui, lo sguardo immobile. Provava un sentimento strano, il doloroso bisogno di venire perdonato, di ricevere un’assoluzione che solo Charles poteva dargli.
Ebbe la fugace idea che forse era lui ad essere nel torto, che forse tutta quella situazione poteva essere risolta…
“Qual è la soluzione?” domandò Erik a bassa voce.
Con un ultimo sorriso, troppo triste e compassionevole, Charles si sottrasse alla sua stretta e si allontanò verso la porta.
Erik avrebbe voluto seguirlo, dirgli di fermarsi… Ma si rese conto di non poterlo fare, finché Charles non fu del tutto sparito nell’oscurità del corridoio, lasciandolo solo.
 
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“Togliti quel sorriso compiaciuto dalla faccia, Charles.”
“Per favore, Erik.”
“Dov’è finita la tua infinita pazienza?” sospirando, Charles aspettò che Erik posasse La morte a Venezia fra le cose che ingombravano il comodino. Erik pareva dispiaciuto. Non riusciva ad andare oltre il capitolo due, ma poi gli mise il braccio attorno alle spalle, accarezzandolo piano e Charles non si sentì più colpevole per quella seconda, o terza interruzione. Di qualunque natura essa fosse.
“Non dovevi dirmi una cosa del genere” rispose Charles scrollando le spalle e voltandosi verso di lui.
“Se questa è la tua reazione, ricordami di non toccare più questo argomento.”
Charles arrossì violentemente, dandogli le spalle e recuperando la canotta, scivolata sul parquet. Se la rinfilò lentamente, forse con gesti un po’ più impacciati del solito, tanto che sentì la voce di Erik dietro di lui:
“Lo so che lo stai facendo apposta.”
“E’ solo…” cominciò rimettendosi appoggiato alla testata e ad Erik, risistemando nervosamente le coperte attorno a sè. “E’ solo… Tu l’hai capito prima di me. Perché?”
Erik sollevò un sopracciglio, guardandolo stupito. “Sono più sveglio, ovviamente.”
“Erik…”
“Che c’è?” chiese ridendo, sistemandosi meglio sui cuscini. “Vuoi forse dirmi che non è vero?”
Charles rimase in silenzio, lo sguardo fisso davanti a sé. Le labbra gli si stirarono in un sorriso, quando sentì le dita di Erik accarezzarlo più insistentemente, lungo tutto il braccio, alchè si lasciò scivolare al suo fianco e gli cinse il polso delicatamente.
“Allora, l’hai capito quando ti ho chiesto di andare in Georgia?” gli domandò in tono leggero, provando a fare finta di essere indifferente alle sue attenzioni, ma Erik si limitò ad aggrottare la fronte, come se la risposta richiedesse ben più di pensiero, per essere articolata.
“Prima.”
Charles scosse la testa, incredulo. “Non può essere così. Non l’avevo capito nemmeno io.”
“Il fatto che tu non l’abbia capito chiaramente, non vuol dire che non potesse essere intuito, Charles. O che io non l‘avessi compreso.”
“Non ti credo” replicò Charles in tono mite, ma per quanto si sforzasse non riusciva  ad essere del tutto scettico. Forse Erik non gli stava mentendo. Forse si era davvero accorto che c’era qualcosa tra loro, o che poteva esserci, ben prima di lui.
“E poi hai detto che non l’hai nemmeno trovato poi così strano” proseguì Erik lentamente, sfiorando con le sue dita l'interno dell'avambraccio di Charles. “Era come.. Come se te lo aspettassi.”
Nonostante l’inevitabile timidezza che spronava Charles ad abbandonare quella conversazione -anche se da una parte voleva solo portarla avanti-  e da quella stanza, correndo più rapidamente di quanto già non facesse per star dietro ad Hank, rispose:
“Non mi sono affatto sentito strano. Quello che mi ha spaventato… è stato capire quanto fosse normale e semplice da accettare.”
Erik gli lanciò un’occhiata in tralice, le labbra sottili atteggiate in un sorriso. “Spaventato?”
“Erik…”  lo pregò Charles con una nota d’insofferenza. Eppure sorrideva, perché non riusciva ad averne nient‘altro che quell‘espressione in sua presenza. Quel suo sorriso un po’ ebete e un po’ troppo ingentilito, era sempre lì sulla sua bocca, non appena Erik varcava la soglia della sua camera. Non appena lo vedeva o lo pensava.
“Che cosa avete fatto tu e Cassidy, oggi?” mormorò Erik inspirando, sistemandosi meglio contro di lui e abbassando le palpebre, circondando i fianchi di Charles con un braccio. Charles sentì il peso della sua testa sulla spalla e un po' arrossì, sentendo contrarsi un poco lo stomaco.
Nonostante fossero un paio di giorni che Erik seguitava a venire nella sua stanza e ad addormentarsi da lui, prima di sparire allo scoccare delle sei, Charles faceva ancora un po’ fatica -anche se era una fatica piacevole- a gestire quel ménage improvvisato. Finiva sempre con Erik che commentava gli ultimi eventi della giornata o cercava di farlo parlare di argomenti che, il più delle volte, lo facevano sprofondare nella vergogna più profonda. Ma Charles era sempre ben al di là dal lamentarsi. Se significava avere Erik, tutte le sere per delle ore intere, non c’era alcuna difficoltà da parte sua, nell’accettare ogni singola  disagevole interrogazione.
“Prima o dopo che hai cercato di ucciderlo?” gli domandò, sospirando in tono rassegnato.
Erik fece un lamento insofferente prima di ribattere: “Era divertente. E’ stato divertente.”
“Poteva farsi male, Erik” replicò Charles cercando di apparire serio. “Grazie al cielo era pronto, non voglio pensare a cosa…”
“Charles” Erik aprì gli occhi e gli diede un colpetto sulla guancia, come per rimproverarlo. “Non è successo, Charles.”
“Ma Erik, era sotto la mia responsabilità e se si fosse fatto male, o peggio…” 
Erik si rimise seduto puntellandosi sulle mani, prima di passarsi una mano sul viso, esasperato. Charles smise subito di parlare, credendo di averlo infastidito, accalorandosi, ma poi lo vide ridere ancora e allora alzò gli occhi al cielo.
Abbiamo un ruolo di responsabilità, Erik. Non possiamo certo permettere che si danneggino da soli” proseguì un po' irritato, un po' esasperato, lanciandoli uno sguardo obliquo. “E nemmeno permettere di essere noi, a fargli del male.”
Erik annuì, nella parodia di una smorfia saccente. “Quando sei tu a farti del male da solo però, io devo stare in silenzio. Corretto?”
Charles non gli rispose. Tenne solo un’espressione terribilmente corrucciata, ma gli occhi erano brillanti e divertiti.
“E da quando dobbiamo condividere anche la responsabilità?” chiese Erik in tono leggero, scrutandolo oltre le palpebre un poco abbassate. 
“Non stavamo parlando di Sean, adesso” ribatté Charles, le orecchie in fiamme, chiudendo le mani a pugno e posandosele in grembo. 
Non era arrabbiato; ma Erik aveva quel brutto vizio di dirottare sempre e solo la conversazione su di lui, come se trovasse divertente vederlo offendersi o intimidirsi, solo per poi mettersi a rassicurarlo.
Era imbarazzante, era come giocare ad un gioco in cui Charles conosceva solo metà delle regole, e tutto ciò che poteva fare era rimanere a seguire le oscure intenzioni di Erik, senza mai capirle.
Lo guardò ridere, reclinando la testa sui cuscini. “Perché deve sempre finire che un qualsiasi argomento non ti piace?”
“Non dovevi dirmi…” provò a dire Charles, ma alla fine scosse il capo e si arrese.
“Che mi piacevi già mentre eravamo alla CIA?” chiese Erik con indifferenza, ma guardandolo di sottecchi mentre sbiancava e arrossiva, nel medesimo momento. Sembrava che solo Charles riuscisse a fare una cosa del genere, imbarazzandosi sempre di più, mentre le sue pupille schizzavano da sinistra a destra, come se cercasse una via di fuga, soffermandosi sull‘arco che portava allo studio.
“Erik…” mormorò con un filo di voce, nel quasi tono di una supplica. “Non dire cose del genere… Non è…”
“Come vuoi che lo dica?” le sopracciglia di Erik si aggrottarono tanto da sembrare un‘unica linea severa, mentre un’espressione furba attraversava il viso di Charles. “Puoi limitarti a pensarlo.”
Erik inclinò il capo, come se stesse soppesando la sua risposta. “Non mi va di gestire una conversazione a senso unico.”
Charles si morse il labbro, abbassando lo sguardo, come se dovesse proteggersi da quello che Erik poteva leggerci dentro. “Lo capisco, ma…” Parlarne è più difficile di quanto pensassi, ammise, senza trovare il coraggio di sollevare il viso.
Tuttavia, appoggiando la mano libera a lato del viso di Charles, sfiorandogli il disegno irregolare dell’attaccatura dei capelli, Erik rimase comunque ad aspettare che Charles parlasse.  Ma era fin troppo pensieroso e non sembrava ancora deciso a spiegarsi.
“E’ stato a Washington” cominciò Erik ad un certo punto, quando il silenzio era ormai diventato insopportabile, facendo avvicinare la testa di Charles alla sua spalla. “Dove abbiamo giocato a scacchi, ricordi?”
Charles si staccò da lui, mettendoglisi  quasi di fronte con una leggera torsione del busto e guardandolo con franchezza.
“Erik” disse piano. “Abbiamo giocato a scacchi… Bè. Ovunque.”
“Allora…” mise le mani avanti, e con le lunghe dita gli strinse i polsi, provando a sollevargli le braccia. 
Charles sorrise e provò a tirarsi indietro, ma con uno strattone Erik lo tirò versò di sé, finché Charles non ricadde su di lui, in un disordine di coperte e arti. Represse un verso soffocato, quando parte del peso di Charles gli finì addosso, sullo stomaco, ma poi si ritrovò ancora a ridere.
Sollevandosi sulle braccia, Charles lo guardò, con il viso acceso e gli occhi vividi, i denti bianchi visibili oltre le labbra rosse, scuotendo la testa come se fosse davvero davanti ad un caso senza speranza. “Non so davvero più cosa devo fare con te, Erik.”
“Leggimi nella mente. Non limitarti a parlare” replicò lui in risposta, mentre il suo sorriso si smorzava un poco. “Se non vuoi che te lo racconti, guardalo tu stesso.”
“Erik…”
“Prima non aspettavi che l’occasione di farlo” ribatté Erik, scrutandolo con un severo cipiglio interrogativo. “Vuoi forse giocare a fare l’essere umano?”
“Io sono anche quello, Erik. Me l’hai detto tu” replicò Charles cortesemente, socchiudendo appena le palpebre. 
“E allora cos’è cambiato?” provò ancora a domandargli, ma Charles non se la sarebbe mai sentita di rispondere ad una domanda tanta diretta e quindi, a sua volta lo sentì chiedere: “Perché ora sembri fin troppo felice nel desiderare che io lo faccia?”
“Semplice” spiegò Erik alzando un poco le spalle. “Perché io non posso farlo.”
Charles alzò ancora gli occhi al cielo, prima di tentare di tirargli un destro deciso, che Erik bloccò con il palmo della mano, facendogli un sorriso affilato. Risero entrambi, anche quando Charles provò di nuovo a colpirlo con un sinistro che, puntualmente, Erik bloccò con una semplice torsione del polso.
“Per favore” lo pregò ancora, lasciandolo lentamente liberarsi. “Non può essere niente di così terribile.”
Charles, sorridendogli in segno di scusa, abbassò piano le braccia. Era incerto, non sapeva se accontentarlo. Ultimamente, aveva  sempre resistito alla tentazione di entrare nella mente di Erik, solo perché non voleva ritrovarsi nella condizione di essere tentato di poter scoprire da sé, quello che voleva sentirsi dire da lui, solo da lui. Niente trucchi.
Forse, Charles avrebbe dovuto decidersi a spiegarglielo prima, anche se adesso, era nella malaugurata condizione di ritrovarsi a desiderare di essere ovunque, tranne che lì.
“C’è una cosa che devo dirti però…” cominciò  in tono incerto, osservando i solchi perplessi sulla sua fronte distendersi appena. “Perché io… Io credo…Ah” s’interruppe, lasciandosi andare ad un ennesimo sorriso, scoprendo i denti davanti. Sollevò gli occhi limpidi su di lui, osservando con decisione la sua silenziosa attesa.
“Io credo…” sospirò ancora, aggrottando le sopracciglia, confuso dalle mani di Erik intente ad accarezzargli le gambe. 
“Cosa?” chiese Erik in tono leggero, inclinando appena il capo e osservandolo con attenzione.
“Niente. Non è poi così importante.” Charles non ce la faceva, non adesso, perciò sorrise all‘espressione perplessa di Erik. 
Vinto, avvicinò una mano alla tempia, vedendo Erik accennare un sorriso, prima di chiudere le palpebre e scivolare nella sua mente, cominciando a sentire il calore del sole, attraverso la stoffa di vestiti che non erano i suoi.
… Era una giornata fin troppo calda e quel caldo sarebbe stato insopportabile, senza quel vento fresco a far ondeggiare le creste degli alberi ornamentali. L’obelisco a Washington, sullo sfondo, sembrava infinitamente piccolo e sottile e non si rifletteva -scenograficamente, come asserivano le guide- sulla vasca d’acqua, la Reflecting Pool, più simile ad una lastra di opaco e freddo metallo che ad una superficie d‘acqua. 
Il cielo non vi si specchiava e nemmeno il paesaggio attorno. Era solo un rettangolo antracite, una lunga superficie triste e desolata, tra il verde brillante dei prati e della vegetazione del National Mall.
Avrebbe voluto mettersi in maniche corte, ma il sole se ne sarebbe andato presto, erano già le cinque del pomeriggio….
“Fa’ ridere, non è vero?” disse la sua voce, alla sua sinistra, così si girò e si ritrovò a guardare sé stesso, intento a rimettere i pezzi e la scacchiera nella borsa, lentamente e con precisione.
“Cosa?” si sentì chiedere, con una voce un po’ troppo rigida e poco gentile che tuttavia, non scalfì minimamente l’espressione cortese che lui, Charles aveva sul viso, mentre chiudeva le fibbie con gli stessi gesti accurati con cui sembrava fare ogni minima cosa.
“Andare in giro con questi” spiegò Charles, battendo lievemente le dita sulla sua borsa di cuoio e rimettendola accanto a sé. Si ridistese in quel modo un po’ scomposto in cui era stato seduto per quasi tutta la durata della partita, storcendo appena il naso mentre inspirava, guardando verso quel panorama che la Travelling America definiva spettacolare, ma adesso sembrava solo asettico e un po‘ desolato. 
Charles, che adesso era Erik, in quel momento che sembrava così lontano nel tempo, annuì ma non commentò. 
Si sentiva spossato, anche se non ricordava di aver fatto niente di particolarmente stancante, in quel secondo giorno a Washington. Aveva solo camminato, per ore, lungo i viali della città, seguendo Charles e cercando di partecipare ad una conversazione educata e che avrebbe potuto interessarlo davvero, se non si fosse preoccupato di mantenere il riserbo su ogni cosa, cercando di parlare poco di sé, cercando di rivelare il meno possibile sulle impressioni di quella giornata. 
In fondo, a sentire Charles era come se ormai sapesse tutto di lui. Era meglio stare solo ad ascoltarlo, non c’era poi molto di cui parlare di quello che era e faceva lui, Erik…
“Ce ne stiamo andando?” si sentì ancora domandare, dopo qualche attimo di silenzio.
Charles spalancò gli occhi e si girò di scatto, come se l’avesse spaventato di colpo, raddrizzandosi con la schiena. “Certo. Ti prego di scusarmi Erik, ma… Non ho pensato che…”
Erik storse appena la bocca in un sorriso, dandogli un breve cenno di diniego. “Non è necessario, non mi va di tornare subito. Va bene così.”
L’espressione di Charles tuttavia, s’incupì appena. “Mi dispiace, Erik. Ti avevo promesso che avremmo visto qualcosa di meglio, delle solite banalità da turisti e invece... Se avessi viaggiato un poco di più, sarei stato in grado di essere un poco più soddisfacente.”
“La biblioteca era interessante. Mi ha fatto piacere vederla” replicò Erik gentilmente. Non sapeva bene perché, ma il dispiacere di Charles era anche il suo. Superficialmente, per il motivo per cui Charles ora si lamentava; ma non davvero per quello, comprese, cercando di capire il perché di quella sensazione di rammarico. 
Era dispiaciuto perché Charles era dispiaciuto.
“La biblioteca del Congresso?” l’espressione di Charles s’incupì, se possibile, ancora di più ed Erik trattenne un lieve sorriso quando lo sentì dire: “Ti ho trascinato lì solo perché io volevo vederla” confessò Charles, abbassando lo sguardo come se si sentisse davvero colpevole di un delitto, prima di tornare ad incrociare i suoi occhi. “Ti prego di scusarmi. Di solito sono attento a certe cose, mi sono comportato da vero maleducato.”
“Non importa. Davvero” replicò Erik, cercando di scacciare il malumore di Charles usando un tono affabile e sperava, gentile. 
Era un po’ arrugginito su quel fronte, ma quando disse a Charles che in realtà l’aveva trovata una giornata interessante perché i libri non gli dispiacevano, l’espressione di Charles si rasserenò, esattamente come poco tempo prima, quando aveva cominciato a spiegare quali inediti orizzonti la collaborazione con la CIA apriva loro.
“Però avrei voluto mostrarti di più. L’America non è tutta qui” sospirò Charles, risistemandosi sugli scalini.
Erik gli lanciò un’occhiata, insospettito, anche se il vero sospetto era rivolto verso sé stesso. Era bastata quella strana scintilla di dispiacere; quello strano bisogno di volerlo rassicurare per una cosa così futile che ora, anche il suo modo scomposto di stare seduto non era nemmeno più fastidioso, solo… rilassato.
Rimasero in silenzio a guardare quello strano panorama essenziale, le gradinate bianche che scendevano, oltrepassavano la strada e scomparivano nell’acqua scura, e pian piano anche Erik sentì che la sua posa così rigida, non era poi più così rigida.
Erano stati giorni sfiancanti, passati a reclutare coloro che avevano, a detta di Charles, i requisiti più opportuni -quanto poco gli era piaciuta quella frase-, e ora erano alla fine del viaggio, pronti a tornare a Richmond. Quella fine, aveva un curioso sapore amaro. 
Non era nemmeno una fine, solo un ritorno ad un posto che non era suo, ma Erik non sapeva come altrimenti definirla. 
Forse, persino i suoi pensieri erano semplificati, nel contemplare quel paesaggio dove le cose avevano contorni netti e  i semplici colori del bianco marmoreo, del verde e del rosso cupo che cominciava a tingere il cielo.
C’erano solo lui e Charles, e già quella era una stranezza, perché con Erik… c’era sempre e solo Erik. 
Nessun altro. 
Eppure, era riuscito a passare quasi due settimane in compagnia di qualcuno. Ed era stato… piacevole.
Gli lanciò un’altra occhiata, di sfuggita, come se fosse qualcosa che ricordava circospezione. Sperava che non gli leggesse nella mente, perché ora lo sentiva, c’era qualcosa di strano e confuso dentro di sé, qualcosa di strano nei suoi pensieri, quelli che riguardavano Charles. 
Non era più davvero solo. 
Lo era stato per tanto, e ora che si era ritrovato a dividere le sue giornate con qualcuno, qualcuno che gli piaceva -e qui Erik doveva ogni volta dissimulare il suo disagio, perché quanto era bizzarra quella parola associata a Charles, e non perché fosse un ragazzo, o perché lo conoscesse da poco. Era semplicemente strana e gli faceva contorcere l‘addome, come se dovesse provare sia rammarico che piacere, nel pensare una cosa del genere-, qualcuno con cui stava bene.
Quelle semplici osservazioni lo stavano destabilizzando, tanto più perché avrebbe voluto ricambiare la gentilezza di Charles, dirgli quanto il fermarsi a Washington per mostrargli la città fosse stato un gesto gentile… 
E soprattutto, dirgli che la sua compagnia non gli dispiaceva, quello era importante; non sembrava affatto una frase così malvagia, almeno a pensarla. Tuttavia lo confondeva, perché quelli erano i suoi pensieri e i suoi pensieri non erano mai stati tanto disordinati e ambigui in vita sua. Quanto sarebbe sembrato strano, dire a voce una cosa del genere?
Non aveva alcun senso…
“Non vorrei sembrarti scortese, ma temo che se adesso non mi muovo a fare due passi, rimarrò ancorato qui” mormorò Charles alzandosi con uno sbuffo e tirandosi un poco i lembi della giacca grigio chiaro, raddrizzandola sulle spalle. “Vieni con me?”
Chissà perché s‘immaginava che se Charles avesse usato quel tono con una ragazza, questa sarebbe accorsa in fretta e furia. Erik scosse un poco la testa.  “Va’ pure. Ti aspetto qui.”
“Credo che senza il mio pessimo aiuto tu non possa andare tanto lontano” disse Charles in risposta, scendendo due scalini. La sua risata si smorzò quasi subito, interrotta da uno -scusami- che Erik non capì.
Si voltò ancora un attimo, come se volesse aggiungere altro ma poi, con le mani nelle tasche dei pantaloni chiari cominciò a scendere gli scalini con passo flemmatico, in direzione della Reflecting Pool.
Erik seguì con lo sguardo la sua figura, parallela a quella dell’obelisco.
Era un essere strano. Era ottimista. 
Erik non credeva che sarebbe mai stato in grado di usare quella parola riferendosi a qualcuno che avrebbe avuto occasione di conoscere personalmente, ma era così.
Era ottimista e con una strana mania di voler creare e salvare che gli riusciva incomprensibile da comprendere appieno. Charles vedeva il futuro, là dove Erik vedeva solo scopi ed obbiettivi.
Al principio, aveva pensato che sarebbe solo riuscito ad etichettarlo come insopportabile. Aveva già provveduto a pensare ad un paio di utili scuse, per far sì che le loro strade si divedessero subito dopo il loro incontro.
Ma Erik, era stato quasi subito smentito dalla sua stessa malsana curiosità. 
Dietro quei sorrisi compiaciuti, quelle pose fin troppo educate e quell’aria da leader che sembrava coltivare con cura ed attenzione, doveva pur esserci una scalfittura. Qualcosa di nascosto, dietro quella facciata perfetta, così ben costruita e metodica, così prevedibile, era inevitabile. Così buona e gentile da apparire molto poco concreta. Eppure era vero e autentico allo stesso tempo e questo lo affascinava.
Erik aveva perso contatti e fiducia con le persone, e difficilmente riusciva a credere che una persona come Charles Xavier potesse esistere.
Ma era lì. Letteralmente davanti a lui, e questo lo rendeva così irreale eppure tangibile.
Perché era uguale a lui, perchè era tutto quello che Erik avrebbe potuto diventare, quello che sarebbe voluto diventare, se Shaw, se Auschwitz… Se la storia fosse andata diversamente.
Una così bella persona.
Charles si era spinto ancora un po’ più lontano; sembrava volesse raggiungere il bordo della Pool, ma si girò ancora verso il Lincoln Memorial, ed Erik distolse lo sguardo da lui, sentendosi osservato.
Sperava solo che non gli stesse leggendo nel pensiero, mentre, fingendo di non notarlo, lo vedeva salire, molto più lentamente di quando era disceso, come se fosse troppo preso a pensare.
Gli sembrava così costruito quando erano alla CIA, quando era in compagnia di qualcun altro. 
Come se Charles avesse seppellito il vero sé da qualche parte e solo ogni tanto questo sembrava riemergere, quando per ragioni ad Erik incomprensibili, lui veniva a cercarlo, preferendogli la compagnia di quelli che dovevano essere i suoi amici.
E allora le sue pose, per ragioni ancora più oscure ad Erik, sembravano sparire. Non lo faceva apposta, ma c’era una così grande differenza tra il Charles con gli altri e Charles con lui.
O forse, pensava Erik vergognandosi e stupendosi di sé stesso, forse era lui a voler pensare che quella differenza ci fosse.
Niente atteggiamenti troppo sicuri. Niente frasi fatte. Era solo Charles, un po’ sognatore e infinitamente gentile… Ed Erik, indipendentemente dal pensare quanto quel giudizio fosse strano, lo trovava piacevole.
Anche lui sarebbe stato come Charles, se avesse avuto una vita normale? 
Bisognoso di allontanarsi ogni tanto da quel mondo impostato e ben delineato, salvando ogni tanto qualcuno, accollandosene la storia e il peso della responsabilità?
Non lo credeva appieno, ma era pronto a perdonargli quel sentimento di pietà, perché negli ultimi giorni, Charles sembrava essere riuscito a fargli dimenticare di essere solo. Ed era qualcosa di cui gli sarebbe stato sempre e solo grato.
Charles  adesso era a dieci scalini da lui. A quel punto, fingere di non guardarlo sarebbe stato impossibile, nonché maleducato, così si limitò a sorridergli, ricambiato.
Lo vide mordersi il labbro, però. Come se stesse riflettendo su qualcosa di importante da dirgli, ma quando parlò disse solo tre parole.
“E’ un peccato.”
“Cosa?” gli domandò con noncuranza, sfilandosi gli occhiali da sole dalla tasca, ma limitandosi a tenerli in mano.
Charles gli diede un poco le spalle, indicandogli l’obelisco o forse solo il cielo, sempre più rosso bruno, mentre la sera si avvicinava, prima di tornare a guardarlo. “Non avere più tempo.”
Non c’era enfasi nel suo tono. L’aveva detto solo come un’osservazione casuale, senza niente di specifico, senza allusioni di nessun genere, ma Erik si ritrovò a dover distogliere lo sguardo dal suo, di nuovo.
Il bianco del marmo georgiano era più sicuro da contemplare. Erik scacciò la strana immagine, forse appena più di una sensazione, che l’aveva sorpreso quando Charles gli si era messo davanti.
Erano solo lui e Charles. E rimaneva tutto nell’ombra e nel silenzio. Era a dieci scalini da lui, relativamente distante, considerando il fatto che si erano trovati ben più vicini, quasi fianco a fianco, senza fastidio, senza farci caso, in varie situazioni durante il viaggio per le reclute. 
Eppure, Erik si ritrovò a volere che Charles salisse quei gradini, che annullasse quella lontananza.
Avrebbe voluto scenderli lui, e non capiva perché. Avrebbe voluto che la distanza non ci fosse più, perché ogni volta che si creava, Erik si ritrovava a perdere qualcosa. Come una selezione.
E tutti quei pensieri sembravano così ridicoli e così seri, associati a Charles Xavier, perché era assurdo non riuscire a non volerlo avere vicino a lui. Ed era ridicolo volerlo, in un modo che Erik non capiva davvero.
Diede la colpa al turbamento, a quella momentanea confusione. Ma poi parlò.
“Rimaniamo qui, allora. Solo qualche giorno” si ritrovò a dire, alzando piano gli occhi, guardingo suo malgrado. “Non credo ci sia niente di male.”
Con sua scarsa sorpresa, gli occhi chiari un poco socchiusi, Charles assentì con un sorriso.
Forse anche per Charles, non c’era niente di male a voler restare ancora con lui, disse Erik a sé stesso.
 
Percorso da uno strano fremito, lo stesso che si poteva provare quando sognava di cadere, Charles riaprì gli occhi di scatto, ritrovandosi a fissare quelli di Erik, che lo scrutavano intensamente, poco sotto di lui.
Gli era ancora sdraiato sopra, ma in parte era Erik a sorreggerlo, tenendolo per le spalle. 
Sentiva il braccio su cui si era appoggiato tremendamente indolenzito, come se fosse in quella posizione da ore. Tuttavia, ignorando quella seccante sensazione, Charles si ritrovò a baciare Erik con foga, mettendogli entrambe le mani ai lati del viso e tenendolo stretto, inarcandosi un poco su di lui, scalciando via le lenzuola attorno a loro, districandosene velocemente. Erik lo cinse con le lunghe braccia magre, stringendolo sul costato, per poi scivolare giù, fino a soffermarsi sui fianchi, premendo la punta delle dita nella sua carne morbida. 
Forse voleva solo dirgli di aspettare, ma Charles lo ignorò, limitandosi a socchiudere di più le labbra e a baciarlo profondamente, sentendolo fare lo stesso. E poi Erik non si era nemmeno rivestito, quindi…
Charles non si sentiva affatto inopportuno; era colpa di quella curiosa agitazione, qualcosa che il ricordo di Erik aveva smosso dentro di lui, come se adesso dovesse dimostrargli qualcosa. 
Era stato come vedere davvero sé stesso, pensava Charles, affondandogli una mano tra i capelli, distruggendo la piega ordinata di quel taglio antiquato e troppo regolare. Voleva solo tenergli il capo un po’ piegato così che potesse baciarlo meglio, cercando la sua lingua, mischiando il sapore della sua bocca al suo.
Non era certo una novità, il modo in cui lo guardava Erik. 
Ma ogni volta, ogni maledetta volta, era talmente ammaliante e sorprendente che Charles avrebbe solo desiderato trasferirsi nella testa di Erik e restarci per sempre. Perché nel modo in cui Erik lo guardava, lui era vero. 
Non c’era niente di brutto o noioso, in lui. Era semplicemente una persona migliore, e nell’apprenderlo attraverso Erik, Charles poteva esserne solo lusingato e felice. 
Erik lo vedeva per come era, per come lui si percepiva. Lo comprendeva, senza bisogno di leggergli nella mente. 
E sapere che Erik aveva iniziato a guardarlo in quella maniera, molto prima di quei patetici e confusi giorni, in cui Charles aveva passato a domandarsi se fosse legittimo pensare ad Erik in un certo modo, faceva solo sospettare che  non sarebbe mai stato più in grado di andare da nessuna parte, se non avesse avuto Erik vicino.
Aprì un momento gli occhi, ritrovandosi a incrociare quelli chiari di Erik, che forse non si erano mai chiusi e soffocando l’impulso di sorridere, continuò a baciarlo, con inaspettata avidità, almeno finché non fu Erik a reclinare la testa, quel tanto che bastava, staccandosi da lui, dandogli una breve carezza sul mento, come per scusarsi.
“Aspetta, Charles.” 
“Devi spiegarmi cos’era davvero” gli domandò dopo un po‘, scostandosi appena da lui, mordendosi le labbra tiepide e chinandosi ancora verso di lui, sfiorandogli il profilo della mascella, senza davvero voler aspettare. Aveva il respiro un po' ansante e le membra formicolanti, e l'unica cosa che desiderava davvero era tornare a baciarlo, cercando di soffocare la curiosità.
“Te l‘ho detto” spiegò Erik piano. “Solo quello che ho visto.”
“Perché per te era così chiaro?” chiese Charles interdetto, inarcando appena le sopracciglia. 
“Non così chiaro come lo intendi tu, forse.”
“Ti sbagli” replicò, scuotendo il capo. “Solo… Perché?”
Distogliendo gli occhi dal suo guardo insistente e fin troppo concentrato, Erik sorrise, beffardo. “Perché a me non faceva paura, Charles.”
Charles annuì senza contraddirlo, appoggiando il peso sulle braccia e sistemando meglio il suo peso sul corpo slanciato di  Erik. “Mi dispiace che per me non sia stato così semplice. Avrei evitato un paio di problemi…”
Erik gli prese il viso tra le mani, guardandolo solo un po‘ più intensamente. “La realtà è che tu sei più complicato di quanto gli altri pensino” disse piano, curvando l‘angolo della bocca nell‘accenno di un sorriso. “Ma va benissimo così.”
Charles si ritrovò di nuovo catturato dall’imbarazzo, ma Erik lo tenne fermo, così fu costretto a rispondergli guardandolo negli occhi, cercando di trovare il coraggio, incapace di nascondere un sorriso divertito.
“Detto da te, è una considerazione alquanto improbabile” mormorò, allungando ancora un poco il collo e posando le labbra sulle sue, baciandolo piano, finché anche Erik non si decise a lasciargli andare il viso, spostando le sue mani calde sulla sua schiena, cingendolo e tirandolo contro di sé, con un sospiro impaziente. 
Charles non era più preoccupato dal pesargli addosso, di essere pesante tra le sue braccia. Erik era certo più sottile, ma sicuramente più forte. 
E non era poi così male farsi sostenere, rifletté, facendo scorrere ed aderire le mani al torace magro di Erik, dove ogni osso e muscolo risaltavano con un disegno preciso, fino a soffermarsi sulla linea tagliente del fianco, carezzando quella pelle tesa.
Era una fortuna che l’avesse spogliato prima, almeno ora poteva evitare quella fatica, benché piacevole, risparmiandosi altri gesti impacciati.
Era bella la sua mente e bello il suo corpo, e Charles, nonostante il suo sempre presente senso d’inferiorità, non poteva non compiacersi, nel sapere che lui e solo lui aveva quello strano privilegio di vedere entrambi per ciò che erano. 
Lo conosceva in un modo che nessuno avrebbe mai potuto eguagliare, perché Erik era certo suo adesso, e Charles poteva anche stare nella sua testa e vedere tutti i suoi pensieri e le sue considerazioni e i suoi ricordi. Ogni volta meravigliarsi, perché erano sempre nuovi e sorprendenti, nati da chissà dove, eppure così veri ed accettabili. 
Perché Erik era come lui e tuttavia non lo era. Perché non si sarebbe mai consumato, non si sarebbe mai ridotto all’ombra di sé stesso.
Sarebbe sempre stato nuovo per lui. Perché era autentico e un’insieme inesauribile di piacere e fascino; tanto bastava, perché Charles potesse pienamente sentirsi soggiogato. 
Non c’era altra via, se non quella di amarlo.
Sollevò un momento il viso, appoggiando la guancia allo zigomo affilato di Erik, un poco preoccupato. “Se sei stanco…”
Erik rise piano al suo orecchio e per tutta risposta posò le sue mani sulle sue scapole, tenendolo meglio contro di sé.
“Non sono così stanco, Charles.”
Charles sentì un paio di ciocche ondulate scivolargli sulla fronte, in parte lungo le basette, mentre piegava ancora di più il capo, cominciando a baciargli e a mordicchiargli la pelle morbida alla base del collo, poco sopra la clavicola, considerando quel suo gesto una risposta più che adeguata. Sentì Erik espiare piano e fremere un poco, mentre Charles inarcava la schiena, ondeggiando e strofinandosi un poco su di lui.
La familiare sensazione di calore e languore cominciò ad impossessarsi delle sue membra, un po’ come si sentisse ubriaco, un po’ come se sentisse sopraggiungere la febbre, per niente aiutato dal fatto che il suo corpo sfregava contro quello di Erik stesso -in alcuni punti più insistentemente che in altri, se Charles avesse avuto il coraggio di pensarlo-, ugualmente caldo e sensibile. Forse Erik era davvero un po’ più bravo di lui a controllarsi, il suo respiro era solo un poco più rapido del solito.
Charles semplicemente si rifugiava nella foga, anche a rischio di risultare sgraziato, evitando di ragionare su quello che faceva, per non perdere il coraggio. 
Voleva che ad Erik piacesse, soddisfacendolo… Almeno quanto piaceva a lui, ma non si sentiva davvero in grado di essere alla pari, perché gli sembrava di farsi prendere troppo.
Calarsi in quei panni inesperti, lo destabilizzava ancora come la prima volta che ci aveva provato.
Sentì la salivazione aumentare e gemette un poco contro la pelle di Erik, quando lo sentì che cominciava a sbottonargli i pantaloni, accarezzandogli insistentemente l’addome, infilando le mani sotto la stoffa, prendendo tempo.
Charles schiacciò di nuovo le labbra sulle sue con rinnovato impeto, sperando di distoglierlo da quello che aveva intenzione di fare, almeno per il momento. Ebbe la fugace visione di sé stesso mentre si spostava su un fianco e supplicava per l’ennesima volta Erik di prenderlo, perché era stufo di quell’amabile tortura, era così preferibile che Erik prendesse l’iniziativa… Ma il solo pensiero di dimostrarsi così scioccamente debole in una cosa che lo soddisfaceva, gli diede solo la spinta necessaria per andare avanti senza indugi. 
Erik gli disse qualcosa, roco; Charles gli rispose, ma senza davvero rendersi conto di che cosa avesse articolato, con quella voce così poco ferma e incerta, in cui le parole venivano mangiate dal suo stesso respiro.
Allontanò le mani dalle sue spalle, posandogliele ai lati della testa e si sistemò meglio sulla superficie morbida del letto. Alzandosi un poco sopra di lui, incrociò gli occhi un poco socchiusi di Erik e il suo sorriso affilato -un poco beffardo, un poco addolcito dal vederlo-, e Charles rise, perché era quello che gli veniva da fare, ogni volta che prendeva l’iniziativa e si ritrovava in una situazione di stallo.
“Charles…”
Sentì la sua stretta sulle spalle, e avvinghiato com’era ad Erik, questi lo spinse un poco più in giù lungo di sé, finché Charles si ritrovò non più a cavalcioni, ma inginocchiato tra le sue gambe ed ancora chino su di lui.
“Mi stavi soffocando” disse Erik ridendo, mettendogli una mano a coppa sul viso, cercandolo con lo sguardo mentre si sollevava un poco verso di lui con la schiena arcuata. 
“Perdonami” mormorò Charles piano, contraendo impercettibilmente le dita "Non me ne sono accorto.". Abbassò le palpebre sugli occhi lucidi, la pelle arrossata; gli fece un sorriso storto, socchiudendo un poco le labbra. Si accorse che stava sudando vicino all’attaccatura dei capelli, sulla nuca. 
Cercò di pensare a quell‘insignificante dettaglio, non a quanto lui potesse essere inadeguato.  
Non a fare confronti con Erik, il quale, apparentemente ignorando il turbamento di Charles, prese a sfiorargli le labbra morbide con le dita, seguendone il disegno, incuriosito e affascinato.
Erano rosse, pensava Erik, ma non del rosso intenso di cui scrivevano i romanzieri o i poeti, associandole al sangue o ad una rosa. Era un rosso tenue, quasi rosato, come quello che si mischiava al viola bluastro del cielo del mattino, quando spuntava l’alba. Ed era anche  - Erik sorrise- il colore di una vecchia etichetta di Möet&Chandon.
Con un fremito, Charles si riscosse e i suoi occhi chiari tornarono su di lui, vividi e un po’ più consapevoli, come se lo strano contatto l’avesse riportato indietro, da ovunque i suoi pensieri l’avessero trascinato.
Erik fece per allontanare la mano dal suo viso, ma Charles lo fermò, stringendogli il dorso della mano con la sua, accarezzandogli con il pollice le dita, di nuovo intente a sfiorare di nuovo le sue labbra sottili.
Con lo sguardo fisso e imperscrutabile su di lui, Charles ne baciò lentamente le estremità, fino a socchiudere un poco quelle stesse labbra, lasciando che Erik - con il respiro ben più accelerato e una strana, piacevole torsione nel ventre-, si prendesse la libertà di infilarne due in quella stessa bocca, superandone la soglia morbida. 
Charles le mordicchiò leggermente con i denti candidi, sfiorandole con la lingua umida ed Erik si alzò ancora di più con la schiena, riducendo tra distanza tra loro, posandogli la mano libera sulla coscia, accarezzandolo insistentemente ed avvicinando il volto al suo, come se volesse baciarlo ancora. Con le dita ancora inumidite gli sfiorò la guancia morbida, finchè Charles non inclinò la testa, allontanando infine il suo braccio, cancellando un velo di saliva lucida sulla bocca semi aperta, con la punta della lingua. 
Ansimava leggermente, come Erik. Poi, con lo sguardo un poco febbrile e un sorriso dolce, gli posò le mani sulle spalle, facendolo ridiscendere sotto di sé, premendolo contro le lenzuola disordinate.
Charles represse un vago commento di soddisfazione, nel sentire l’eccitazione di Erik contro la sua e con rinnovata iniziativa, riprese a baciarlo, cercando di assecondare i movimenti avidi di Erik attorno ai suoi fianchi, sfilandosi maldestramente i pantaloni del pigiama.
“Devi…” sospirò Erik contro le sue labbra, sentendo il suo alito caldo. “Devi spiegarmi perché ti rivesti sempre, quando sai che….”
Charles premette ancora la bocca sulla sua, in un bacio tanto rapido quanto poco controllato, soffocando i gemiti di entrambi, prima di dire:
“Perché sono un bravo ragazzo” mormorò, un po’ insicuro e un po’ ironico. Erik rise di quello guardo limpido e prendendolo per la nuca lo tirò su di sè, sollevando solo un poco di più le gambe magre contro di lui, lasciando che le mani di Charles lo stringessero per le cosce. 
Charles piegando il capo, evitava di incrociarne lo sguardo, dondolando appena. Avrebbe desiderato accarezzare il torso, i muscoli affinati di Erik, facendo aderire e scendere i palmi delle mani dalle spalle, oltrepassando il petto e la superficie piatta del ventre, seguendone ogni avvallamento, ogni sporgenza muscolare ed ossea... Charles riusciva a immaginare quei possibili gesti con infinita precisione. Non si capacitava di provare qualcosa del genere, di trovare attraente un uomo. Erik era come lui, e non era solo una questione di menti affini. Ma le sue mani erano come incollate alle sue gambe e finchè non fu lui a sfiorargliele, Charles non riuscì a riscuotersi.
"Charles..." Erik socchiuse gli occhi, piegando il capo di lato e sospirando s’inarcò appena, mentre Charles cominciava a toccarlo, prima di decidersi a prenderlo, dopo solo un breve momento di esitazione, insinuandosi dentro di lui con un lento movimento. Gli strappò solo un gemito rauco, trattenuto tra i denti, almeno finché non prese a muoversi con colpi rapidi e nervosi.
Charles cercò di smettere di mordersi il labbro inferiore, spostando il suo peso sui gomiti piegati attorno alla testa di Erik, sopportando piacevolmente il peso caldo delle sue ampie mani strette sulla schiena. Fitte sferzanti di piacere scivolavano dall’addome fra le sue gambe, e lui era sempre più accaldato, mentre desiderava che la pressione delle ginocchia di Erik contro i suoi fianchi non lo abbandonasse, mentre si concentrava sul ritmo dei suoi stessi movimenti.
Sotto di lui, Erik reclinò il capo, espirando solo un po’ più forte, mentre la piega obliqua dei capelli lisci gli spioveva sulle palpebre serrate, i gemiti bassi mischiati al suo stesso respiro. 
Cercando di rallentare i movimenti frenetici e la foga iniziale, Charles quasi lo coprì con il suo stesso corpo, come se dovessero aderire perfettamente l’uno all’altro, il capo a lato del suo ma girato dalla parte opposta, toccandolo insistentemente con i movimenti della mano, resi un po’ disordinati dall‘eccitazione e dalla piacevole sensazione di annebbiamento che andava pian piano ad offuscargli i sensi.
Una mano di Erik, risalì la sua spina dorsale sotto la canotta e si aggrappò alla sua spalla. A Charles non restò altro che girare il viso  con un movimento indolente e cercare la sua bocca, in un lento e prolungato scontro di lingue e denti, mentre le sue spinte rallentavano, cosicché lo sfregare sempre più arrendevole dei loro corpi sulle lenzuola stropicciate e i lievi gemiti -che Charles cercava di trattenere, quelli di Erik erano soffocati-, divennero gli unici suoni della stanza.
Un verso rotto gli sfuggì dalla bocca. Incrociò gli occhi di Erik, semiaperti, intenti a guardarlo. Lo sentì dire il suo nome e Charles chiuse gli occhi, aggrappandosi a lui, la pelle madida che sfiorava duramente la sua. Non voleva venire prima di Erik, non voleva cedere così, perciò si concentrò e come sempre accadeva, una successione di pensieri -i pensieri di Erik- confusi e annebbiati, rapidi e dio, maledettamente belli da contemplare, fiorì e morì nella sua mente, in una sequenza veloce che lo lasciò affascinato e stremato.
S’inarcò su e dentro di lui con uno scatto, trattenendo un gemito, schiacciando la testa nell’incavo della sua spalla. Sentì la voce strozzata di Erik poco dopo, mentre la mano che lo teneva gli si riempiva di liquido caldo. Charles sorrise, storcendo l’angolo della bocca, quasi in una smorfia.
Percepiva i fremiti di Erik sotto di lui contro il suo stesso tremare, e il caldo era sempre più insopportabile.
Fu quasi una liberazione quando, con un ultimo colpo di reni e dopo aver incrociato gli occhi con quelli di Erik, un po’ lucidi, un po’ spossati, raggiunse l’orgasmo. Erik gli tenne un poco serrata la mascella con la pressione delle dita, cosicché Charles in uno scatto poco volontario, nascose il viso nel palmo della sua mano, serrando le palpebre.
Rimase curvo su di lui, anche quando Erik allontanò il suo braccio, dopo avergli asciugato un rivolo di saliva all’angolo della bocca. Inspirò profondamente, uscendo da lui e lasciandosi cadere al suo fianco, un po’ distante, le membra indolenzite mentre la sensazione di soddisfatta stanchezza, sostituiva pian piano quella di fremente eccitazione che  l’aveva pervaso fino a pochi momenti prima.
Ascoltò il respiro di Erik confondersi con il suo, mentre una fitta nell’addome si faceva sempre più pressante. Voleva averlo ancora vicino, solo vicino, e  tastando lo spazio di lenzuola umide fra di loro incontrò il suo braccio, stringendolo.
Lentamente, lo sentì girarsi verso di sé, il respiro ancora profondo.  
Erik si limitò ad abbracciarlo, ma era tutto quello che Charles voleva, adesso.
Lo sentì sorridere contro la sua guancia. “Sei stato bravissimo” mormorò, la voce un po’ troppo bassa.
Charles deglutì, ridendo sommessamente. “Sta’ zitto.”
“E’ vero” aggiunse ancora Erik, sollevando un poco il viso su di lui, di modo da poterlo guardare in volto. “Non mentirei mai su una cosa del genere.”
Charles lo guardò con gli occhi lucidi, appena socchiusi. “Tu menti?”
Erik gli sorrise di rimando, quel sorriso affilato un po’ malvagio, un po’ troppo carico di promesse, che con tutta probabilità gli avrebbe fatto tremare le ginocchia se fosse stato in piedi. Charles lo guardò incuriosito, tenendogli una mano sul ventre liscio, finché l’espressione di Erik non si distese, mentre si metteva a ridere.
“Non a te. Non potrei mai. “ Lo strinse per il polso, fino a lasciar scivolare la mano nella sua, intrecciando le dita.
“Devo sentirmene lusingato?” gli chiese Charles piano.
Erik gli lanciò un’occhiata ovvia. “Charles. Tu leggi nella mente, non potrei mentirti a prescindere.”
“Ah”  rifletté Charles un poco deluso, anche dalla sua stessa ingenuità. “Giusto.”
Restarono in silenzio per un po’. Charles sentiva che le palpebre cominciavano a pesargli e le luci delle lampade basse sui comodini, brillavano più vivide, lottando con le calde ombre della stanza, infastidendolo. 
I profili dei mobili lucidi emergevano dalla penombra e lui ne seguì i contorni, cercando di distinguere le sue cose mentre con la mano libera accarezzava la nuca di Erik, intento a baciargli piano la curva del collo, risalendo fino alla tempia.
Lo sentì staccarsi solo dopo un po’, mentre tirava le lenzuola e le coperte stropicciate su entrambi, aggiustandole attorno a loro, tirandole delicatamente su di lui.
Ringraziandolo con un sorriso lieve, lo pregò di riprendere il suo posto accanto a lui. Certo, Charles si sentiva i capelli un po’ flosci e la pelle appiccicosa, ma quando disse ad Erik che sarebbe volentieri andato a fare un bagno, Erik lo tenne solo più stretto.
E poi, Charles adesso era davvero molto stanco e l’idea di affrontare il buio e il freddo parquet, in direzione del piccolo bagno, apparivano un ostacolo insormontabile con Erik vicino.
Sempre con la mano di Erik stretta nella sua, si girò su un fianco, dandogli le spalle.
“Vuoi dormire?” mormorò Erik contro la sua pelle, da qualche parte vicino al suo orecchio.
Charles inspirò dal naso, sfregandosi la fronte con il dorso della mano libera. “Prima o poi mi addormenterò.”
Avrebbe voluto addormentarsi così, con Erik intento a baciargli il collo, leccandolo un poco sotto il lobo e sulla nuca, ma c’era un ultimo quesito che opprimeva la mente ormai già un po’ annebbiata dal sonno di Charles.
“Per te sono una bella persona?” chiese piano, sentendo una vaga stretta al torace nel porre quella domanda.
“Lo hai visto. Lo sai” mormorò tranquillo Erik, sfregando lentamente il naso con la sporgenza delle vertebre del collo di lui. “Sei molto più di quello, Charles. Per me.”
Charles annuì, un sorriso affiorante sulle labbra. Era così bello sentirselo dire da Erik, solo da Erik. Sembrava quasi vero, sembrava che i suoi difetti si riducessero ad insignificanti  e misere scalfitture.
“E’ un po’ come se tu fossi mio fratello, credo” mormorò Erik pensierosamente, avvicinando la mano che stringeva la sua al petto di Charles, sistemandosi un po’ su di lui, le loro gambe intrecciate.
Charles gli lanciò un‘occhiata girando la testa quel tanto che poteva. Un’occhiata un poco atterrita, un poco divertita.
“Questo sì che è perverso, Erik.”
Erik sospirò,la parodia di una smorfia infelice gli attraversò il volto mentre sistemava meglio il capo sui cuscini dietro di lui. “Dovrò davvero arrendermi al fatto che troverai allusiva qualunque cosa io dica, dunque?”
“Non sempre" rispose di rimando con un sorriso gentile. “E’ solo… curioso.” 
Erik fece un sospiro rassegnato. “Non so cosa sei, Charles. Non so cosa sei per me… Perciò posso solo andare avanti così. Non credo…” aggrottò la fronte, leggermente incupito. “Non credo esista una parola precisa.”
“Provaci.”
Lo sentì sorridere, una breve risata. “Domani, Charles. Tu devi dormire.”
“E tu no?” chiese, abbassando le palpebre e sfregando la testa sul cuscino schiacciato.
“Non finché non ti addormenti, Charles. Almeno, controllerò che tu non mi prenda a calci nel sonno.”
Charles rise sommessamente. Voleva ribattere con veemenza, ma la voce gli uscì solo molto assonnata. “Io non mi muovo mentre dormo…”
“C’è sempre una prima volta.”
Sollevò un poco la mano libera e con un cenno rapido, entrambe le catenelle d’ottone delle abat-jour si abbassarono docili, così come lui, stendendosi meglio contro Charles e il suo corpo tiepido.
Sentì che il respiro di Charles divenne presto regolare ed Erik credette che finalmente si fosse addormentato, ma poi lo sentì di nuovo mormorare, in apparenza rivolto al buio della stanza.
“E’ come se io fossi te?” 
“No, Charles” disse Erik in tono tranquillo nell’oscurità, chiudendo gli occhi. “E’ come se tu fossi qualcosa che mi è stato restituito.”
 
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La morte a Venezia, descrisse una breve parabola arcuata attraverso la stanza, prima di colpire con un rumore secco le cornici accartocciate sul comodino, facendole cadere a terra, sul parquet vecchio.
Ognuna cadde con suono deciso e metallico che si riverberò un poco nell’aria, ma non fu niente di più che un suono sterile che non produsse nemmeno fastidio.
Una pagina si strappò nel malaugurato atterraggio, e il frammento di carta color avorio, volteggiò fino a posarsi sul pavimento.
Charles lo calpestò con indifferenza, tornando nello studio e sedendosi alla scrivania semi sgombra, sentendosi solo molto stupido. Era un comportamento irrazionale e improduttivo. E non aveva senso, non da lui.
Tornò in fretta sui suoi passi, in camera, affrettandosi a raccogliere il libro e a passare il palmo sulla copertina, togliendo della polvere inesistente, sfogliandolo e cercando il segno della pagina strappata.
Il segnalibro messo da Erik era scivolato via, e Charles non aveva idea di dove andasse rimesso. 
Se l’avesse ascoltato, la sera precedente, invece di… Charles arrossì, abbassando il libro sul comodino, posandovi sopra il segnalibro spiegazzato. Se l’avesse ascoltato, avrebbe saputo dove rimetterlo, ma non l’aveva fatto.
L’aveva solo assecondato quando gli aveva detto di leggergli nella mente.
Voleva tornare indietro, tornare giù nel salone, tornare da Erik.
Di fronte all’idea di essere in conflitto con lui, l’idea di sacrificare Shaw, era un’inezia. Era un prezzo debole, e giustificabile. Nessuno si sarebbe lamentato se fosse stato tolto di mezzo, avrebbe aiutato Erik…
Ma non era vero, rifletté Charles. Non era affatto così che le cose andavano risolte ed Erik non era in grado di comprenderlo. Se Shaw fosse morto, Erik non sarebbe stato comunque libero.
Era tutto nella sua testa e nel suo cuore, era colpa dell’odio che gli impediva di vedere le cose come stavano, gli impedivano di trovare una soluzione umana per risolvere la questione.
Erik era una brava persona. Per questo, Charles si rifiutava di credere che non potesse accettare una soluzione più semplice, più semplice e diplomatica. Era il dolore, a distorcere la sua percezione.
E s’intestardiva a pensare che Erik non avrebbe mai dovuto farlo, perché non sarebbe più tornato indietro.
Non sarebbe più tornato da lui, una volta ottenuto quello che davvero Erik voleva.
La morte chiama morte, aveva letto Charles da qualche parte, ma era falso, era una menzogna per chi non viveva nella vita reale. L’idea della vendetta, così come la intendeva Erik, era un’idea distorta ed infantile, il sogno di un ragazzino a cui era stato portato via tutto, troppi anni prima.
Nella testa di Erik non c’era altro, o c’era spazio per poco altro. Era un dubbio atroce, per Charles.
Ma poteva, doveva pur comprendere che esistevano altre possibilità, altre strade…
Lui stesso non poteva non incolparsi. Era stato anche un suo errore, perché Charles aveva chiuso gli occhi, di fronte a tutto quello che in realtà doveva passare nella testa di Erik. 
Era vero, per un po’ aveva messo da parte quella parte di Erik che non aveva voluto vedere, quella parte che lui gli aveva mostrato sporadicamente. Quella dominata dalla rabbia.
Perché Erik non era quello. Erik era Erik quando stava con lui, non quello che Shaw l’aveva fatto diventare. 
Non era stata solo una parentesi fra loro. 
Charles sarebbe stato pronto a tutto per dimostrarlo, ma adesso, non ci riusciva. Non voleva arrendersi, doveva solo organizzarsi; aveva bisogno di una soluzione, doveva parlare con Erik… 
Ma ne era anche intimidito e l’unico reale sollievo adesso, sarebbe stato riuscire a smettere di pensare.
Chi cercava di stare con lui, finiva sempre col calpestarlo o non capirlo, ed entrambe le opzioni erano terrificanti, perché presupponevano una dose d’indifferenza che Charles non sarebbe mai riuscito a comprendere, né ad accettare.
E Charles, a sua volta, non poteva tenersi nessuno vicino, perché nessuno era come lui, nessuno era in grado di conoscere gli altri meglio di lui. Erano solo specchi tra loro e l’unico vero in quel mondo di riflessi era Charles, l’unico in grado di vederli per ciò che erano. 
Tranne che con Erik, perché Erik era come lui, doveva essere come lui. 
Ed era stato Charles ad adeguarsi a lui, sentendosi ricambiato perché Erik era ciò che Charles cercava e lo stesso era per lui. Gliel’aveva detto. Odiava, la sola idea della distanza tra loro.
Ma non era stato così…
Aveva condiviso pensieri, ore, discorsi e ipotesi su quello che si prospettava davanti ad entrambi, ma l’unico risultato quale era stato? Doverlo lasciare indietro, prima di essere abbandonato a sé stesso.
Non era affatto una persona migliore. 
Era un egoista e un ipocrita, perché voleva solo che Erik stesse con lui.
A cosa serviva tutta quella correttezza morale, tutta quell’integrità e quelle sue belle parole, se non a nascondere il fatto che lo desiderava? In quel modo così viscerale e profondo che Charles chiamava amore, ma era ben oltre quella semplice affinità, quei banali eppure dolorosi scambi di sguardi…
A cosa serviva essere migliori, pensò Chares, se non riusciva a tenere vicino a sé la parte migliore di sé?
Il suo sguardo attraversò la stanza, posandosi sulle sedie, sulle sue cose, sui mobili… sul letto rifatto velocemente.
Non c’era niente di Erik, niente davvero suo in quella stanza. Non lasciava mai niente, come se non ne avesse bisogno, era legato così profondamente a Charles… ma ora il fatto che non lasciasse alcunché, divenne una considerazione amara.
Aveva pensato che Erik si sarebbe preso cura di lui. Che non l’avrebbe lasciato solo, perché anche Erik si sentiva nel medesimo modo, gliel’aveva detto… Ma non era mai stato vero. Era così afflitto dal quel triste pensiero…
Charles si avvicinò alla mensola dove teneva tutte quelle scatolette che sua madre, nella sua volontà, nel suo desiderio di prendersi cura di lui, gli aveva dato.
Promettevano il paradiso, promettevano l’oblio, gli diceva, contraendo le labbra lucide di rossetto -sempre rosse, sempre perfette- in un sorriso gentile. Ed era sincera, in parte, perché i suoi occhi non gli avevano mai mentito e nemmeno i suoi pensieri. Era quella la soluzione.
Non pensare, smettere di ascoltare sé stessi e la confusione.
Lasciare che le cose scivolassero via, perché tutto aveva il suo corso, indipendentemente da lui.
Bastava solo accettarlo.
 
 
 
 
 
CONTINUA….
 
Angolo delle Osservazioni a Casaccio
 
Innanzitutto, scusate. 
Stando al conta lettori presente nella mia dashboard, dovrebbero esserci un po’ più di quattro gatti in attesa di questo capitolo. Incredibile eh?
Siete anche voi tra coloro che lo aspettavano?
Oltre al fatto di dover affrontare numerosi impegni, creati con simpatia dal mio corso universitario, e dal fatto che spesso e volentieri ultimamente la mia vita sociale si consuma al tavolino di un bar a sorvegliare Campari, ci ho messo un po’ a concludere quest’ultimo capitolo. Perciò, perdono!
Avevo detto da qualche parte che questa sarebbe stata l’ultima parte a Westchester e bè…
Mentivo. Sono stata così presa a scrivere da essermi accorta che avevo prodotto un numero fin troppo alto di pagine, perciò ho deciso di spezzare il III capitolo in un’altra parte ancora. 
Come leggete, l’ultima notte a Westchester non è ancora finita. E ancora non so se è un bene o un male.
Finisce sempre con Charles che cerca di uccidersi (Maybe). Che brutto cliché.
La brutta notizia è che nelle prossime settimane avrò un paio di esami da dare e l’università con cui rimettermi in pari, quindi non vi so’ dare una data precisa per il nuovo capitolo, se non invitarvi a controllare… 
Verso la fine di ottobre.
Scusate, ma sappiate che la prima ad essere rammaricata di questo, sono proprio io.
Le mie annotazioni sul capitolo sono alquanto ristrette. Come avrete notato, è il capitolo con la maggior parte di dialoghi -spero credibili- e credo riferimenti ad alcolici e libri (Dostoevskij e Mann) . Coff coff.
Niente situazioni semi autobiografiche, grazie al cielo.
So di aver rischiato grosso nella scena del ballo, che ballo non è stato… Era un po’ troppo da FF, vero? Però alla fine questa è davvero una FF, quindi mi sono regolata di conseguenza.
E’ assieme all’altra scena -Voi sapete quale…- uno degli intermezzi per alleggerire questo altrimenti triste e malaugurato capitolo. Avrei dovuto essere coerente e descrivere solo il disagio… ma non mi sembrava poi così entusiasmante. Ho voluto concedere loro un po’ di spensieratezza, diciamo.
Ringrazio Bloody Very per l’indiscutibile supporto fornitomi per questo nuovo capitolo. E’ incredibile quello che due righe di apprezzamento possono spingerti a fare, n’est pas?
Ringrazio anche coloro che recensiscono e leggono la mia storia, confidando sempre che la troviate piacevole e bella da leggere.
 
Alla prossima,
 
Exelle
 
(*) dialogo preso pari paro da X-Men, First Class
 
 
  
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